Il bene comune e la vita politica: una critica a Tommaso

 

Secondo Tommaso il bene comune è l’obiettivo che le leggi si devono proporre. Tuttavia, un tale concetto ha in sé talune implicazioni autoritarie che fanno sì che esso venga rigettato da alcuni filosofi. Tale dibattito è un conflitto tra due epoche della filosofia: quella antica e quella moderna. 

 

di Michele Ciraci

 

 

 

Il dibattito circa ciò che le leggi debbano perseguire, quali siano le loro istanze e i loro fondamentali e chi ha il diritto di legiferarle è scandito sommariamente da due periodi storici, quello antico e moderno. Ambedue, rispettivamente fondamenti della filosofia classica e quella moderna, hanno plasmato due modi di concepire la giustizia: la filosofia classica, la cui maggiore espressione in materia giuridica l'ha avuta con Aristotele, antepone la ricerca del bene alla formulazione di una costituzione; la filosofia moderna, a partire da Locke fino a giungere a Kant e più recentemente a John Rawls, ritiene invece che la giustizia abbia in prima istanza il compito di garantire le libertà individuali, senza esprimersi in merito a questioni etiche in quanto quest'ultime sono appannaggio dei singoli individui della società.

 

Tommaso, in Somma Teologica, asserisce in primo luogo che il fine, il telos delle leggi sia la condotta al bene comune. In secondo luogo sostiene che, in funzione di quanto precedentemente affermato, la legiferazione delle costituzioni sia compito della collettività o, tutt'al più, di un rappresentante che ne faccia le veci, giacché il bene della comunità è il telos che si propone la legge. 

 

Le parole di Tommaso sono certamente attrattive, in maggior modo per chi è avverso alla concezione della giustizia di matrice liberale, diffusissima ai nostri giorni. Tuttavia, non sono neppure totalmente persuasive e difficilmente potrebbero mettere d'accordo tutte le scuole di pensiero in materia giuridica: cosa è il "bene comune" di cui parla Tommaso? Sarebbe assai difficile, peraltro in una società pluralista come la nostra, individuare una sola concezione del bene. Le affermazioni di Tommaso, nonostante si prestino a molteplici possibili obiezioni, al livello generale sono a mio parere condivisibili. Tuttavia, ritengo ad ogni modo che debbano essere riformulate in un'opera di contestualizzazione nel presente. 

 

In tale sede, mi proporrò di rivalutare positivamente le tesi di Tommaso con la seguente procedura espositiva: in primo luogo, rifletterò sul concetto di bene comune, prendendo in causa alcuni dei pensatori che si sono espressi a riguardo e valutando le possibili obiezioni in merito ad esso; in secondo luogo, individuerò chi abbia il diritto di realizzare le leggi che guidano una comunità; infine, sosterrò l'importanza di una visione come quella di Tommaso, specie nella società nostrana.

 

 

Il concetto di "bene comune" come fondamento delle leggi 

 

In precedenza, ho affermato che nell'antichità il "bene" si anteponeva alla formulazione di una costituzione. Infatti, i pensatori dell'età classica ragionavano sia al livello giuridico che al livello scientifico ricercando in ogni manifestazione un fine: le pietre cadono a terra poiché si ricongiungono con il terreno, così come il fuoco tende a salire con lo scopo di ricongiungersi con il cielo. Sul piano giuridico ed etico, in sostanza si ragionava nel medesimo modo. In particolare, Aristotele vedeva nel "bene comune" il telos, ossia il fine verso cui un'istituzione statale deve giungere. La sua è una visione teleologica, che al livello scientifico è ormai superata (nessuno leggerebbe i libri di fisica o di metafisica di Aristotele prendendoli come spunto per nuove teorie naturali), ma che al livello etico e giuridico è da prendere in grande considerazione. Secondo la visione teleologica, si analizza prima il fine verso cui tendere, qualunque esso sia, e solo in seguito si analizza cosa è utile per raggiungere lo scopo prefissato. In materia giuridica, secondo Aristotele il telos identificato con il bene comune viene prima delle leggi. Il diritto è una conseguenza della nostra visione del bene, da plasmarsi intorno a ciò che si identifica con quest'ultimo. Come afferma Tommaso, le leggi devono essere realizzate in vista del perseguimento di ciò che si definisce bene. Una visione del genere, tuttavia, si presta ad alcune possibile obiezioni: qual è il bene comune a cui si dovrebbe giungere? Chi ha il diritto di definirlo? E soprattutto, una volta definito ciò che è bene, che si fa con tutte le altre concezioni di bene che ogni singolo individuo possiede? 

 

Un utilitarista affermerebbe che il bene, l'utile, corrisponda al piacere: chiunque prova piacere e dolore, dunque scegliere quale sia preferibile è assai semplice e soprattutto universale per tutti gli esseri umani (ad eccezione di chi prova piacere nel dolore, ma è chiaro che si tratti di una patologia e, come tale, non è da includere nella trattazione di tale sede). Gli utilitaristi, inoltre, ritengono che il senso della giustizia risieda nel distribuire la maggior quantità di utile possibile all'interno della società. Ciò che fanno gli utilitaristi è un mero calcolo: se la quantità di persone che prova piacere è maggiore di quella che prova dolore, giustizia è stata compiuta. L'obiezione ad una tale visione è assai intuibile. Difatti, seguendo la teoria degli utilitaristi si giustificherebbero atti molto discutibili: si potrebbe costringere un gruppo ristretto di persone ad eseguire lavori coercitivi che umiliano e torturano la categoria in questione, ma che garantiscono luce e acqua gratuite per la popolazione. In tal caso, l'utile è distribuito ad una larga maggioranza di persone, tuttavia è difficile e terrificante affermare che sia stata compiuta giustizia. 

 

Aristotele, a dire il vero, definisce formalmente cosa è il "bene comune": è il giusto mezzo, posto tra un estremo e l'altro. E' la virtù conseguita dai cittadini della polis, la quale consiste nel sapersi rapportare con gli altri individui della propria comunità, nell'unire le autocoscienze e nell'essere moderati, sapendo scegliere la "via media" (per dirla secondo il cardinale Newman). Nonostante ciò, Aristotele non ci dice cosa concretamente è giusto. Questo è appannaggio delle singole istituzioni, le quali scegliendo il bene che vogliono perseguire, possono in seguito plasmare le leggi in base ad esso. Qui si giunge finalmente al nocciolo della questione: chi può dire cosa è giusto e cos'è sbagliato? In tal caso, se lo stato si esprimesse in questo senso, andrebbe ad adottare una sola concezione di bene, scartando tutte le altre. 

 

Per i pensatori dell'età moderna, come Kant o Rawls, la visione proposta da Tommaso (e da tutta la filosofia antica) è terrificante perché non permetterebbe ai singoli individui di perseguire la propria idea di bene. Si tratterebbe di una privazione delle singole libertà e di un annullamento di tutte le dottrine etiche meno quella scelta dallo stato. Rawls, nel suo Una teoria della giustizia, asserisce che lo stato non può entrare in discussioni etiche nella misura in cui, in tal caso, vi sarebbero delle enormi privazioni di libertà. Il pensiero liberale, di conseguenza, propose una diversa concezione della giustizia e del bene. Il fondamento iniziale, la prima istanza e il presupposto primo e ultimo di uno stato è garantire la libertà del singolo individuo. Lo stato non ha il diritto di esprimersi in merito a questioni etiche, poiché così facendo non permetterebbe una libera condotta della vita del cittadino. Kant, a tal proposito, propone che siano gli individui a decidere la norma della loro azione, in linea con la ragione pura pratica e seguendo l'imperativo categorico. Inoltre, il filosofo tedesco insiste sulla necessità di riconoscere agli individui dei diritti universali e inviolabili in quanto appartenenti alla specie umana. Rawls, da parte sua, asserisce che le leggi debbano essere scelte in una una posizione originaria, dietro un velo d'ignoranza, essendo così svincolati da ogni interesse e vincolo comunitario, con nessun riferimento alle nostre identità (religiose, nazionali ecc.). Appare chiaro, dunque, che il dibattito politico secondo il pensiero moderno non ha nulla a che spartire con questioni etiche e morali. 

 

Chi ha il diritto di legiferare? 

 

Spostando l'attenzione su un altro tema delicato, occorre riflettere su chi abbia il diritto di legiferare. In questa questione, in realtà, non vi sono particolari differenze tra i precedenti pensatori. Aristotele pensava che a dover comandare fosse il "saggio", vale a dire colui che nel rapportarsi socialmente in una situazione senza precedenti, dunque non avendo appreso per abitudine alcunché, sia comunque capace di saper decidere il giusto mezzo e di scegliere il bene. E' l'uomo virtuoso per eccellenza, che alla luce di queste particolari abilità, merita di essere il legislatore dello stato, giacché capace di saper perseguire il bene. Tommaso, dal canto suo, sullo stesso piano di Aristotele sostiene che chi realizza leggi debba essere la collettività o un uomo che ne faccia le veci, proprio perché solo chi fa parte della società può essere in grado di scegliere il giusto fine di essa. 

 

Condivido le opinioni di Aristotele e Tommaso: sarebbe difficile proporre uno stato in cui a legiferare sia un'entità diversa, estranea alla comunità. Lo stesso concetto di base è proprio del pensiero liberale. Sebbene i fini di chi governa possano essere differenti per le due concezioni della giustizia affrontate, il fatto che a governare sia qualcuno appartenente alla comunità è una visione su cui tutti concordano. Come, tuttavia, si arrivi a decidere chi sia colui o coloro che dovranno governare è sicuramente un discorso più ampio, che merita una trattazione a parte. Nonostante ciò, malgrado i suoi difetti, è facile convenire che l'elezione democratica sia il metodo più appropriato per decidere chi ha l'onore e l'onere di comandare una comunità. A questo proposito, Winston Churchill asseriva: «la democrazia è la peggiore forma di governo, tranne le altre».

 

 

L'importanza della vita attiva

 

Alla luce di quanto sviscerato sopra, a parer mio occorre unire le due scuole di pensiero precedentemente descritte: se da un lato il pensiero liberale ha il merito di aver insistito affinché venisse riconosciuta la libertà inviolabile di ogni singolo individuo, da un'altro ha nel suo bagaglio una grave mancanza, ossia l'incapacità di riconoscere che noi individui non siamo esseri astratti, ma uomini inseriti in un contesto sociale. Di conseguenza, è impossibile ridurre il dibattito politico ad un mero scambio di opinioni astratte da ciò che siamo e da dove veniamo. Noi siamo esseri narrativi, facciamo delle scelte seguendo la narrazione della nostra vita, e sulla base dei nostri trascorsi ci proiettiamo nel futuro decidendo quale sia il sentiero più adatto a ciò che siamo. La visione della giustizia di Tommaso e Aristotele potrebbe essere il fondamento della costruzione di una forma di totalitarismo, tuttavia non si può rispondere ad un timore del genere rinunciando alle nostre identità concorrenti.

 

Il vuoto politico della società di oggi e la totale mancanza di virtù civiche sono causate in parte proprio dalla concezione liberale della giustizia e della politica. Ciò che maggiormente ci rende uomini è la capacità di saper riconoscere moralmente cosa è giusto e cos'è sbagliato: la parola, il logos, ci permette di esprimerci in merito a questioni etiche e morali. Noi riconosciamo cosa è giusto perché lo abbiamo appreso emulando il comportamento degli altri, per mimesis. Più noi uomini entriamo in contatto con gli altri, più apprendiamo la capacità di ragionare e pensare in modo critico, giacché le occasioni per talvolta apprendere un pensiero e talaltra criticarlo sono molteplici se si entra in contatto con la società e gli individui che ne fanno parte. Ciò che sfugge ai padri della teoria della libertà negativa è che vivendo una vita di comunità, interessandoci della vita attiva e dibattendo con altri individui si diventa sempre più autonomi e, quindi, liberi. Sulla base di quanto asseriva Aristotele, senza scontrarci con altre persone noi non saremmo altro che bestie, prive di un linguaggio, capaci solo di percepire piacere e dolore e incapaci di riconoscere ciò che è giusto e ciò che non lo è. 

 

La concezione liberale della giustizia ha, di fatto, annullato la politica. Non crediamo più che essa debba renderci uomini migliori, desideriamo solamente che essa manovri l'economia e si occupi di questioni burocratiche. Questa è la conseguenza di pensare lo stato come un corpo estraneo ai temi etici. Tuttavia, mentre noi non contiamo più sull'apporto dello stato, il quale a nostro parere dovrebbe solamente garantirci libertà e sicurezza, esso ad ogni modo si trova costretto ad affrontare temi etici: il diritto all'aborto e il matrimonio omosessuale sono solo alcuni degli esempi. E' impensabile ritenere lo stato alieno rispetto a tali questioni. Pur non accettando in toto la visione di Tommaso, non si può non riesumare alcuni dei tratti di essa: sebbene il bene sia qualcosa che abbiamo il diritto scegliere con la nostra volontà (in accordo con la teoria liberale), non si può non auspicare che lo stato si interessi delle questioni etiche (in accordo con la teoria di Tommaso ed Aristotele). E' questione di reciprocità: se lo stato ci viene incontro, anche noi dovremo interessarci di lui. In virtù di ciò, la mia proposta intende dare nuova linfa alla vita politica: senza di essa noi diveniamo sempre meno umani, insensibili a ciò che accade al di fuori di noi ed esasperatamente narcisisti perché troppo interessati a noi stessi. 

 

7 maggio 2024

 








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