L'Uno-Tutto: una dimostrazione logico-filosofica a fondamento della fratellanza universale

 

« Chiamiamo sapere il conoscere mediante dimostrazione. Per dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico, e scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo. » (Aristotele, Analitici secondi, I, 2, 71b)

 

di Marco Morrone

 

H. Matisse, "Donna con cappello", 1905, particolare
H. Matisse, "Donna con cappello", 1905, particolare

 

L’alterità o separazione è la più irriducibile delle parvenze. Che io sia io e che di fronte a me si stagli un Mondo altro da ciò che sono è oggi convinzione così profondamente radicata nell’uomo, così viva nel suo sentire e agire, da non lasciare adito a dubbi o contestazioni, persuasive o autorevoli che siano. La corporeità fisica, fondamento del senso dell’individualità, confina il soggetto in un isolamento pressoché assoluto, che ne esaspera l’egoismo fino a scadere nell’ingenuo pensiero “Perisca il mondo purché io stia bene e viva felice”.  

Come nel celebre quadro di Matisse Donna con cappello (1905), l’uomo di oggi avverte dunque distintamente la marcata linea di contorno che lo separa dalla realtà circostante. Egli arriva pertanto a considerarsi un essere a sé, esistente grazie all’opera della Natura ma da essa ormai affrancato. La percezione restituitagli dai suoi organi di senso, il giudizio fondato su di essa, ne accentua poi infinitamente l’opposizione, spingendolo alla conclusione che solo una remota parentela e una scialba affinità sussistono tra lui e l’universo in cui vive. 

Millenarie tradizioni filosofico-sapienziali e mistico-esoteriche d’Oriente e d’Occidente raccontano però all’uomo moderno una diversa e opposta verità. Su tutte, quell’immenso patrimonio di conoscenze metafisiche raccolte nei tre più importanti testi sacri della religione induista – i Veda, le Upanisad e la Bhagavadgītā – rivelano che la separazione tra gli enti e l’infinta molteplicità del reale sono solo una potente illusione posta in essere dalla coscienza creatrice della divinità. L’induismo suole indicare questo gioco (līlā) illusorio delle forme materiali inscenato da Brahman, nome attraverso il quale l’indiano esprime il nostro concetto di Dio, ossia dell’unico Assoluto radice e fondamento di ogni realtà esistente, con il sostantivo femminile sanscrito māyā. Esercitando il magico potere di māyā, Brahman nasconde dunque la propria vera essenza, proiettandosi in una molteplicità apparente che lo fa sembrare diverso da quello che è, cioè come io singolo e come mondo: «Strofe, offerte, sacrifici, voti, passato, futuro, ciò che dicono i Veda: da ciò il mago (māyin) crea tutto questo universo e in ciò l’altro (l’anima individuale) è tenuto dai lacci dell’illusione (māyā). Bisogna dunque sapere che l’illusione è la natura e il grande Signore (maheśvaraṃ) è il mago. Tutto questo mondo è compenetrato di entità che sono particelle di lui». (Śvetāśvatara Upaniṣad, IV, 9-10) 

Svolta questa breve introduzione, passiamo ora a illustrare la dimostrazione che dà il titolo all’articolo, dimostrazione che mi auguro possa offrire una rigorosa base logica-filosofica (e dunque scientifica) alle mirabili intuizioni custodite nelle antiche opere sapienziali citate. 

 

DIMOSTRAZIONE DELL'UNO-TUTTO

 

Ognuno di noi, riferendosi a se stesso, può naturalmente dire: «Io sono ciò che sono». Allo stesso tempo, in senso inverso, ognuno di noi però può anche dire di se stesso: «Io sono ciò che non sono». Se la prima enunciazione non presenta difficoltà interpretative, la seconda ci pone invece in una situazione di grave imbarazzo, di bisticcio logico, poiché determina l’innescarsi di un cortocircuito in ragione della sua evidente paradossalità: sostenere che io sono ciò che non sono porta infatti alla dissoluzione della mia identità individuale, una volta pronunciata di me non resta Nulla. Io sono ciò che non sono è dunque a tutti gli effetti la formula che annulla la mia singolarità (Ego). Più avanti spiegherò come la perdita (o vuoto) della propria individualità, di se stessi, sia in realtà l’acquisto (o pieno) di una individualità e singolarità più alta – la reale scoperta di chi siamo veramente. 

L’urgenza che avverto ora è invece aiutare il Lettore a superare la difficoltà presentatagli con la seconda enunciazione, restituendo così anche al suo giudizio l’altissimo senso che possiede. Per farlo, basterà che modifichi di poco la costruzione della frase, senza però alterarne il senso e l’idea: «Ciò che non sono, sono»: ciò che non sono – non sono mio padre, non sono mia madre, non sono mio fratello Attilio, non sono il mio amico Mario; non sono l’albero, la casa, l’auto, la penna, la sedia, il tavolo, la strada, le nuvole, il mare, la pietra –, sono: Marco. Proprio perché non sono tutti gli altri infiniti elementi dell’insieme universo io sono me stesso, Marco. Se fossi loro o uno degli enti indicati non sarei più io, Marco. Dunque, «Ciò che non sono, sono». 

 

Con questa prima delucidazione sono certo di aver allontanato definitivamente ogni equivoco e fraintendimento, nonché respinto probabili accuse di irrazionalità e non senso. 

Il lavoro svolto sul filosofema non si esaurisce però qui, perché all’analisi questo si rivela particolarmente ricco, e dunque suscettibile di una nuova interpretazione, vera ed esatta quanto la prima, che noi in un primo momento abbiamo però ricusato perché contraddittoria al massimo grado: se “ciò che non sono, sono”, o anche, come abbiamo detto, “sono ciò che non sono”, io, Marco, sono dunque mio padre, mia madre, mio fratello Attilio, il mio amico Mario; sono l’albero, la casa, l’auto, la penna, la sedia, il tavolo, la strada, le nuvole, il mare, la pietra – ossia ciò che non sono.

Il gioco logico, se mi è concesso usare quest’espressione, è dunque fondato sul presupposto che il filosofema si presta a una duplice lettura. Entrambe le interpretazioni sono corrette, anzi si inverano e completano a vicenda: ognuna di esse fa infatti riferimento a un diverso piano o grado di realtà, ordinario la prima (Relativo), metafisico la seconda (Assoluto), che invece di escludersi reciprocamente formano un tutto completo e armonico. La prima lettura giunge dunque alla definizione dell’identità individuale attraverso la negazione ripetuta (“non sono… non sono….” – neti neti); la seconda invece rimane ferma al suo senso letterale immediato e paradossale: e cioè affermare di essere ciò che non sono

 

Testo e illustrazione del Bhagavad Gita
Testo e illustrazione del Bhagavad Gita

 

Ritornando alla dimostrazione, non ci resta ora che tirare sillogisticamente le somme: se di me stesso posso dire (premessa maggiore): «Io sono ciò che sono» e di me stesso posso anche dire (premessa minore): «Ciò che non sono, sono/ sono ciò che non sono», di me stesso posso dunque dire (conclusione quod erat demonstrandum) che: «Sono ciò che sono e sono ciò che non sono». Se posso legittimamente affermare ciò – e abbiamo dimostrato che siamo autorizzati a farlo – di me stesso io allora posso dire di essere il TUTTO, perché sono sia ciò che sono e anche ciò che non sono[1].

Il ragionamento svolto dimostra perciò che io sono il Tutto, l’Assoluto – Dio. Questa, molto semplicemente, è dunque la dimostrazione dell’Uno-Tutto, la vera e sola Teoria del Tutto (Hawking) che la Scienza per le proprie vie tenta invano di scoprire: «Perché non v’è là che Uno, e dove è Uno è tutto, e dove è il tutto è l’Uno» (Meister Eckhart, Sermoni tedeschi[2]).

Voglio subito rispondere a quanti potrebbero sollevare obiezioni circa la sospetta e delicata asserzione «Io sono l’Assoluto, Dio». Con questa non intendo affatto suggerire l’idea di una integrale e panteistica risoluzione dell’uomo in Dio e viceversa; no, l’affermazione vuole piuttosto significare che io sono quel che Dio è, e che Dio è quel che io sono, e cioè che tra me e il divino vi è identità essenziale ma non sostanziale.

L’antica sapienza indiana tramandataci dai tre testi menzionati indica questo riconoscimento, questo rispecchiamento dell’Io in Dio (Autocoscienza) e dell’Io nel Mondo e del Mondo nell’Io con le altissime formule: «Tat Twam Asi» (Quello sei tu ), «Aham Brahmasmi» (Io sono Brahman) e «Ātman è Brahman», intendendo con Ātman l’Io vero dell’uomo (diverso dunque dall’Ego), identico al Brahman[4]

Quanto detto è ancora più vero se si pensa che Dio stesso potrebbe dire di Sé: «Io sono ciò che sono e sono ciò che non sono», ovvero: «Io sono l’Essere e anche il Non-Essere»[5].

Arrivati a questo punto è bene ricordare che l’identità Io-Dio-Mondo non è un lascito della sola sapienza orientale. In Occidente, l’Uno come Principio indicante l’identità e unità del Tutto è tema centrale della riflessione filosofica, solo per fare alcuni nomi, di Pitagora (Apollo, a-pollá, cioè non molti, era il nome simbolico con il quale i pitagorici indicavano l’Uno), Parmenide, Eraclito («da tutte le cose l’uno dall’uno tutte le cose», Fr. 69) Platone, Plotino, Cusano[6], Bruno, Spinoza, Hegel. In particolare, il principio eleatico dell’En Kai Pan, formula greca con la quale si indica appunto l’identità dell’Uno col Tutto, era molto cara a Goethe, il quale cercava in ogni regno della Natura quell’Uno dal quale Tutto si lasciasse derivare (si leggano in particolare le pagine romane del suo Viaggio in Italia).

 

Nell’ultimo secolo anche la fisica quantistica ha iniziato ad aderire a una visione del cosmo speculare a quella tramandataci dalle antiche Scienze spirituali e filosofiche. Non a caso oggi vediamo moltiplicarsi studi e saggi teoretici che ammettono l’ipotesi, fino a pochi anni fa considerata fantascientifica, che l’universo in realtà non sia realmente diviso e molteplice, ma che divisione e molteplicità siano solo una illusione impostaci dai sensi. Gli esperimenti effettuati in tal senso hanno corroborato la teoria. Si pensi alla scoperta che due particelle “legate” tra loro (originate per esempio dallo stesso atomo radioattivo) mantengono la capacità di influenzarsi anche a grande distanza in maniera istantanea (entanglement). Una relazione di questo tipo viene definita dagli scienziati “non-locale”, perché le particelle sono collegate tra loro al di là dello spazio e del tempo. In un sistema quantistico di questo tipo si è poi visto che modificando un elemento si modifica istantaneamente tutto l’insieme, lasciando quindi trasparire l’idea che Tutto in fondo sia Uno e che l’Uno sia nel Tutto. Nei modelli quantistici la totalità è dunque contenuta in ogni singolo punto, e ogni ente reale è in relazione di identità con qualunque altro ente reale. Da qui la formulazione di ipotesi come quelle olistica e olografica, che in questa sede intendo solo richiamare.

 

Suggello quanto esposto con i versi di Dante, che meglio di altri restituiscono l’idea e il senso della dimostrazione: «Quella circulazion che sì concetta / pareva in te come lume riflesso / da li occhi miei alquanto circunspetta / dentro da sé, del suo colore stesso / mi parve pinta della nostra effige / per che ‘l mio viso in lui tutto era messo» (Divina commedia, Paradiso, Canto XXXIII).

 

Il Paradiso di Dante illustrato da Gustave Doré
Il Paradiso di Dante illustrato da Gustave Doré

 

Faccio ora un passo indietro e adempio la promessa di spiegare perché la perdita dell’identità individuale (Ego), per intenderci quella che ricade sotto un nome e un cognome, si commuti nell’acquisto di una singolarità più elevata (Io o Sé). 

Con la dimostrazione offerta ho illustrato ciò che accade all’uomo che, trascendendo se stesso, arrivi a liberarsi della sua veste individuale. Come corollario e chiarimento, voglio qui aggiungere che la morte della soggettività relativa determina immediatamente il sorgere della soggettività assoluta: da un io che ordinariamente l’uomo dice e sente di essere, dopo l’annientamento del suo Ego egli scopre di essere ancora un Io, ma un Io di natura affatto diversa, ben più elevata: la Logica Superiore vuole infatti che l’uomo non possa essere diverso da se stesso, tanto nel tempo quanto nell’eterno, e perciò che l’Io con il quale si designa nella realtà spazio-temporale sia essenzialmente identico all’Io nel quale egli si riconoscerà nella dimensione eterna. Alla domanda: “Puoi tu non essere, concepirti diverso da un io?”, la Logica Superiore risponde: “No, mai: io sarò sempre Io”. La morte o annientamento del piccolo io determina dunque la nascita del grande Io, ovvero di Quello che nel Prologo del Vangelo di san Giovanni e da Eraclito è indicato come il Logos del mondo. (“Io sono colui che sono” viene rivelato a Mosè dalla voce nel roveto ardente).     

Tra le molteplici possibilità applicative della dimostrazione l’occhio attento avrà poi di certo scorto quella che riguarda la corrispondenza tra microcosmo (uomo) e macrocosmo (universo), corrispondenza che, inutile ricordarlo, nella Mistica, nella Metafisica e nell’Esoterismo di ogni tempo e luogo è considerata vera e propria pietra angolare della retta visione dell’uomo e dell’universo: se io sono ciò che sono (formula base del microcosmo), l’universo è ciò che è (formula base del macrocosmo), e io sono anche ciò che non sono, ovvero, detto altrimenti, io sono ciò che l’universo è (formula che risolve in una sintesi superiore le due precedenti), allora quale microcosmo io mi riscopro macrocosmo: «Noi sogniamo di viaggi per l’universo: ma l’universo non è in noi? Non conosciamo le profondità del nostro spirito. – Verso l’interno porta la via misteriosa. In noi o in nessun luogo sta l’eternità con i suoi mondi, il passato e l’avvenire». (Novalis, Frammenti).

 

Concludo.

Nel Cantico delle Creature, forse l’inno alla vita più intenso mai composto, san Francesco d’Assisi celebra le opere di Dio apostrofandole amorevolmente fratello e sorella. Un traboccante sentimento di fratellanza universale pervade tutta la lode del santo: diversamente dalla gran parte di noi, l’altissimo spirito di Francesco seppe riconoscere nel cosmo se stesso, sentì che la Vita che vive nelle creature che lui amava non è altra rispetto alla Vita che si manifestava in lui.

Francesco non era un filosofo, non costruiva a tavolino dimostrazioni logiche. Non voleva neanche stendere le poche regole del suo ordine, figuriamoci impegnarsi in altro. Come Bruno secoli dopo, egli sperimentò però potentemente nella sua anima quello che noi abbiamo cercato di illustrare in queste poche pagine, e cioè che la fratellanza è identità tra me e te, tra me, te e il creato. Essa è dunque più di un concetto astratto e vago, più di un semplice sentimento religioso: è realtà logica e filosofica. Nel Cantico Francesco espresse tutto questo con il cuore, noi oggi con la testa. 

La dimostrazione dell’Uno-Tutto è dunque il fondamento filosofico, il principio teorico della più famosa delle preghiere francescane, il terreno logico dal quale far fiorire un profondo e reale sentimento di Fratellanza Universale. La sua lode fu un meraviglioso canto dello Spirito, e in un certo senso anche la nostra dimostrazione lo è.

Se Francesco visse con le opere il comandamento dell’Amore lasciato agli uomini dal Cristo Gesù, “Ama il prossimo tuo come te stesso”, noi oggi lo abbiamo rivissuto nel Pensiero. Il nostro è un frammento di Vangelo filosofico.

 

« Si perda il Singolo, con cuore ardito,

per ritrovarsi nell’Infinito,

ove ogni tedio si scioglierà.

Non si può desire, sforzo, volere,

gravoso esigere, aspro dovere:

abbandonarsi è voluttà.

Alma del mondo, t’infondi in noi!

Lo Spirito stesso del Mondo poi

affronteremo, quale chi può.

Geni benevoli, su, senz’affanno,

lieve traendoci, ne condurranno

a Lui, che il tutto crea e creò.

E a ricreare sempre il creato,

sì che non resti come impietrato,

vibra l’eterno libero Far.

Ciò che non era, presto diventi

splendidi Soli, terre virenti:

negato affatto gli è di posar.

Muoversi deve, creando agire,

formarsi, ed altro poi divenire,

in apparenza scostando sol.

L’Eterno passa, veloce, in tutto,

ché tutto in nulla cade distrutto,

se nel suo essere persister vuol. »

 

(J.W. Goethe, L’Uno-Tutto, Dio e il mondo)

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1 « L'uomo è tutte le cose: se una gli manca / è perché non sa lui stesso la sua ricchezza. » (Angelo Silesio, Il pellegrino cherubico).

2 All’interno dello stesso sermone, poco più sotto Eckhart aggiungerà: «Notate ora una parola che ritengo assai bella: quando penso che egli è uno con me (leggi: Dio), come se avesse obliato tutte le creature, e non vi fossi altro che io solo!».

3 Da secoli l’Induismo non fa dunque che ripetere la frase di Uddalaka a suo figlio Svetaketu: «Quello sei tu» (Chandogya Upanisad).

«Questo Ātman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Ātman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo… Questo Ātman dentro il mio cuore è il Brahman stesso» (Chandogya Upanisad).

«Sono io che riscaldo, che trattengo o libero la pioggia; io sono l’immortalità e la morte; sono io, o Arjuna, che sono l’Essere e il Non-Essere» (Bhagavadgītā, Canto IX, verso 19).

6 La nostra dimostrazione fonda, esplicita e compie logicamente la concezione unitaria del Tutto e totalitaria dell’Uno che Cusano così espresse: «Filiatio igitur est ablatio omnis alteritatis et diversitatis et resolutio omnium in unum, quae est transfusio unius in omnia» (De filiatione Dei).

 

1 febbraio 2023

 




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