La pena di morte: cultura della vendetta, deterrenza fittizia e strumento politico

 

In qualità di tema assai controverso, nel corso della storia vi sono state molteplici scuole di pensiero in merito all’utilizzo o meno della pena di morte. Da Platone a Nietzsche, da Sant’Agostino fino al marchese Beccaria, moltissimi grandi pensatori si sono espressi su tale sanzione, spesso schierandosi a favore. Ancora oggi, il dibattito assume una certa rilevanza: secondo un rapporto Censis, circa il 44% del popolo italiano è favorevole all’introduzione della pena capitale. Tale dato mostra come l’Italia sia letteralmente spaccata in due in merito all’utilizzo o meno di suddetta sanzione. 

 

di Michele Ciraci

 

 

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario del processo che, nel 1992, sconvolse la politica italiana: Mani pulite. Proprio in occasione di tale anniversario, si sono generati feroci dibattiti tra i giustizialisti, cioè tutti coloro che auspicano la necessità che venga fatta severa giustizia, talvolta rapida e sommaria, per reati di matrice politica ed economica e, in opposizione a quest’ultimi, i cosiddetti garantisti, i quali propongono una più prudente osservanza delle garanzie giuridiche, con lo scopo di tutelare il diritto di difesa e di libertà dell’imputato. Il dibattito non si limita chiaramente a questi due soli schieramenti, al contrario, è assai vasto e presenta molteplici sfumature di pensiero che vanno dalle forme che una pena dovrebbe possedere fino allo scopo che quest’ultima dovrebbe avere. Per approfondire e sviluppare un pensiero critico su questo tema, mi sono cimentato nella lettura del libro che in maggior modo ha cambiato il modo di concepire la pena in ambito giuridico, ovvero sia Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria. Tale opera ha significato una rivoluzione culturale dal momento che, come ho appena detto, ridefinì il concetto di pena. Ha inoltre ispirato il codice Leopoldino e fu studiata dai padri fondatori dell'America. Il perno del testo di Beccaria è rappresentato dalla critica nei confronti della pena di morte: sottolineò come quest’ultima fosse contro la natura del contratto sociale e, oltretutto, non necessaria né utile. Sin dall’origine della filosofia innumerevoli filosofi hanno esaminato la pena capitale, ma è proprio nel periodo in cui vive Beccaria, ossia il ‘700, che con la nascita del movimento illuminista e l’affermarsi dei filosofi di questa corrente quali Kant, Rousseau e Voltaire diviene uno dei principali oggetti di dibattito. Oltre ai filosofi illuministi appena citati, vi sono pensatori altrettanto celebri che si sono esposti su questo tema, quasi spesso con pareri diversi. Queste opinioni, così contrastanti tra di loro, hanno catturato il mio interesse e mi hanno spinto ad analizzare se la pena di morte sia giusta o meno. In questa sede, l’articolo non si propone di analizzare in toto la natura e le forme delle pene, bensì di analizzare più specificatamente la pena più disquisita nel corso della storia: quella capitale. 

 

Nonostante la quasi totalità dei filosofi della storia si sia schierata a favore, io sono giunto alla conclusione che l’utilizzo della pena di morte non sia giustificabile, neanche per i crimini più efferati. 

L’articolo sarà strutturato in modo tale da far comprendere il mio pensiero e le tesi a favore di quest’ultimo. Nel fare ciò, comincerò con la critica delle affermazioni di Kant, per poi avvalermi della posizione di Beccaria con lo scopo di dimostrare la validità delle mie argomentazioni.

 

Kant, cui ho accennato precedentemente, si schierò a favore della pena di morte. Infatti, asseriva che la sanzione deve avere una funzione meramente retributiva e non deterrente: l’uomo deve essere punito con il principio dell’uguaglianza. Dunque, secondo la visione di Kant, lo stato qualora dovesse punire un individuo che ha compiuto un omicidio, sarebbe obbligato a sanzionarlo con la morte: «se egli ha ucciso, egli deve morire. Non vi è nessun surrogato, nessuna commutazione di pena che possa soddisfare la giustizia» (I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia del diritto).

In tal modo, però, lo stato rischia far passare un brutto messaggio, ossia quello di legittimare il cosiddetto occhio per occhio. Quest’ultima, chiamata anche "legge del taglione", è una pratica che consiste nel provocare un danno simile o uguale all’offesa ricevuta. Di conseguenza, un uso costante della pena di morte porterebbe i cittadini a seguire l’esempio dello stato e ad applicare la legge del taglione anche per malumori personali e per azioni non punibili dalla legge, ma comunque scorrette. Nei cittadini, così, si radicherebbe una cultura della vendetta. Tutto ciò, andrebbe ad infrangere ogni tipo di valore morale e seminerebbe il caos all’interno della società. Tra l’altro, condannando a morte una persona che ha compiuto un omicidio, lo Stato si porrebbe in una posizione di uguaglianza rispetto a quest’ultimo e si imbatterebbe in una grave incoerenza: al pari dell’omicida, anche lo stato compierebbe il medesimo delitto. Perciò, ritengo che quella di Kant sia una teoria abbastanza arcaica che in uno Stato moderno non può assolutamente essere presa in considerazione. Ovviamente, la dottrina di Kant non deve essere presa così com’è, andrebbe piuttosto contestualizzata con i valori tipici del tempo in cui quest’ultimo operava. 

 

 

Riprendendo i contenuti filosofici di Beccaria, sono del parere che la pena debba avere un’utilità sociale, cioè che debba avere uno scopo preventivo. L’obiettivo dev’essere quello di evitare che sia il condannato che gli altri individui della comunità compiano altri delitti. Al contrario di quanto si possa pensare, l’utilizzo della pena di morte non previene altri reati. Infatti, occorre considerare che coloro che compiono omicidi sono spesso persone che non hanno più niente da perdere e che sfogano la loro sofferenza causandola agli altri; oppure persone dotate di un animo crudele, talvolta folle, che uccide per il solo piacere di provocare dolore. La prima tipologia di persone guarda la morte con apatia e, paradossalmente, per loro rappresenta una liberazione; mentre la seconda tipologia di persone vede la morte con inquietante divertimento e esaltazione. Oltre alle due tipologie di persone che ho appena citato, è doveroso parlare anche di coloro che uccidono per una reazione istantanea. Questi, compiendo un omicidio perché trasportati dall’istinto umano, non hanno avuto ovviamente tempo di ragionare se la loro azione fosse giusta o meno, né tantomeno di prevedere una possibile condanna a morte. D’altro canto, a prescindere dalla tipologia di individui puniti, a noi semplici cittadini la prospettiva di un’eventuale sanzione pagata con la vita è meno angosciosa rispetto all’ergastolo. Difatti, la pena perpetua è da considerarsi come se fosse una sanzione capitale che si procrastina fino alla morte dell’individuo e, nello stesso periodo, sopprime e provoca danni fisici e psicologici. Tuttavia, è altresì vero che con queste caratteristiche, l’ergastolo incondizionato assume tratti di somiglianza a quelli della pena di morte; tanto è vero che Papa Francesco, in un suo discorso tenuto in Vaticano a un gruppo di giuristi dell’Associazione pena internazionale, il 23 ottobre 2014, ha definito tale sanzione come «una pena di morte nascosta». Pertanto, anche l’ergastolo pieno presenta talune carenze morali, ma non ritengo che siano sufficienti all’abolizione, in quanto confido nelle potenzialità deterrenti che questa pena possiede. L’abolizione dell’ergastolo è possibile solo nel momento in cui in uno Stato si verifichi una condizione utopica, cioè che si raggiunga un tasso di criminalità estremamente basso. Ma ritengo che la specie umana non sia ancora pronta e che probabilmente non lo sarà mai.

 

La pena di morte non solo presenta molteplici imperfezioni morali e giuridiche, ma può essere utilizzata anche dai regimi dittatoriali per fini politici. Malgrado gli esempi storici a cui alludere siano numerosi, per amor di appartenenza farò riferimento allo scenario che ha travolto il mio Paese nel ‘900. In tale periodo, più precisamente nel 1926, il regime fascista reintrodusse la pena di morte dopo che era stata abolita dal Regno d’Italia nel 1889. I reati punibili con la pena capitale si limitavano ad atti particolarmente gravi quali quelli contro lo Stato, la famiglia reale e il capo dello Stato. Successivamente, il regime fascista istituì il tribunale speciale, il cui compito, tra gli altri, era proprio quello condannare gli oppositori politici. La prima persona ad essere punita con la morte fu Michele Della Maggiora, un comunista accusato di aver ucciso due fascisti. In totale, il tribunale condannò a morte più di 40 persone e ne spedì 4.000 in carcere. Come risultato, il regime fascista riuscì a reprimere tutti gli oppositori politici e affermò, di fatto, il dominio politico assoluto sul territorio italiano. Dunque, da ciò che è emerso da questo esempio, i regimi dittatoriali possono abusare della pena di morte utilizzandola per fini politici, andando così a punire persone colpevoli solo per il fatto di aver espresso un'opinione fuori dal coro.

 

 

Analogamente a ciò che accade con i regimi dittatoriali, anche negli stati democratici possono essere sanzionate con la morte persone innocenti. In tal caso, però, ciò accade per errori giudiziari o irregolarità nel processo, e non per motivi politici. Siccome si tratta di una pena irreversibile, conseguentemente anche gli errori nel processo assumono una valenza irreparabile. Perciò, anche se a distanza di anni questi errori venissero riconosciuti e il condannato venisse giudicato innocente, non sarebbe possibile cambiare l’esito del giudizio in quanto ormai la persona è stata punita con la morte.

 

In definitiva, nell’argomentare la mia tesi, sono partito dal criticare la posizione di Kant, affermando come questa sia una teoria inattuale poiché legittima le persone ad utilizzare la legge del taglione. In seguito, trovandomi d’accordo con Beccaria, ho parlato dell’utilità sociale che a mio avviso una pena dovrebbe possedere e, in virtù di ciò, ho asserito che la pena di morte non è dotata di funzione deterrente. Difatti, analizzando diversi casi di individui puniti, ho sottolineato che agli occhi di questi ultimi è preferibile la pena di morte, invece che l’ergastolo. Successivamente, ho ragionato sul fatto che la sanzione capitale può essere utilizzata dai regimi totalitari per reprimere ogni posizione anticonformista e, di conseguenza, affermare il potere politico assoluto. Infine, ho affermato che con la pena di morte gli Stati, a causa di irregolarità nel processo, possono punire in modo irreversibile persone innocenti. Dopo questo percorso logico, attraverso il quale ho chiarito la mia posizione in merito alla pena di morte, ritengo che si sia compreso che lo scopo principale di una pena, a mio parere, debba essere deterrente e riabilitativo. Alla luce di ciò, rimango fermamente convinto che la pena di morte sia una sanzione crudele e priva di alcuna utilità sociale che, come tweettò David Sassoli il 10 ottobre 2019, «è un affronto alla dignità umana e non può essere tollerata in nessun caso». 

 

16 marzo 2022

 









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