Antropocene: l'uomo e la natura

 

La specie umana si è ricavata un suo ambiente proprio in mezzo alla natura, grazie alla tecnica. Ciò però comporta una forte interdipendenza tra i due mondi: l’uomo è dotato di libertà di azione, ma essa è sottoposta al tribunale della natura. A seconda di come decide di agire, il suo futuro prenderà pieghe differenti. 

 

 

Oggigiorno, la teoria dell'evoluzione darwiniana è la più accreditata: ogni essere animale discende da un comune progenitore e possiede caratteristiche a fronte di un adattamento dato da pressioni ambientali. Infatti, con il mutare dell’ambiente, solo gli individui con le caratteristiche migliori possono sopravvivere, garantendo una conservazione della specie. Questo comporta un altro elemento fondamentale: se risaliamo indietro nel tempo, giungiamo a un progenitore comune da cui tutto è dipartito nelle varie ramificazioni. In questo albero che racchiude ogni specie, anche l’homo sapiens rientra a pieno diritto, venendo infatti classificato come un animale.

 

Nonostante ciò, l’evoluzionismo non sembra soddisfare pienamente la definizione di uomo; sembra che manchi qualcosa che sottolinei la sua unicità in mezzo agli altri animali. Questa unicità è offerta dalla tecnica: la capacità che l’uomo ha di reinterpretare oggetti puramente naturali al fine di sfruttarli per i suoi scopi. Non si tratta di usare oggetti per quello che sono, o che vengono offerti con scopi già determinati dalla natura, ma anzi si tratta di applicare un transfer agli oggetti più semplici; lo stesso oggetto viene privato del suo ruolo naturale assumendo un nuovo significato. Questa peculiarità permette di costruirsi un ambiente nuovo, sconosciuto alla mera natura mirante solo alla sopravvivenza. Questo "mondo umano" ovviamente si poggia sempre sulle fondamenta della natura; senza questo punto fermo, non può esistere. Da ciò si deduce una stretta coesione tra i due ambienti, naturale e antropico: qualsiasi alterazione in uno dei due suscita cambiamenti anche nell’altro.

 

Ecco che l’avvento dell’uomo può essere visto come una tappa fondamentale dell’intera storia, tanto che in geologia si è coniato un termine per questa nuova era: “antropocene”. Uno dei primi a introdurre tale concetto è stato Stoppani nella seconda metà dell’800, anche se con una declinazione diversa da quella intesa oggi. Stoppani sottolinea come la nascita dell’uomo non sia stato solo un fenomeno naturale semplice, ma sia stato un vero connubio tra materia e principi morali ed intellettuali, permettendo quindi a questa nuova specie di avere un ruolo di rilievo capace di fronteggiare e tenere testa alla natura stessa, come una forza tellurica: 

 

Antonio Stoppani
Antonio Stoppani

« Ma il nuovo essere, insediato sul vecchio pianeta, il nuovo essere che, non solo come gli antichi abitatori del globo, riunisce il mondo inorganico all’organico, ma, con connubio affatto nuovo e misterioso, la fisica natura sposa al principio intellettuale e morale; questa creatura veramente nuova in se stessa, è anche pel mondo fisico un nuovo elemento: è una nuova forza tellurica, che, per la sua potenza e universalità, non sviene in faccia alle maggiori forze del globo. » (A. Stoppani, Corso di Geologia)

 

Questa unicità dell’homo sapiens deriva da una sintesi delle due precedenti concezioni: il creazionismo e il positivismo. Nella prima, l’uomo stesso viene visto come creato direttamente ad immagine e somiglianza di Dio, il quale ordina tutto perfettamente affinché ogni cosa possa permetterne la sua vita e tutto sia predisposto al suo comando. A questa visione biblica, si aggiunge il secondo paradigma, sviluppatosi lungo il XIX secolo: gli sviluppi a seguito della rivoluzione industriale hanno comportato un avanzamento tale del progresso tecnico, da poter rimarcare il dominio umano sul creato. Ogni cosa inizia ad essere vista con occhio analitico per poter essere sfruttata e affermare il dominio umano.

 

Ecco come le due concezioni finiscono per sovrapporsi: un mondo al servizio dell’essere umano creato e voluto da un'entità superiore che, a sua volta, ha fornito all’uomo stesso gli strumenti, ragione e intelletto, per diventarne padrone. Dalla scoperta della macchina a vapore fino all’uso della elettricità, egli riesce a mantenere testa alla natura, trovare risposte per ogni problema convogliando le stesse forze naturali lungo la direzione che più preferisce. Il progresso scientifico diventa portatore di un'utopia: ogni cosa sarà possibile coglierla fino in fondo razionalmente e usarla al meglio. Stoppani si fa portatore di questo collasso: pur essendo la prima di carattere quasi mitico e la seconda frutto di un progetto umano, seguono il comune fil rouge della unicità e peculiarità dell’uomo.

 

Al giorno d’oggi, a fronte della teoria della evoluzione e delle tragedie avvenute il secolo scorso a opera proprio del progresso scientifico, questa cornice appare superata, ma si denotano ancora dei germi di quella. Una prospettiva più vicina a noi viene avanzata da Wallace:

 

« Egli [l’uomo N.d.R.] è, in effetti, un essere a parte, poiché non è influenzato dalle grandi leggi che modificano irresistibilmente tutti gli altri esseri organici. E c’è di più; tale vittoria che si è conquistato per sé stesso gli conferisce un’influenza direttiva sulle altre esistenze. Non solo l’uomo è sfuggito alla ‘selezione naturale’; egli è anzi in grado di sottrarre parte di quel potere alla natura – potere che essa, prima della sua comparsa, esercitava universalmente. Possiamo presagire il tempo in cui la Terra produrrà solamente piante coltivate e animali domestici; quando la selezione operata dall’uomo avrà soppiantato la ‘selezione naturale’. » (A. R. Wallace, Origin of Human Races and the Antiquity of Man deduced from the Theory of Natural Selection)

 

L’essere umano è riuscito a ritagliarsi uno spazio unico nell’esistenza, uno spazio tale che gli consente di non soggiacere alla selezione naturale ma di resistergli, di sottrarvisi grazie alle sue abilità. L’uomo strappa parte del potere della natura dalla natura stessa, arrivando anzi a incanalarla verso i suoi scopi e i suoi voleri. Partendo da ciò, il passo è breve: un animale prodotto dalla natura è arrivato a poter indirizzare e modificare ogni equilibrio climatico, chimico, geomorfologico e biologico della Terra. Proprio in virtù di questa peculiarità, l’homo sapiens è considerabile una variabile di forte impatto sul pianeta Terra. Egli ha la capacità sia di mantenere, sia di alterare questi equilibri: il potere che si ritrova in mano a seconda di come viene usato può generare instabilità o garantire un’armonia. In entrambi i casi, avremo delle ripercussioni non solo sulla natura, ma anche sulla vita umana, come oggi è visibile in ogni dove.

 

Proprio questa ambivalenza del potere umano è al centro di Dune, romanzo scritto da Frank Herbert. La trama è molte lineare: la famiglia nobile degli Atreides approda su Arrakis, pianeta desertico, rendendolo la loro nuova dimora, a seguito degli ordini dell’imperatore Shaddam IV. Lo stesso imperatore teme il potere acquisito dal duca Leto Atreides, così decide di trasferirlo lontano dal suo pianeta d’origine dandogli una terra desertica spodestandola da un’altra famiglia nobile, gli Harkonnen, pur sapendo che tra le due famiglie esistono attriti. L’imperatore infatti vuole portare gli Harkonnen ad eliminare gli Atreides, offrendo un escamotage e dando sostegno ai primi in modo da non far piombare su di lui la diretta responsabilità. Le cose seguono il piano di Shaddam: gli Harkonnen assediano il palazzo degli Atreides uccidendo lo stesso duca Leto. Ma Jessica e Paul, rispettivamente concubina e figlio del duca, si salvano e, dopo aver ottenuto l’alleanza con i Fremen, popolo autoctono di Arrakis, e scoperti i brogli tra gli Harkonnen e Shaddam IV riescono a riprendere il controllo sul pianeta e a spodestare l’imperatore, prendendone il posto.

 

Scena tratta dal film Dune (2021)
Scena tratta dal film Dune (2021)

 

La centralità che assume Arrakis rappresenta perfettamente il rapporto uomo-natura: proprio le regioni aride offrono la possibilità di rendersi conto della interdipendenza e del potere che l’uomo ha in mano. Di fronte all’avanzamento della desertificazione, l’uomo avverte sia una grande libertà che un grande peso: libertà perché si rende conto di poter influire come meglio crede sull’ambiente, non avendo nessun limite vincolante verso questo, ma anche un grande peso perché ogni azione comporta un feedback, negativo o positivo. Ogni decisione influenza la terra stessa. A tal riguardo, Herbert propone una rappresentazione di due paradigmi contrastanti: gli Harkonnen da un lato e i Fremen dall’altro. Gli Harkonnen sono l’esempio classico di umanità che si impone con la forza sull’ambiente, che persegue solo i suoi obbiettivi di arricchimento sfruttando ogni cosa. Per quanto riguarda i Fremen invece, hanno un profondo rispetto per tutto ciò che esiste, per tutto ciò che permette la vita; non è un caso che abbiano costruito una religione attorno a ciò che permette questa: l’acqua. Abituati come siamo a poterne godere, a poterne usufruire liberamente (almeno, noi del ‘primo mondo’), viene data per scontata, come un qualcosa alla nostra mercé. Una religione fondata su qualcosa di non trascendente ma di immanente, di cui ognuno ha una chiara esperienza, può portare a porsi numerosi interrogativi sul tipo di uso che si fa di questa risorsa unica e indispensabile per la vita.

 

I due modelli offerti aprono due strade diverse che l’uomo può intraprendere relativamente al suo rapporto nei confronti della natura. Discriminante risulta essere l’orizzonte dei propri interessi entro cui ci si colloca. Nel romanzo, la modalità di scelta di una delle due strade, viene simboleggiata tramite un test molto particolare: il test del Gom Jabbar.

 

All’inizio del romanzo, Paul viene invitato dalla madre Jessica a compiere questo test. Consiste nel posizionare la mano all’interno di una scatola e resistere al dolore evitando di toglierla; nel mentre, un ago avvelenato, il Gom Jabbar, viene puntato al collo dell’esaminato: se dovesse togliere la mano, subito verrebbe punto e morirebbe in atroci sofferenze. L’obbiettivo del test è quello di sapere individuar gli esseri umani tra gli animali: un vero essere umano è colui che sopporta il dolore e quindi sarebbe disposto a sacrificarsi per gli altri, mentre un animale penserebbe solo al suo bene e quindi fuggirebbe, evitando di assumere obbiettivi più ‘nobili’ rispetto a inseguire una felicità immediata ma finendo per morire a causa sua (nel test, punto dall’ago velenoso).

 

Applicando l’insegnamento del Gom Jabbar in un orizzonte più ampio, possiamo collocare da un lato l’emblema del salvatore, colui che è pronto a sacrificare sé stesso per il bene altrui, dall’altro invece l’egoista, che pretende tutto e subito, limitandosi alla sua felicità a breve termine. La prima figura è incarnata proprio da Paul Atreides: riuscendo a sopportare il dolore, e quindi a riuscire nel test, può essere considerato un vero essere umano pronto a compiere il suo compito di Kwisatz Haderach. Questo Kwisatz Haderach corrisponde in tutto e per tutto ad un salvatore dell’umanità, il quale viene per purificare i peccati, non dell’animo umano, ma di carattere materiale, dalla soddisfazione edonistica dei propri desideri.

 

Frank Herbert
Frank Herbert

 

Herbert, lungi da una prospettiva di miscredenza o blasfemia, propone una visione profondamente umana: ognuno può essere un ‘messia’, non nel senso di essere “l’incarnazione di Dio”, quanto piuttosto nella capacità di comprendere, a fronte di un allargamento dei propri orizzonti, che non gira tutto intorno alla sola specie (umana) ma che ogni elemento naturale ricopre un preciso ruolo. Se questo ruolo viene rispettato, ecco che è possibile garantire un futuro per tutti, e non solo per i pochi che possono permettersi un godimento immediato.

 

Il problema però, è che l’umanità tende a comportarsi come gli Harkonnen, tende a voler soddisfare i propri bisogni a tutti i costi. Non c’è una ricerca di un equilibrio macrocosmico, quanto microcosmico. Ovviamente questa strada è la più semplice: potendo soddisfare i propri bisogni, l’uomo si distrae da una ricerca di senso della sua esistenza. Ogni azione così risulta una obliterazione della conoscenza, un godere di se nell’ora e nel qui. Se invece si adotta una prospettiva ampia, ecco che l’uomo si fa carico di un peso e di una responsabilità tali da dover aprire un confronto diretto con sé stesso e con ciò che ha fatto e che può fare. Questa seconda strada risulta essere più scomoda, più pesante da percorrere, in quanto comporta una rimessa in discussione di tutta la propria esistenza. Rimettersi in dubbio non è facile, e così si opta per l’altra, andando incontro all’autodistruzione.

 

Herbert ci mette sotto agli occhi un qualcosa di cui quotidianamente siamo testimoni, ma che non vogliamo accettare e anzi preferiamo continuare a rimandare. Herbert cerca di dirci che questi continui rimandi finiranno per schiacciarci, e quando vorremo fare un qualcosa, ormai sarà troppo tardi. Ma vuole lasciare aperta una speranza: come Paul alla fine riesce a vendicare il padre e ricostruire un ecosistema funzionante su Arrakis, anche l’umanità non è segnata da un destino tragico certo. La possibilità di cambiamento esiste sempre. 

 

21 giugno 2023

 








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