L'eminenza del Bene in Platone. Contro una lettura meta-ontologica

 

In ambito scolastico e divulgativo il pensiero di Platone viene spesso sovrapposto – se non addirittura identificato – all’immagine, nient’affatto neutrale, che le generazioni di pensatori successivi – in particolar modo neoplatonici – hanno tramandato della sua opera. E allora occorre tornare al testo per sciogliere l’enigma attorno a uno dei temi più dibattuti dell’intero corpus platonico: l’idea del bene. Sarà altresì un’occasione per riflettere sul ruolo dei filosofi nella kallipolis.

 

di Luca Pigini

 

 

Ho introdotto il presente articolo richiamando un tema, quello del bene, piuttosto evocativo per qualsiasi lettore di Platone; eppure, proprio per via del carattere rilevante di questo termine, ampliamente sovrainterpretato in tutta la storia della filosofia, sarà necessario parlare piuttosto del “buono”, rimanendo così fedeli all’aggettivo neutro sostantivato con cui Platone lo designa: to agathon. Come ha infatti notato Mario Vegetti, se traduciamo “to dikaion” con “il giusto” o “to kalon” con “il bello” non si vede la ragione per cui, in riferimento al “to agathon”, dovremmo rinunciare al valore qualitativo-predicativo del termine (cfr. Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Rizzoli BUR, 2016, p.813). Sembra infatti evidente che rinunciarvi presuppone, o potrebbe presupporre, già implicitamente una sovrainterpretazione in senso trascendentale.

 

Diversamente da quanto si possa credere, l’unico dialogo in cui Platone conferisce una certa eminenza all’idea del “buono” è La Repubblica. Il contesto è il dialogo tra Socrate, Glaucone e Adimanto sulla giustizia che, non essendo una questione risolvibile sul piano individuale, finisce per orientarsi sul piano politico: il celeberrimo progetto della kallipolis governata dai filosofi. Tuttavia, Socrate è chiamato a render conto delle ragioni della necessità del governo filosofico, ed è proprio in tale contesto che introduce la trattazione del to agathon

 

Fin da subito Socrate si rifiuta di dare una definizione del “buono”: «Ma non ti sei forse accorto – dissi – di quanto sono squallide le opinioni non fondate sulla scienza?» (La Repubblica, Libro VI, 506c). Non ci stupiamo: per Socrate/Platone non è possibile opinare nel campo degli intellegibili. O ne abbiamo conoscenza o ne abbiamo totale ignoranza e allora dobbiamo tacere. Per aggirare il problema, Socrate accetta di parlare in termini analogici, rivolgendo il discorso non al “buono”, ma alla “prole del buono”, cioè al Sole.

 

Introducendo l’analogia, Socrate ci dice che “il buono” è in rapporto alle altre idee esattamente come il Sole sta alle cose sensibili. Il Sole, attraverso la luce che emana, consente agli occhi di vedere e ai colori/oggetti di essere visti. Allo stesso modo, “il buono” garantirebbe all’intelletto di conoscere, conferendo verità alle idee. Per Platone, infatti, la verità non è una proprietà del discorso ma è piuttosto una proprietà ontologica dell’oggetto di conoscenza. Facciamo scienza (episteme) quando ci rivolgiamo alle idee intellegibili che sono ontologicamente vere, in quanto dotate dei caratteri di stabilità e atemporalità sconosciuti, invece, al mondo sensibile e transeunte, oggetto di sapere doxastico, al più di retta opinione (orté doxa).

 

E arriviamo al passo più problematico, oggetto di lunghe controversie interpretative: aggiunge infatti Socrate che il buono è “epekeina tes ousias”, «al di là dell’essenza» (Ivi, 509b). È un’affermazione molto impegnativa, nella quale il padre del neoplatonismo, Plotino, ha creduto di poter rintracciare senza dubbio il ritratto di un principio trascendente e generativo (cfr. Plotino, Enneadi, VI, 9) gettando le basi di un filone interpretativo che, soprattutto attraverso la teologia cristiana, è arrivato fino ai giorni nostri. Ma stanno veramente così le cose per Platone? Anzitutto, la lettura di Plotino nasceva da una duplice esigenza: da una parte, lungi dall’essere il mero esegeta di Platone quale amava definirsi, Plotino nel capitolo in cui cita Platone cercava deliberatamente un precedente per giustificare la propria, senza dubbio proficua, dottrina dell’Uno, dove – qui certamente – parliamo di un principio generativo trascendente; dall’altra era nata l’urgenza di confronto col monoteismo cristiano. 

Se leggiamo la citazione per intero, Socrate dichiara «epekeina tes ousias presbeia kai dyanamei» (Platone, La Repubblica, 509b), cioè «al di là dell’essere per dignità e potenza», dunque la presunta trascendenza del bene emerge qui, contestualizzando, limitata dalla clausola “per dignità e potenza”, ovvero l’eminenza del buono è da intendersi in termini meramente estetico-valoriali. E a sgomberare definitivamente il campo da qualsiasi tentazione di dare letture “teologizzanti” del bene/buono è la risata di Glaucone che rimprovera scherzosamente Socrate di star facendo una “hyperbole”.

 

 

Ora ci è più chiara anche l’analogia col Sole, che ritorna anche nel mito della caverna del libro VII: il Sole, pur conferendo la possibilità di vedere, è visibile, esattamente come il bene pur conferendo alle altre idee la possibilità di essere conosciute è allo stesso tempo conoscibile. Se d’altronde il buono si ponesse su un piano meta-ontologico, e dunque meta-noetico, sarebbe impossibile per i filosofi, garanti del buon governo della kallipolis, conoscerlo.

 

Se il bene è conoscibile dai filosofi, perché Socrate non ce ne dà una definizione? In verità tutti i dialoghi platonici hanno un certo carattere di aporeticità, per cui Socrate non dà mai una definizione in termini discorsivi di una certa idea. E la ragione è squisitamente epistemologica. Non a caso, subito dopo il passo trattato, Socrate introduce la celebre teoria della linea, ponendo la noesis (il sapere noetico dei filosofi) nel grado più alto delle scienze (gerarchizzate in termini di certezza gnoseologica del metodo e verità dei suoi oggetti), più in alto della ragione discorsiva (la dianoia). Infatti, la ragione discorsiva (quella, ad esempio, dei geometri e dei matematici) non sa render conto dei suoi principi/ipotesi che pone come enti primitivi indimostrabili; dunque, al più può arrivare a conclusioni coerenti ma di cui non possiamo dimostrare la veridicità (perché dipende appunto dalla verità indimostrabile delle ipotesi/enti primitivi). Tuttavia, se la conclusione fosse una contraddizione, avremmo la certezza della falsità delle ipotesi: ad esempio, poniamo un’ipotesi (il buono è il piacere) svolgiamo una dimostrazione (ci sono piaceri cattivi) giungiamo alla conclusione (ci sono buoni cattivi). Contraddizione; scartiamo l’ipotesi di partenza. 

 

Possiamo giungere a una definizione esaustiva? No. Per quanto si possa dare una definizione il più possibile ampia e onnicomprensiva di un’idea, resterebbe sempre un’opinione indimostrabile e suscettibile di contraddizione. In altri termini, ma è oggetto di controversia interpretativa, possiamo intendere la teoria della linea come una negazione dell’autoreferenzialità dell’ambito linguistico: la verità del discorso ha bisogno di essere fondata da altro. E proprio sulla capacità di render conto delle ipotesi sta la superiorità della noesis sulla dianoia; «Essa non tratta più le ipotesi come principi, ma realmente come ipotesi, cioè come punti di appoggio e di partenza per procedere fino a ciò che non è ipotetico (…) non servendosi mai di alcun dato sensibile, ma solo delle idee attraverso le quali procede e verso le quali si dirige, e conclude a idee» (La Repubblica, 511 b-c). I filosofi non scendono dunque a conclusioni attraverso dimostrazioni che si servono di “simulacri” delle idee (ad es. i disegni dei geometri) ma salgono verso i principi primi (le idee intelligibili) senza servirsi di altri mezzi fuorché delle idee stesse. Per alcuni interpreti qui Platone starebbe prospettando un tipo di conoscenza che, con un termine anacronistico, potremmo definire “intuitiva”, cioè che accede all’oggetto di conoscenza in maniera diretta, “toccandolo” con l’intelletto. Mutatis mutandis, sarà proprio Plotino, stavolta coerentemente col testo platonico, ad attribuire alla noesis proprio questo significato.

 

« All’estremo confine del conoscibile v’è l’idea del buono e la si vede a stento, ma una volta vistala occorre concludere che essa è davvero sempre la causa di tutto ciò che vi è di retto e di bello, avendo generato nel luogo del visibile la luce e il suo signore, in quello del noetico essendo essa stessa signora e dispensatrice di verità e di pensiero; e che deve averla vista chi intenda agire saggiamente sia nella vita privata sia in quella pubblica(…)non c’è da sorprendersi se chi è giunto fino a tal punto non voglia poi occuparsi delle faccende degli uomini, e la sua anima aspiri sempre a restare lassù. » (Ivi, 517 c-d).

 

22 settembre 2023

 









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