Espressione e sublimazione. Perché si scrive di guerra?

 

Produrre arte non è mai un’attività neutrale. La letteratura non fa eccezione, tanto meno quando è di guerra che si scrive. Quali sono gli scopi, le intenzioni che vi sottendono?

 

di Stefano Vernamonti

 

 

1925, 1947. Questi sono i due anni che scandiscono temporalmente questo articolo: anni di pubblicazione di, rispettivamente, Guardia Bianca di Mikhail Bulgakov e Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino. Queste due opere hanno in comune, oltre al fatto di essere nate da scrittori che sono vere e proprie cornucopie letterarie del Novecento, il tema con il quale si confrontano, la guerra: nello specifico, la guerra civile in Ucraina alla fine della Prima Guerra Mondiale e la Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale.

 

L’attività artistica, nella quale la letteratura rientra a pieno titolo, a partire almeno da Platone ed Aristotele è protagonista di un filone di studi sterminato, alla base del quale c’è la convinzione che la caratteristica sostanziale del suo soggetto sia quella di essere in grado di rappresentare la realtà. L’arte è in prima istanza mimesis, imitazione delle cose. La creazione artistica e, nel caso specifico, quella letteraria, è perciò un rimodellamento, una «incarnazione più o meno libera di una realtà umana e materiale», come scrivono K. Janowska e M. Hybiak in un saggio sul Concetto di mimesi (va però almeno menzionato il fatto che Platone e Aristotele, pur partendo entrambi da questa premessa, giungano a due giudizi di segno opposto).

 

Una delle caratteristiche intrinseche della produzione artistica è dunque quella di essere legata indissolubilmente alla realtà, al mondo dell’artista. Da ciò si capisce perché l’arte abbia sempre avuto tra i suoi soggetti ricorrenti la barbarie per eccellenza: la guerra. La narrativa, in quanto forma d’arte, non fa eccezione. La guerra va raccontata perché appartiene, tragicamente, alla realtà nella quale chi ha scritto di guerra si è trovato a vivere. La voglia di imprimere su carta questa esperienza diventa un’esigenza, una necessità quasi incontrollabile. È il caso, ad esempio, di Italo Calvino, con il suo Il sentiero dei nidi di ragno (più in generale di tutte le tendenze neorealiste del ‘900, ma gli esempi sono davvero infiniti nella storia della letteratura). Nel piccolo cappello dell’opera, Calvino attribuisce la carica esplosiva dello scrittore proprio alla sua voglia di esprimere:

 

« Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appres allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo. Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce, lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del pentagramma. »

 

La voglia di espressione come chiave di lettura, che Calvino stesso fornisce, si riscontra nelle pagine del romanzo: gli occhi di Pin, di un bambino, se da un lato restituiscono un’immagine “di scorcio” della guerra partigiana, trasfigurata dalle necessità letterarie («per chi scrive la realtà diventa creta, strumento, e sa che solo così può scrivere, eppure ne prova rimorso», di nuovo dall’introduzione di Calvino al Sentiero), dall’altro riescono a non sacrificarne la sua realtà, la sua crudezza.

 

                            Italo Calvino (1923-1985)
Italo Calvino (1923-1985)

 La figura di Pin rappresenta semmai una scelta dettata dalla necessità di prendere distanza dal racconto autobiografico, nel quale Calvino si muoveva con difficoltà, come lui stesso riferisce; la trasfigurazione letteraria, l’invenzione, consente di adottare un punto di vista che paradossalmente riesce a superare l’inevitabile parzialità della pura memoria autobiografica partigiana, senza per questo rinunciare alla verità sociale dei fatti da raccontare. Anzi, sono proprio gli occhi di un bambino quelli capaci di cogliere gli aspetti più intrinseci e contraddittori della realtà, seppur attraverso quei “toni fiabeschi” che tanto caratterizzeranno soprattutto la produzione successiva di Calvino.

 

Tuttavia, a volte, raccontare il proprio tempo non è sufficiente per uno scrittore. La necessità di espressione sembra peccare di una irriducibile situazionalità dell’evento, che non rende giustizia né all’evento stesso, né alle forze umane coinvolte, né alle conseguenze generate. Avviene in questi casi una sorta di sublimazione del soggetto del racconto: un tentativo di trasferirlo in una dimensione senza tempo, di farne un exemplum valido per sempre.

 

La Guardia Bianca di Bulgakov è probabilmente uno degli esempi più suggestivi di questa sublimazione narrativa. Con questo termine non si fa però riferimento strictu sensu al meccanismo psicologico, descritto da Freud, che sposta la pulsione aggressiva o sessuale verso un oggetto, una destinazione non aggressiva o sessuale.

 

L’etimologia del termine può essere un’indicazione preziosa per comprendere questo processo a livello narrativo: con “sublimis” si intende infatti ciò che “orienta verso un punto di fuga nell’infinito, all’indeterminato”. La sublimazione può perciò anche rinviare ad una trasformazione che letteralmente porta il suo oggetto al limite, e dal basso (sub-, limen). Ed è esattamente ciò che Bulgakov tenta di fare, raccontando le lotte intestine ucraine: osservare la guerra sub specie aeternitatis, porla sopra e oltre il tempo, innalzandola dalla sua contingenza.

 

Per inciso, questo processo di sublimazione può coinvolgere tanto l’oggetto della scrittura quanto il soggetto, cioè lo scrittore. È a questo livello che si può innestare un confronto con il processo di sublimazione freudiano. Si veda a questo proposito l’interessante saggio di Eleonora De Conciliis Il custode delle metamorfosi. Per una critica strutturale della sublimazione.

 

Tornando al romanzo di Bulgakov, protagonista della sublimazione narrativa, è proprio attraverso questo processo che Kiev ad esempio, protagonista delle lotte fratricide, diventa nel romanzo la Città, l’Urbs, in un accostamento alla Roma imperiale che non è solo per così dire tematico (il crollo di un baluardo della civiltà è il leitmotiv che guida l’accostamento Kiev-Roma), ma da cui traspare il tentativo di allargare l’orizzonte temporale, di necessità limitato, del soggetto del romanzo.

 

È sempre nell’ottica di questa sublimazione che dunque si può leggere la scelta di inserire in epigrafe al romanzo un passo del libro dell’Apocalisse, che introduce al tema del giudizio universale; o ancora il largo utilizzo che Bulgakov fa del sogno, strumento per eccellenza nella trascendenza letteraria degli eventi contingenti su un piano superiore, atemporale; infine, la scelta di dedicare l’ultima immagine del romanzo non alla terra, teatro del terribile fratricidio russo-ucraino, ma al cielo, il “sipario di Dio”, al quale Bulgakov rivolge un accorato invito alla pace.

 

Mikhail Bulgakov (1891-1940)
Mikhail Bulgakov (1891-1940)

Non è (forse) un’esagerazione dire che la cultura occidentale nasce con il racconto di una guerra, quella di Troia. Da Omero ai giorni nostri, la guerra è passata e continua a passare attraverso numerosi mezzi: la propaganda, la menzogna, l’arte in ogni sua forma, le tradizioni orali, la scrittura.

 

Da un lato, la grande forza pedagogica di raccontare la guerra sta nella sua capacità di mettere il lettore nelle condizioni di vivere quasi in prima persona gli eventi incisi con l’inchiostro. Dall’altro, la capacità della scrittura di sublimare un evento, di trasformarlo in un monito al di fuori del tempo è uno degli strumenti più importanti per comunicare con un lettore universale: la leggibilità della scrittura dipende dalla sua ripetibilità in assenza tanto di un destinatario specifico quanto dell’autore dello scritto stesso. Scrive, a questo proposito, Jacques Derrida in Firma, evento, contesto:

 

« Un segno scritto, nel senso corrente del termine, è, dunque, una marca che resta, che non si esaurisce nel presente della sua iscrizione e che può dare luogo a una iterazione in assenza al di là della presenza del soggetto empiricamente determinato il quale l’ha, in un determinato contesto, emessa o prodotta. […] Allo stesso tempo un segno scritto comporta una forza di rottura col suo contesto, cioè con l’insieme delle presenze che organizzano il momento della sua iscrizione. Questa forza di rottura non è un predicato accidentale, ma la struttura stessa dello scritto. »

 

Ai lettori universali, alla generazione presente e a quelle ancora da venire, la Kiev martoriata di Guardia Bianca sembra chiedere di ricordare che tutte le guerre sono uguali, che una guerra giusta non esiste, che morire sotto le bombe anziché trafitti da una freccia non racconta nulla del progresso umano.

 

Soprattutto adesso, mentre il vento di guerra sembra di nuovo soffiare alle porte dell’Europa, abbiamo un gran bisogno di questi moniti fuori dal tempo.

 

 20 maggio 2022

 








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