Fede nel popolo agli occhi di Orwell: mistica verità, tangibile assurdità.

 

1984 è di gran lunga l’opera più citata nell’ambito della sensibilizzazione ai totalitarismi e alle dittature di qualsiasi colore. Un vero e proprio manifesto contro il controllo esercitato dal “potere” e dalle sue numerose sfaccettature sulla vita dei singoli individui. Ma cosa succederebbe se il suo stesso autore ci invitasse ad andare ben oltre la suddetta (facile, dunque celebre) superficie interpretativa?  

 

di Ciro Arena

 

 

"Popolo" e "potere" sono due termini che nell'immaginario collettivo non possono camminare se non con passo pressoché identico. Trattati, romanzi, saggi, film, canzoni e non solo hanno cercato di analizzare a fondo il rapporto che indissolubilmente lega questi due significati, talvolta trovando una perfetta coincidenza fra gli stessi, come se all'interno del significato "potere" fosse a priori contenuto il significato "popolo", e viceversa. 

 

La stessa narrativa orwelliana, e in particolar modo quella riferita al best-seller 1984, ha offerto numerosi spunti di riflessione a riguardo, concentrando il focus sull'asfissiante controllo esercitato ai danni delle masse o, per meglio dire, delle singole individualità, da parte di un immaginario "Super-Stato" marcatamente totalitario (o chi per esso), quello di "Oceania", capace di avere voce in capitolo su qualunque aspetto della vita quotidiana, dai suoi caratteri sociali, sino a quelli politici, culturali, e addirittura psicologici. 

 

Uno dei quesiti che il noto romanzo è solito proporre quanto riproporre – certo senza trovare una soluzione in merito –  concerne la discussa fede nei riguardi del popolo, nella prima parte del racconto accompagnata da un vivo scetticismo, salvo poi essere in gran parte rivalutata grazie alla lettura, da parte del protagonista, delle tesi del sovversivo Emmanuel Goldstein. Eppure, basta accennare appena appena la biografia del noto pseudonimo inglese preso in questione per scoprire quanto la sua penna sia considerata ancor’oggi una delle più illustri, oltreché popolari, in materia di socialismo democratico; ideologia, questa, che, com'è noto, fu apertamente sostenuta da Orwell. La stessa revisione del marxismo, presente fra i capisaldi massimi della suddetta ideologia a carattere politico, porterà il britannico a sviluppare la stesura di 1984, inteso dapprima come una critica allo stalinismo, in seguito estesa al totalitarismo sui generis.  

 

Diventa allora interessante comprendere, attraverso le sue parole, l'opinione che Orwell ha nutrito nei confronti delle masse, del popolo, delle singole individualità; la profonda (s)fiducia che può averne animato gli scritti politici; l'affetto fraterno, pieno di riguardi e compassione, che può aver caratterizzato il suo punto di vista in merito alla questione ivi sollevata. In che rapporto, dunque, è possibile porre potere e popolo? Massa e inevitabile controllo di essa? Ma, soprattutto, è possibile da parte delle masse una ribellione autentica, verace nei confronti del potere costituito? È proprio entro i confini di tali domande che Orwell si rivela brutale oltremisura. Una rivelazione, a tal proposito, è quella contenuta fra le righe di 1984, appunto. Una rivelazione non certo musicata per orecchi sensibili: 

 

« "Se c'è una speranza," aveva scritto nel diario "la trovi fra i prolet." Queste parole continuavano a tornargli in mente, mistica verità e tangibile assurdità. »

 

« Ma se c'era una speranza, la trovavi fra i prolet. Dovevi crederci. A parole, l'idea suonava ragionevole: diventava un atto di fede, invece, quando ti toccava guardare gli esseri umani che incrociavi sul marciapiede. »  (G. Orwell, 1984)

                                                                                                                                                 

E se è vero che degli uomini Nietzsche amasse null'altro che le proprie speranze, è – perché no? – altrettanto vero che Orwell nutrisse lo stesso genere di sentimento nei loro riguardi. È possibile, dunque, in 1984, riscontrare una critica spietata nei confronti del popolo, accompagnata però da una carezza, tanto più dura perché ragionata e sofferta. In Orwell, in summa, è possibile rintracciare una fede nella moltitudine che, d'altronde, è ben consapevole dei propri limiti. Un socialismo cinico, ponderato, che, se reso effettivo, finirebbe per negare se stesso senza scampo alcuno. Questa (s)fiducia riposta giocoforza nella moltitudine degli individui, ci avverte l’autore – per bocca dell'ignoto protagonista –, non può essere certo priva di una attenta riflessione a riguardo, ben conscio dunque dei limiti umani che storicamente hanno fatto in modo che il potere avesse sempre e comunque la meglio, tanto in dittatura quanto in democrazia. La distopia realizzata nel suo scritto più famoso e amato, allora, in fondo, si tinge di utopia.

 

Un'utopia razionale, ossimorica, incapace di stare in piedi da sola, e perciò sofferente, addolorata, che viene negata nel momento stesso in cui ne emerge l'affermazione, schiava della contraddizione da cui muove. Pertanto, le considerazioni orwelliane a proposito del rapporto potere/popolo, ricavate da 1984, finiscono per lacerare ancor più profondamente la stessa fede nelle idee politiche sostenute dallo scrittore, il quale non può far altro che continuare a credere in un futuro migliore al di fuori dei propri manoscritti. 

 

Il finale del romanzo, dopotutto, lascia ben poco spazio alle interpretazioni: il protagonista, in quanto membro del Partito Interno, certamente – non stiamo, infatti, parlando di un prolet – finisce per cadere vittima della trappola ordita dall'Intelligence del Socing, ossia per piegarsi – senza opporre resistenza alcuna – ai suoi dettami, ai suoi racconti. Una condizione, quella del protagonista, che spazio-temporalmente ha caratterizzato (e caratterizza ancora) milioni e milioni di individui sparsi per il mondo. 

 

 

Ed è esattamente qui che comprendiamo la profonda attualità della penna di Orwell, ossia che la sola, vera arma di ribellione verso il potere costituito è data dalla consapevolezza, dal pensiero e dal suo esercizio costante; ma, al tempo stesso, si rende oltremodo necessario comprendere che, forse, non tutti siano in grado di giungere a una simile conclusione. Una verità, questa, che forse più di tutte ha amareggiato l'animo dello scrittore inglese nel corso della sua vita.

 

Affrontare Orwell, allora, significa affrontare una profonda analisi del potere, il quale ha necessariamente bisogno di qualcosa su cui esercitare se stesso. A tale scopo, diventa altrettanto necessario analizzare le caratteristiche costitutive di chi inevitabilmente reclama l’azione decisiva del potere stesso. Quel disordine universale che richiede di essere ordinato in ogni suo minimo aspetto, al di là di una qualsivoglia forma di governo.

 

Qual è, dunque, il prezzo fissato per uscire indenni, se vogliamo, dallo stato di natura? Una domanda a cui numerosi filosofi e politologi hanno cercato insieme di trovare una risposta convincente, da Spinoza a Hobbes, passando chiaramente per John Locke. Orwell, invece, sembra gridarci che della libertà è nostro dovere curarcene giorno per giorno, tanto in democrazia quanto sotto regime, perché è chiaro che del popolo sia possibile approfittarsi sempre e comunque, a sua insaputa e talvolta su suo mandato. Vigilare sulla propria libertà, una libertà certamente condizionata e sancita da un patto stretto con il potere costituito, dunque, si configura come il primo fondamentale dovere di quel popolo che richiede di essere ordinato, rappresentato, difeso. 

 

E solo in questa misura è possibile leggerne costruttivamente le parole circa quello spirito intrinseco alle masse, dagli inconfondibili caratteri auto-sabotatori, di cui sopra si è discusso. Imparare a riconoscere i propri limiti, in conclusione, diventa la misura preventivo-offensiva per eccellenza, in grado di fronteggiare – dalla sponda non più ingenua del popolo – le insidie tese da un momento all’altro dal potere costituito. 

 

1984, dunque, continua a presentarsi come il vademecum più celebre di difesa dalla violenza esercitata dai governanti di qualunque Paese nel mondo. Perché è bene ricordare quella capacità tipica del potere di non perdere mai fino in fondo i suoi tratti più distintivi; ma è altrettanto doveroso ricordare con frequenza i punti deboli che espongono il popolo a quei pericoli che ancora oggi, e non a caso, sono sotto i nostri occhi. Ed è divertente che ad insegnarcelo, ancora una volta, sia stato un genuino amante del popolo.   

 

16 ottobre 2023

 









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