La guerra in Ucraina, tra propaganda e Bergson

 

La guerra nasce da un malinteso e può essere concretamente risolta solo restando all’interno di quello stesso malinteso.

 

M.C. Escher, "Vincolo d'Unione" (1956)
M.C. Escher, "Vincolo d'Unione" (1956)

 

L’altro giorno, per sapere come stesse proseguendo la guerra tra Ucraina e Russia, ho acceso la televisione su un programma di dibattito politico. Riporto le parole di uno degli ospiti: «quando si superano i confini di uno stato con i carri armati, si passa sicuramente dalla parte del torto. Non dobbiamo mai dimenticare che c’è uno stato aggressore e uno stato aggredito, e che non c’è nulla che possa giustificare questa aggressione». Questa non è solo una considerazione fra tante, ma, secondo quanto ho avuto modo di sentire fino ad ora, un pensiero che qui in Italia è condiviso se non dalla maggioranza, da molte persone.

 

All’interno del programma, tra gli invitati, anche una giornalista russa, collegata in videochiamata dal suo paese. Visto il “benvenuto” degli ospiti e del conduttore in studio, che continuavano ad accusarla di essere stipendiata dal Cremlino, di non essere libera di esprimere il suo parere e di fare propaganda filo-Putin, mi aspettavo di sentire assurdità e chissà quali menzogne; ma le mie aspettative sono state con mia sorpresa tradite: la sua analisi è stata ragionevole quanto quella dell’invitato schierato dalla parte opposta. In breve, ha spiegato che la guerra non è iniziata il 28 febbraio 2022 (giorno in cui la Russia ha dato il via all’invasione dell’Ucraina), ma molto prima, anni prima, e che noi non teniamo conto di questo perché, come direbbe Schmitt, «è caratteristico che la pace sia ridotta a finzione giuridica: la pace è tutto ciò che non è guerra, ma la guerra dev’essere solo la guerra militare di tipo antico, condotta con animus belligerandi. Una ben misera pace! Per coloro che possono imporre la loro volontà e piegare la volontà dell’avversario con strumenti di coazione e di dominio extramilitari, ad esempio economici, è un gioco da ragazzi evitare la guerra militare vecchio stile» (Carl Schmitt, Le categorie del politico). Insomma, con parole diverse possiamo dire che la parte schierata a Oriente rivendica il diritto di rispondere a un’offesa, anche se questa offesa non è un concreto attacco militare. Giusto per chiarirci (mi scuso per la semplificazione imbarazzante, ma il mio discorso, come si vedrà, non è finalizzato a descrivere con precisione la visione delle due parti), per la giornalista russa l’offesa si può individuare principalmente nell’avvicinamento della NATO (e quindi, secondo il suo punto di vista, dell’influenza statunitense) ai confini russi e nel conseguente “accerchiamento” subito da Mosca.

 

Per quanto riguarda le parole dette sull’aggressione della Russia, e quindi sul fatto che la Russia, in quanto aggressore, vada condannata a prescindere da tutto il resto, la giornalista ha trasmesso l'idea che «il senso di tutte queste preoccupazioni riguardo alla definizione dell’’aggressore’ e alla precisazione della fattispecie dell’’aggressione’ consiste nel costruire un nemico e nell’attribuire in tal modo un significato ad una guerra altrimenti priva di senso» (Carl Schmitt, Le categorie del politico). Con ciò ha fatto capire che pensare di comprendere le ragioni del conflitto focalizzando l’attenzione solo sull’aggressione militare significa compiere una semplificazione che ha come scopo quello di trovare nella Russia il nemico che vuole la guerra. «Invece è l’Occidente a volere la guerra», ha concluso l’invitata.

 

A questo punto, il conduttore ha preso parola: «Abbiamo sentito una ‘giornalista’ (più di una risatina si è sentita in sottofondo) russa che, dobbiamo ricordarlo, non è libera di dire quello che vuole. Infatti, in Russia, dobbiamo ricordarlo, non è consentito esprimere un’idea che vada contro le direttive del Cremlino». Dopo questa premessa, ridacchiando, un signore in studio ha subito aggiunto che «quella della collega (anche qui risatine in sottofondo) è solo propaganda».

 

Il conduttore ha poi fatto parlare un secondo opinionista, che ha esposto ragionevoli motivi per i quali sarebbe la Russia ad aver voluto la guerra (i motivi erano principalmente due: il fatto che la Nato sia un’alleanza difensiva e non offensiva, quindi la paura di Putin è in realtà una scusa che nasconde interessi economici; e il fatto che la Russia sia una realtà anti-democratica e che quindi non abbia nella sua essenza la propensione al dialogo democratico, che è l’opposto della guerra). Successivamente, anche lui ha aggiunto che «quella Russa è solo propaganda», confermando il detto secondo cui l’ideologia, come l’alitosi, è sempre degli altri e mai nostra.

 

Carl Schmitt (1888-1985)
Carl Schmitt (1888-1985)

 

Carl Schmitt ci dice che «La cosiddetta guerra totale supera la distinzione fra combattenti e non combattenti e, accanto alla guerra militare, ne conosce anche una non militare (guerra economica, di propaganda e così via), sempre come sbocco delle ostilità» (Carl Schmitt, Le categorie del politico). Se noi vediamo la guerra nella sua totalità, ci liberiamo dalla sfera delle argomentazioni private e psicologiche, cioè dalla banale visione del cattivo che inizia e quindi vuole la guerra, e cominciamo a cogliere il conflitto in modo politico e non morale.

 

Ovviamente, la visione morale ci dà l’impressione di risolvere molto più velocemente la questione, perché se il nemico è cattivo, quindi ha la volontà di fare la guerra, quindi sta dalla parte del Male, questo ci risparmia la fatica data dalla complessità (Putin ha invaso, quindi è lui la causa della guerra). 

 

L’allargamento del concetto di guerra a guerra totale, però, anche se ci permette di andare oltre la logica invasore-invaso, non ci emancipa dal bisogno di trovare l’origine della guerra (quindi, in fondo, il superamento della logica morale è solo illusorio). Ecco che il modus operandi rimane la ricerca di “chi ha iniziato per primo”, del “cattivo” (o del “nuovo Hitler”, dato che sia Putin sia gli ucraini, a seconda di quale campana suoni, sono nazisti). Il problema è che, come un “bastone a due versi” (per usare le parole di Schmitt), «ciascuno può argomentare per entrambi i versi e può impugnare il bastone ora per un capo ora per un altro» (Carl Schmitt, Le categorie del politico); la giornalista russa e l’opinionista che difende la visione occidentale potrebbero discutere anche per un anno di fila senza chiudere il cerchio: è colpa della Russia per x; ma la Russia ha fatto x perché l’Occidente ha fatto y; ma l’Occidente ha fatto y perché la Russia ha fatto z… e così all’infinito. La soluzione può essere solo politica, cioè si deve scegliere da che parte stare. Nessuno in buonafede, tuttavia, potrà mai dire che la parte da lui scelta sia indiscutibilmente giusta o vera; al contrario, questa scelta si può paragonare alla scelta di abbracciare un credo religioso piuttosto che un altro.

 

Ci troviamo così in uno stallo scettico, in cui non sappiamo valutare quale sia la parte giusta e quella sbagliata, perché le due posizioni si mostrano equipollenti. 

 

Forse un aiuto alla comprensione può arrivarci da Henri Bergson. Il filosofo distingue lo sguardo dell’intelletto (o politico) da quello dell’intuizione (che possiamo chiamare anche “sguardo biologico”). Se vogliamo essere sintetici, l’intuizione bergsoniana coglie la realtà immediatamente (quindi senza la mediazione delle parti) nella sua totalità e nel suo continuo divenire; l’intelletto, invece, genesi della dialettica e quindi del conflitto, coglie la realtà mediatamente, quindi attraverso la mediazione delle parti della realtà che “immobilizziamo” al fine di poterle quantificare.

 

Henri Bergson (1859-1941)
Henri Bergson (1859-1941)

 

Possiamo illustrare la differenza tra queste due facoltà (intellettiva e intuitiva) richiamando le categorie che la narrazione sul COVID-19 ha usato: il virus è stato descritto come un “nemico invisibile” contro cui “fare la guerra”. Siamo davanti alla “politicizzazione della biologia”. Nella visione politica (o intellettiva), infatti, descriviamo moralmente il virus come “nemico” e “cattivo” rispetto all’organismo “buono”; insomma, contrapponiamo i due soggetti/oggetti: uno sarà Bene, l’altro sarà Male. L’approccio biologico (quello che Bergson chiama “intuitivo”), invece, non tratta il virus come antagonista dell’organismo, così come non tratta l’organismo come antagonista del virus: l’incontro fra i due non è veramente un incontro, perché i due non sono veramente separati; per l’intuito non è vero che l’organismo entra in contatto con l’alterità, perché rispetto all’organismo biologico non c’è un’alterità così come non c’è un Medesimo. Ecco che, non essendovi più contrapposizione, non ci possono più essere un buono e un cattivo. A “incontro” o “scontro” possiamo sostituire il termine “composizione”, dove la composizione produce un nuovo modo di funzionare del Tutto e non corrisponde all’arricchimento o al danneggiamento di una delle due parti.

 

Le due propagande, quella Occidentale e quella russa, condividono le premesse secondo cui ci sarebbero due soggetti (Nato, Stati Uniti o Ucraina e Russia) che si scontrano (o che si incontrano), e ci sarebbe un “cattivo della storia”. Se per esercizio intellettuale ci schierassimo dalla parte dell’Occidente, la Russia sarebbe per noi il corrispettivo di quello che è il virus contrapposto all’organismo. Questo lo sguardo politico o dell’intelletto. Ma se noi “biologizziamo” la politica, o semplicemente cogliamo la realtà intuitivamente (secondo l’intuizione bergsoniana), il risultato è che non esistono parti, non esistono blocchi contrapposti, ma esiste solo un flusso che trasforma il Tutto

 

Se quindi intuiamo il mondo nella sua irriducibile complessità, la risoluzione del conflitto scettico si risolve con il rifiuto di entrambe le posizioni e con un salto qualitativo del nostro modo di intendere gli eventi. Nessuna delle due parti ha ragione, non per sospensione del giudizio (epoché), ma perché entrambe «scambiano le notazioni parziali per parti reali, confondendo così il punto di vista dell’analisi con quello dell’intuizione, la scienza con la metafisica» (Henri Bergson, Introduzione alla metafisica). 

 

"Va bene l’intuizione e Bergson", si dirà, "ma i carri armati hanno superato il confine e la gente muore. In che modo lo sguardo intuitivo può aiutarci a risolvere il conflitto meglio di quanto possa fare quello intellettivo?" In nessun modo, risponderebbe lo stesso Bergson (purtroppo non possiamo chiedergli conferma in prima persona). Infatti, se è vero che l’intuito ci mostra la realtà per quello che è, è anche vero che la possibilità dell’azione presuppone l’ordine dell’intelletto. Per poter agire, il nostro spirito «sostituisce il discontinuo al continuo, la stabilità alla mobilità […]. Tale sostituzione è necessaria al senso comune, al linguaggio, alla vita pratica e alla scienza positiva» (Henri Bergson, Introduzione alla metafisica). L’intuito ci fa cogliere la verità del mondo, ma è l’intelletto che ci permette di agire all’interno di esso.

 

Torniamo così allo stallo delle due posizioni equipollenti, al “bastone a due versi” schmittiano. Ma, se Bergson ha ragione, ci torniamo arricchiti dalla consapevolezza che i cattivi sono cattivi solo per permetterci di essere buoni. Sappiamo che entrambe le parti sono in torto, e quindi che un possibile compromesso (o una “sintesi”) non potrà mai essere veramente “giusto”. 

 

Possiamo concludere dicendo che la guerra nasce da un malinteso e che può essere concretamente risolta solo restando all’interno di quello stesso malinteso. La metafisica, per Bergson, non si preoccupa di arrivare a una risoluzione del conflitto, ma di svelarci il malinteso che lo rende possibile.

 

 8 settembre 2022

 








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