La speranza disperata di Francesco Bianconi

 

Francesco Bianconi ci guida in un tormentoso viaggio che parte dai primi album cantati con i Baustelle e arriva a Forever, ultimo disco solista. Il percorso tracciato dal cantautore non segue una linea retta, ma circolare: alla perdizione segue un nuovo inizio, da cui ripartiamo segnati dalla discesa negli abissi.

 

di Antonio Puddori

 

Francesco Bianconi in concerto
Francesco Bianconi in concerto

 

«Accorgersi/ Nel caos dell'ipermercato o in un beato megastore/ Della bugia /Che sta alla base del mondo in un secondo coglierlo/ Spogliato e crudo il Nulla» (Baustelle, Il Nulla), cantavano i Baustelle nel 2005. L’efficacia descrittiva di questi versi è a dir poco perfetta: a tutti noi è capitato (mi rivolgo soprattutto a chi ha avuto la “fortuna” di nascere in una metropoli), una di quelle noiose domeniche, dopo esserci buttati dentro un enorme supermercato (ora come non mai possiamo dire “fanno a gara a chi ce l’ha più grosso”), circondati da tante, troppe persone che corrono verso mete che sembrano ignote persino a loro stesse, di chiederci che senso abbia tutto questo. Anche se fuori è inverno, sentiamo tanto caldo da provare a toglierci il giubbotto, ma nel farlo tocchiamo per sbaglio un passante: ci giriamo per chiedere scusa e nel muoverci tocchiamo con la schiena qualcun altro dietro di noi, che subito sparisce inghiottito da sagome sconosciute. Accaldati, con limitata libertà di movimento, sudati e sempre più nervosi, ci sentiamo come animali in un allevamento intensivo. Diamo un rapido sguardo intorno e ci chiediamo che senso abbia tutto questo, ma non c’è tempo per rispondere: come il passante, veniamo inghiottiti dalla folla e dobbiamo continuare a camminarci assieme, perché a interrompere la marcia si rischia di essere calpestati. Allora giriamo i negozi, compriamo cose inutili, vediamo altre cose che compreremmo se solo avessimo i soldi sufficienti, ci segniamo quelli che potrebbero essere possibili regali per il prossimo Natale. A fine giornata, siamo talmente stanchi che la domanda se ne va con la stessa facilità con cui è venuta. Forse. O forse fingiamo che sia così perché la risposta sarebbe terrificante. A dir la verità, la risposta ci si è manifestata contemporaneamente alla domanda, ma da allora ci stiamo tappando le orecchie e stiamo canticchiando un motivetto allegro (qualcosa del tipo We Wish You a Merry Christmas). 

Che senso ha tutto questo? Nulla. 

 

Nietzsche, nella Gaia Scienza, ci racconta di un uomo folle che al mercato (oggi diremmo: al supermercato) rivela: «Dove se n’è andato Dio? […] ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso –voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!». Quello di cui parla Nietzsche «è un dio che è morto/ Ai bordi delle strade/ nelle auto prese a rate/ nei miti dell’estate» (Nomadi, Dio è morto)

Bisogna fare attenzione a non leggere l’assassinio solo come un avvento dell’ateismo; alla scomparsa di Dio corrisponde la comparsa di un ospite inquietante: il nichilismo. «Che cosa significa nichilismo? Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?» (F. Nietzsche, La volontà di potenza). Il nichilismo nasce con la presa di consapevolezza del fatto che l’edificio della nostra vita non ha fondamenta solide, e porta con sé, come naturale conseguenza, la morte di ogni precetto morale, di ogni punto fermo con cui orientarci. 

Se crollano le fondamenta, se muore Dio, ci sentiamo e ci troviamo come in una barchetta in mezzo al mare, senza fari che ci indichino la terraferma: in alto il cielo silenzioso, in basso gli abissi non meno minacciosi. Allora siamo tutti Charlie, viviamo tutti nel godimento del presente, senza la possibilità e la forza di proiettarci verso un futuro migliore, senza un’illusione a guidarci; siamo un po’ tutti che pensiamo: “Vivere non è possibile”: chi si perde nel punk, chi si perde nel crack, chi lascia un biglietto inutile con scritto: «La guerra è finita/ Per sempre è finita/ Almeno per me» (Baustelle, La guerra è finita).

 

I Baustelle hanno cantato il nichilismo e ce lo hanno fatto amare decorandolo con canzoni dalle melodie che si fanno subito intime e con personaggi che ci sembra di conoscere da sempre. Tutto perde di senso, la vita è inutile, ma è meravigliosa proprio per questo. Ne La vita, traccia del disco L’amore e la violenza, Bianconi canta: «Lo so, la vita è tragica/ La vita è stupida/ Però è bellissima/ Essendo inutile/ È solo immagine/ Un soprammobile/ Pensare che la vita non è niente aiuta a vivere» (Baustelle, La vita).

 

I Baustelle. Da sinistra: Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi, Claudio Brasini
I Baustelle. Da sinistra: Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi, Claudio Brasini

 

Ma qualcosa, con Forever (2020), il primo disco solista del cantautore, cambia. Tutte le canzoni rimandano a un superamento della condizione descritta poc’anzi. La più importante ai fini del nostro percorso porta un titolo curioso: “Il Bene”. È suggestivo il fatto che nella lista delle tracce occupi la prima posizione: è come se l’autore ci stesse dicendo che questo è il primo passo verso una rivoluzione della sua musica e del suo pensiero (qui il sottoscritto usa la parola “rivoluzione” tenendo a mente che essa deriva dal latino revolvere, ovvero “volgere indietro”, “ritornare”). Infatti, qui, la stessa voce che nel 2005 si prestava a versi come: «Tutto è niente, l’Essere è/ Sotto il sole colpevole» (Baustelle, Il Nulla) canta: «E non lo dire mai a nessuno/ Che quest’uomo cerca il Bene» (Bianconi, Il Bene)

 

A questo punto, mi è sembrato costruttivo e calzante riportare per intero un’operetta di Giacomo Leopardi, tratta dalle Operette morali:

« Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

P. Almanacchi per l’anno nuovo?

V. Sì signore.

P. Credete che sarà felice quest’anno nuovo?

V. Oh illustrissimo sì, certo.

P. Come quest’anno passato?

V. Più più assai.

P. Come quello di là?

V. Più più, illustrissimo.

P. Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

V. Signor no, non mi piacerebbe.

P. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

V. Saranno vent’anni, illustrissimo.

P. A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

V. Io? non saprei.

P. Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

V. No in verità, illustrissimo.

P. E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

V. Cotesto si sa.

P. Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

V. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

P. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

V. Cotesto non vorrei.

P. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? 

V. Lo credo cotesto.

P. Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

V. Signor no davvero, non tornerei.

P. Oh che vita vorreste voi dunque?

V. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

P. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

V. Appunto.

P. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

V. Speriamo.

P. Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

V. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

P. Ecco trenta soldi.

V. Grazie, illustrissimo. »

 

Tutto sembra suggerire che l’anno prossimo non sarà meglio di quelli passati, non c’è motivo di crederlo, ma il passeggere compra l’almanacco più bello. Tutto sembra suggerire che il mondo sia vanità, che dietro ai campi di grano ci sia il Nulla e non Van Gogh o il Divino, eppure Bianconi cerca il Bene.

Se ci avviciniamo per vedere meglio, notiamo una certa somiglianza tra il passeggere e il cantautore, che dopo aver visto e toccato con mano le rovine di quello che credeva incrollabile è dovuto tornare su, ha dovuto comprare l’almanacco più bello, perché per continuare a vivere sentiva necessario credere in qualcosa, sperare («io vivo, dunque io spero», direbbe Leopardi).

Bianconi dice di non dirlo in giro, di non dirlo mai a nessuno, perché teme che questo potrebbe causare vergogna e derisione da parte dei più, ma lui cerca il Bene con la “B” maiuscola (richiamare Platone può essere un azzardo, ma a noi piace il rischio), e cercarlo, forse, vuol dire averlo già trovato.

Sempre nel testo della prima canzone di Forever già richiamata leggiamo: «Ma ogni agricoltore/ Dato il tragico disboscamento della Russia/ Ha il dovere di piantare almeno un albero/ E curarlo con la Fede, la Conoscenza e la Verità» (Bianconi, Il Bene). È un invito a coltivare una terra che inaridisce giorno dopo giorno, è un invito alla speranza disperata, all’illusione disillusa; è, in fondo, un invito alla felicità, visto che felice, come possiamo evincere dall’etimologia (da fèlix, ovvero “fruttifero”, “fertile”, “fecondo”), si può dire chi è produttivo, chi è fecondo, allora chi crede in qualcosa, quindi chi, come Bianconi, emancipato dalla condizione di Charlie, torna ad avere una qualche fede che lo spinga ad agire, a vivere. 

 

Il racconto che parte dai Baustelle e arriva a Forever inizia con un Ulisse che si perde nel Nulla. La band ci dipinge lo smarrimento con colori sgargianti, con musica che entra per restare nell’anima. Ma dietro la tela si svela la sofferenza dello spaesamento senza casa: c’è bisogno di un punto di appoggio, c’è bisogno di un dio (qui, come in tutto questo scritto, inteso in un senso più ampio di quello meramente teologico). Ecco che guidato da un’illusione, dalla fede, l’Ulisse riprende il viaggio, non per allontanarsi nel mare aperto, ma per tornare a Itaca, alla terraferma. 

«Perché noi tutti ormai sappiamo/ Che se Dio muore è per tre giorni e poi risorge/ In ciò che noi crediamo/ In ciò che noi vogliamo/ Nel mondo che faremo» (Nomadi, Dio è morto)

 

 

17 gennaio 2023

 









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