Evoluzione, Antropocene ed ecologia: una riflessione filosofica

 

Le trasformazioni avvenute nel mondo naturale a causa dell’azione dell’uomo sono oggi motivo di grande preoccupazione sia per la comunità scientifica che per la comunità sociale. Il declino della biodiversità, la distruzione di interi ecosistemi, l’inquinamento delle catene alimentari, fino ad arrivare agli effetti dell’innalzamento delle temperature, sono tutti fenomeni che rientrano nella nuova epoca dell’Antropocene. A tal riguardo la filosofia e la storia delle idee possono ancora svolgere un ruolo determinante per il dibattito pubblico, ricordando l’insegnamento di filosofi ed evoluzionisti del passato. 

 

 

Mentre scrivo questo articolo la pioggia è finalmente tornata a bagnare la mia città, Roma. Ormai stava facendo sentire la sua mancanza da circa un mese. In tutto questo lasso di tempo si sono susseguite interminabili giornate tiepide e soleggiate (totalmente fuori stagione), ogni tanto leggermente coperte, rese ancora più interminabili da una monotona stabilità metereologica che si ripeteva ogni giorno nello stesso modo, senza grossi cambiamenti. È strano pensare come in passato non dessi molta importanza a queste cose; quando vado a consultare l’archivio dei miei ricordi, tipo quelli dell’infanzia, ho l’impressione che le giornate soleggiate si siano sempre alternate in maniera piuttosto equilibrata con la loro controparte piovosa, senza troppi problemi. Forse sono i miei ricordi ad essere difettosi, forse gli stessi problemi c’erano già dieci o quindici anni fa, forse ero io che non li vedevo perché avevo altro per la testa, o forse, lentamente e inesorabilmente, qualcosa (anche in questi ultimi anni) è effettivamente cambiato. Forse stiamo iniziando a percepire in maniera sempre più chiara i «primi boati di quella che» presto «potrebbe diventare una valanga nel pieno della sua forza» (Elton, Ecology of invasions). Al di là degli ultimi indecisi negazionisti, oggi siamo senz’altro più coscienti dell’incombenza dei pericoli del cambiamento climatico; lo vediamo dagli articoli di giornale o dagli innumerevoli libri dedicati a questi temi, e ne sentiamo parlare sempre più spesso nei programmi televisivi (mancanza di precipitazioni, danni all’agricoltura e alla biodiversità, rincaro dei generi alimentari, comuni costretti a razionare l’acqua per sopperire ai periodi di siccità)

 

 

Consci di tutto ciò abbiamo persino coniato un nuovo termine per definire in maniera ancora più marcata l’epoca nella quale ci troviamo a dover vivere: l’Antropocene. In questo contesto, gli esseri umani sono diventati una vera e propria «forza geologica» ossia «un agente collettivo in grado di influenzare volontariamente», e con effetti mai visti prima, «le condizioni di vita sulla Terra» (Pellegrino, Politics in the Anthropocene). Si tratta senza mezzi termini di un fenomeno che non ha precedenti nel corso della storia dell’umanità. Negli ultimi decenni abbiamo assistito con un misto di terrore, indifferenza e forse rassegnazione, allo svolgersi di una crisi climatica di cui, come se fossimo frastornati, non riusciamo ancora a percepire l’esatta gravità; d'altronde siamo solo all’inizio e il conteggio dei primi danni è cominciato relativamente da poco. Ciò nonostante è da diverso tempo che questo «truce fantasma cammina al nostro fianco», mostrandoci già in passato i segni di quella che ormai è diventata «una tragica realtà» (Carson, Primavera silenziosa). 

 

Forse non è un caso che in epoca moderna uno dei primi ad aver richiamato l’attenzione su quelli che sarebbero stati i danni causati alla natura, e pertanto anche agli esseri umani, dai nostri comportamenti sconsiderati, sia stato un evoluzionista. Le concezioni evolutive, sviluppatesi in maniera sistematica come teorie biologiche, solo nel XVIII sec, hanno modificato le nostre idee sulla vita, offrendo finalmente un’alternativa convincente al creazionismo biblico, assegnando un posto nuovo all’essere umano nella storia della natura, allontanandoci dalla teologia naturale e dall’antropocentrismo assolutista imposto dalla chiesa. In effetti all’interno di questo quadro gli esseri umani diventano solo una fra le tante specie viventi che popolano questo pianeta, una specie che (seppur straordinaria) condivide una storia comune sia con gli altri esseri viventi, sia col suo ambiente naturale, di cui rappresenta allo stesso tempo un prodotto ma anche un potenziale agente di perturbamento. A sottolineare per primo questo nostro carattere così peculiare fu Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), il quale, riflettendo sui rapporti di «influenza reciproca» che avvengono «fra organismo e ambiente», si interrogò proprio sull’impatto «ambientale dell’evoluzione umana [...] scrivendo una delle prime pagine ecologiste della storia della cultura occidentale» (Barsanti, Una grande rivoluzione in sintesi). Secondo Lamarck: 

 

« L’uomo, in maniera poco lungimirante per i suoi stessi interessi, per il suo egoismo, per la sua inclinazione a godere di tutto ciò che è a sua disposizione, in una parola, per la sua noncuranza riguardo il futuro dei suoi simili, sembra lavorare all’annientamento dei mezzi di sussistenza e di conseguenza alla distruzione della sua stessa specie. Annientando ovunque le grandi piante che proteggevano il suolo, al fine di estrarre oggetti atti a soddisfare la sua avidità, ha portato rapidamente la terra che abita alla sterilità, ha prosciugato le sorgenti, ha scacciato gli animali che vi abitavano e che vi trovavano il loro sostentamento, e ha fatto sì che grandi parti del globo, un tempo fertili e altamente popolate sotto ogni aspetto, siano ora nude, sterili, inabitabili e deserte. Trascurando sempre i consigli dell’esperienza per dar sfogo alle sue passioni, l’uomo è perpetuamente in guerra con i suoi simili, distruggendoli ovunque e con ogni pretesto: così facendo vediamo popolazioni, un tempo numerose, scemare sempre di più. Potremmo dire che l’uomo è destinato a sterminare sé stesso dopo aver reso il globo inabitabile » (Lamarck, Conoscenze positive dell’uomo). 

 

In questo breve passo troviamo (allo stato embrionale) alcuni dei temi che sono ormai diventati fondamentali per il dibattito etico, filosofico e scientifico in materia di ecologia: la nostra responsabilità per le generazioni future, l’ingiustizia legata allo stravolgimento dell’ambiente (o ecosistema), il pericolo delle nostre abitudini di vita o delle nostre passioni, assieme a un avvertimento sull’uso sconsiderato delle nostre capacità tecniche. Queste considerazioni ci aiutano come prima cosa a riflettere sul significato di ciò che definiamo ‘progresso’, soprattutto quello di carattere industriale. Il nostro rapporto con quest’idea appare in effetti contraddittorio: per certi versi siamo grati al progresso tecnologico ed economico che ci ha permesso di vivere in condizioni fisiche e materiali migliori rispetto al passato; allo stesso tempo però siamo spaventati dalla crescita incontrollata e potenzialmente dannosa assunta da questo fenomeno. Conrad (1857-1924) una volta disse: «La conquista della terra [...] non è certo una bella cosa se la esaminate con un po’ di attenzione». (Conrad, Cuore di Tenebra). È come se il progresso fin qui messo in pratica dalla specie umana avesse contemporaneamente gettato un’ombra oscura su tutto ciò che ha conquistato. Perfino i più fulgidi araldi del progresso sociale ed economico del XIX sec non poterono esimersi dall’esprimere alcune preoccupazioni al riguardo. Fra questi troviamo ad esempio Herbert Spencer (1820-1903). Questi, pur avendo sempre elogiato il valore del progresso e della libera competizione per ottenerlo (anche da un punto di vista evolutivo) scrisse di detestare: «Quel concetto di progresso sociale che presenta, come suo scopo, aumento di popolazione, sviluppo di ricchezza, diffusione del commercio». Ciò che rimproverava ai suoi contemporanei era che «nell’ideale politico-economico dell’esistenza umana si contempla solo la quantità e non la qualità». Spencer non mise direttamente sotto accusa i suoi ideali sul progresso, ma al tempo stesso era del parere che se non si fosse intervenuto, le ‘magnifiche sorti e progressive’ non sarebbero state esattamente quelle che si erano immaginate. Rievocando ad esempio il mondo della sua infanzia, scomparso sotto il tacco del progresso industriale, Spencer si dimostrava rammaricato per la distruzione delle campagne, l’abbattimento eccessivo dei boschi e delle siepi, e l’uso sconsiderato di opere in muratura che andavano sempre più a deturpare la bellezza delle contee inglesi; se a tutto questo vengono aggiunti i rischi per la salute dovuti all’inquinamento (la situazione oggi non è molto diversa) allora: «mentre per alcuni rispetti possiamo invidiare i posteri, noi possiamo per un rispetto compatirli» poiché «qui intorno a noi il romanzo del passato è in via di essere estinto dalle fosche realtà del presente». (Spencer, Fatti e commenti).

 

Le ombre generate da questo progresso industriale, tecnico, economico e infine anche militare, oggi sono effettivamente diventate una minaccia per la sopravvivenza delle specie (compresa quella umana). Lamarck aveva espresso chiaramente la sua preoccupazione guardando con paura agli effetti che simili attività avrebbero potuto avere per la sopravvivenza di tutti. Tale preoccupazione rientra nel dramma della perdita di biodiversità e il valore del pensiero evolutivo per la storia delle idee ecologiche risiede anche in quest’ultimo punto. Rachel Carson diceva che pur avendolo dimenticato «l’uomo non può aspettarsi una sorte diversa da quella che ha colpito gli altri animali, perché anch’esso fa parte della natura» (Carson, Primavera silenziosa). Un problema che è stato ben rappresentato dal padre della più moderna teoria dell’evoluzione, ossia Charles Darwin (1809-1882). Nei suoi primi taccuini egli scriveva che «gli animali, quelli che abbiamo reso nostri schiavi, non ci piace considerarli nostri eguali» eppure in modo simile a noi anch’essi provano «affetti, [...] paura, dolore, dispiacere», un fatto che dovrebbe portarci a nutrire una certa dose di «rispetto» nei loro confronti.

 

 

 

 

« Se decidiamo di lasciar correre libere le congetture, allora gli animali sono nostri compagni, fratelli in dolore, malattia, morte, sofferenza e fame; nostri schiavi nel lavoro più faticoso, nostri compagni negli svaghi; dalla nostra origine essi probabilmente condividono un comune antenato; potremmo essere tutti legati in un’unica rete ». (Darwin, Taccuini).

 

Proprio perché ogni essere vivente è in qualche modo legato agli altri in quanto parte della stessa grande storia (o rete) evolutiva, che ancora oggi, lungi dall’essere arrivata a conclusione, plasma, crea, modifica (figurativamente parlando) lo svolgersi della vita su questo pianeta, l’esistenza stessa degli esseri organici acquista un significato nuovo e più profondo. La teoria dell’evoluzione ha mostrato come gli esseri viventi, seppur spesso diversissimi per caratteri e qualità, «siano» in realtà «legati da una rete di relazioni complesse», evidenziando così la loro interdipendenza, ossia quel collegamento essenziale, seppur nascosto, che ci lega a tutte le altre specie (Darwin, L’Origine delle Specie). 

 

Questo forse è il lascito più grande del pensiero di questi evoluzionisti, un lascito che, se estendiamo le loro argomentazioni, è in grado di influenzare in maniera decisiva il dibattito filosofico contemporaneo: «Non esistono specie diverse, non esiste l’unicità umana, quanto piuttosto una vita comune condivisa da ogni essere vivente. Questa vita è un fenomeno continuo, che investe sia i presunti esseri viventi che gli esseri non viventi. Questa è la verità reale della teoria evolutiva darwiniana» (Pellegrino, Politics in the Anthropocene). Un’idea evolutiva di unità della vita, immersa oggi nel difficile contesto dell’Antropocene, che dovrebbe ispirarci nuove considerazioni anche di carattere politico; dopotutto «ci sono casi e contesti in cui richieste di abolizione di determinate pratiche, e quindi di “liberazione” degli animali, non sono solo ammissibili» ma sono anche «l’implicazione necessaria di un animalismo che assuma come fondativi i principi della democrazia». (Pollo, Manifesto per un animalismo democratico). 

 

Soffermarsi un attimo sul nostro rapporto con gli animali ci spinge verso un’altra riflessione. Come sappiamo la più grande «tragedia del nostro tempo» è appunto «il vertiginoso declino della biodiversità sul nostro pianeta»; per permettere alla vita di prosperare «deve esserci una immensa biodiversità», non solo, ma quanto più grande risulterà essere la biodiversità, tanto «più sicura sarà la vita sulla Terra» soprattutto per «noi stessi» (Attenborough, A life on our planet). L’attuale perdita di biodiversità è nota come sesta estinzione di massa, di cui l’essere umano (attraverso le sue attività dirette e indirette) è senz’altro il principale responsabile. Abbiamo quindi due opzioni: continuare a perseverare con gli stessi comportamenti (basati spesso su una visione eccessivamente antropocentrica del mondo naturale o sua una fede incrollabile nel nostro progresso scientifico) i cui danni sono sotto gli occhi di tutti, oppure provare a ragionare su nuove alternative. Di fronte a simili difficoltà una delle opzioni più intriganti sul piano filosofico (e sicuramente anche politico) sarebbe quella di estendere il diritto di cittadinanza agli animali: «Una politica per l’Antropocene dovrebbe dare riconoscimento alle entità non umane”, arrivando a stabilire un progetto politico “completamente non antropocentrico». (Pellegrino, Politics in the Anthropocene). Se Darwin aveva ragione, se gli animali dimostrano di possedere uno ‘status morale’ diverso «solo per grado ma non per genere» rispetto a quello umano (Darwin, L’Origine dell’Uomo), se sono effettivamente nostri fratelli nella sofferenza e nel dolore, è giusto negargli certi diritti? Come è stato notato estendere tali diritti agli animali rappresenta un ostacolo non solo per la nostra cultura ma anche per quella che è attualmente l’impostazione economica della nostra società (Donaldson & Kymlicka, Zoopolis). Tuttavia se la «sensibilità e la coscienza hanno un significato morale distinto perché consentono» anche agli animali «un’esperienza soggettiva del mondo», in quanto «consapevoli del dolore e del piacere», allora, secondo alcune teorie, anche a loro dovrebbero venir riconosciuti dei diritti inviolabili (Donaldson & Kymlicka, Zoopolis).

 

Senza ombra di dubbio sarebbe un passo avanti significativo per le questioni che stiamo analizzando, tuttavia l’estensione dei diritti a seguito di un riconoscimento morale, o per via della sensibilità e coscienza riscontrata negli altri esseri viventi, comporta alcune problematiche. Se proviamo ad approfondire questo ragionamento arriviamo a concludere che un prato, un albero, o un cespuglio, non hanno alcuna sensibilità e coscienza (almeno non nei termini a cui siamo abituati), perciò non dovremmo estendergli alcun diritto, né riconoscergli alcunché. Che dire invece delle montagne, delle vallate o dei fiumi? Possiamo estendere dei diritti agli animali lasciando da parte l’ambiente? Sappiamo che ciascuna specie, dalla più grande alla più piccola (e per piccola intendo perfino microscopica), vive all’interno di un sottile ma fondamentale intreccio di relazioni con il suo habitat (ricordiamo l’insegnamento degli evoluzionisti); danneggiare quest’ultimo significa produrre un effetto a cascata in grado di colpire tutti gli altri esseri viventi (il dramma del declino della biodiversità) compreso l’essere umano. Diventerebbe inutile allora proteggere le altre specie, estendendogli dei diritti, se allo stesso tempo non includessimo l’intero ecosistema in questa nuova prospettiva. Ad esempio, siamo a conoscenza che il riscaldamento globale sta causando danni irreparabili alla popolazione degli insetti per via dell’aumento incontrollato delle temperature, oppure che i nostri prodotti chimici, riversandosi nei fiumi, avvelenano intere catene alimentari, per non parlare dei danni provocati dalla diffusione delle microplastiche nei mari e negli oceani. Sarebbe inutile estendere eventuali diritti, magari al fine di proteggere certe specie, se poi a causa dei danni ambientali provocati dalle attività umane tali specie risultassero comunque danneggiate o peggio destinate all’estinzione. Forse, come è stato notato, l’unica opzione sarebbe quella di estendere ancora di più questi diritti, creando una sorta di «cittadinanza ecologica» che abbracci l’intero ecosistema (Pellegrino, Politics in the Anthropocene).

 

 

Inutile soffermarsi adesso sulle difficoltà aperte da simili ragionamenti o su quello che potrebbero comportare per il nostro attuale stile di vita. Il problema però rimane; se queste nostre abitudini sono diventate ormai insostenibili, se il nostro rapporto con gli altri esseri viventi è sbilanciato, se le nostre riflessioni morali ci spingono a riconsiderare il valore della vita sia per gli animali che per gli ecosistemi, è nostro dovere riflettere per trovare una soluzione. La filosofia (insieme alla storia delle idee) serve proprio a questo, a confrontarsi con i problemi della propria contemporaneità, raccogliendo pensieri, discutendo ipotesi, analizzando casi, al fine di arricchire e (si spera) illuminare il dibattito pubblico che ci circonda. È alla luce di questa esigenza che è stato organizzato per i prossimi mesi un seminario all’Università La Sapienza dal titolo “Le diverse biodiversità”, proprio per approfondire non solo i diversi ambiti ma anche le diverse concezioni (urbane, scientifiche e politiche) che avvolgono questi temi, tenendo conto sia della storia del pensiero evolutivo, sia delle nuove prospettive che la filosofia, in rapporto con le altre discipline, è in grado di indicarci per il futuro. 

 

10 marzo 2023

 









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