Abolire il carcere

 

Dalla proposta giuridica e sociale, una riflessione su un'utopia ragionevole.

 

di Giulia Bertotto

 

Archivio disegni Napoli Monitor
Archivio disegni Napoli Monitor

 

Il titolo dell'Internazionale di maggio (settimana 17-23) è dedicato alla proposta più utopica ed esaltante che si possa immaginare per la società umana, proposta che pone la massima fiducia nelle possibilità di riscatto e di crescita umana: dietro le sbarre di carta della copertina leggiamo la scritta «perché è giusto abolire il carcere».

Ma siamo sicuri che sia davvero una proposta così utopica? E se invece irrazionale fosse l'idea che la segregazione diminuisca la criminalità e rigeneri energie psico-fisiche umane?

La tesi di chi scrive è che in realtà il carcere risponda a bisogni fortemente irrazionali, esigenze emotive e illusioni di controllo di chi sta fuori dal carcere, senza portare vantaggi per chi lo attraversa, e di conseguenza per la società che dovrebbe essere risarcita di un suo membro equilibrato e produttivo e non di un individuo ancora più avvilito.

 

Ruth Wilson Gilmore, leggiamo nel settimanale, è docente universitaria di geografia, e ha fondato nel 1998 con altri attivisti di San Francisco Critical Resistance, movimento che ha come manifesto l'abolizione del carcere.

Gilmore ha inventato il concetto di geografia carceraria, una visione complessa e globale del fenomeno carcerario nel suo estendersi e collocarsi sul territorio: intrecci tra risorse del paesaggio, opportunità sociali, infrastrutture, possibilità occupazionali determinano il sorgere degli istituti penitenziari e il loro affollarsi. Il rapporto tra realtà sociali di povertà, ricchezza del suolo, costruzione di penitenziari ha molto da insegnare sulle vie preventive alla prigionia e sulle cause sociali e politiche che concorrono ad accrescere il numero di detenuti. Insomma, questa donna ha fondato una nuova disciplina che insegna a vedere legami politici-ideologici ed economici nelle strutture penitenziarie e realtà circostanti.

Gilmore non ha una concezione romantica o ingenua dell'uomo, anzi afferma che negare la violenza è solo un modo di chi è spaventato dall'affrontare il problema in modo radicale, e che l'unico modo per fare qualcosa di nuovo e utile alla società è di comprendere il carcere nelle sue logiche, anche perverse e dolorose.

La missione abbracciata da questa donna non è un'apologia sentimentale dell'uomo contro la regole del vivere comune, ma una filosofia del cambiamento responsabile.

 

Giovanni Battista Piranesi, "Carceri d'invenzione" (1761)
Giovanni Battista Piranesi, "Carceri d'invenzione" (1761)

 

In Italia le statistiche dimostrano che il tasso di recidive dopo il carcere è altissimo: 68%, contro il 19% di chi invece sperimenta i servizi sociali, i quali di solito offrono attività di artigianato, lavori manuali e riabilitano ad una professione.

 

Anche il tasso di suicidi in carcere è in aumento, sia quello dei detenuti che della polizia penitenziaria, a riprova ulteriore del fatto che il carcere rende clinicamente depressi, soffoca i pensieri e degrada le emozioni di tutti coloro che entrano in contatto con esso. Non è dunque una ventata di ribellione alle gabbie che muove la critica al carcere, quanto studi documentati e analisi psicologiche rigorose.

I militanti del movimento di abolizione del carcere nel nostro Paese (movimento non ancora formalizzato) propongono almeno di depenalizzare il più possibile, sostituire il carcere minorile con diverse strutture sociali, ridurre le pene, offrire attività alternative volte alla reintegrazione nella società.

 

E queste proposte coincidono proprio con i principi guida di quel teorema generale proposto da Beccaria nel suo celebre Dei delitti e delle pene (1764), trattato illuminista che aveva lo scopo di abbassare al minimo quel rischio di accanimento che implica ogni caso penale: «ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev'essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a' delitti, dettata dalle leggi». L'illuminismo, con la sua nuova visione dell'uomo come individuo raziocinante e della società fondata su principi di equità e legalità, elaborò un sistema carcerario che prevedeva lavoro e rieducazione e dal quale non fossero esclusi diritti umani fondamentali (anche se non venivano chiamati così) come il rispetto del corpo fisico, la dignità della persona e della sua integrità morale. Questo perché il carcere deve punire il crimine e non colui che lo ha commesso, il quale invece deve essere posto nelle condizioni di tornare libero e collaborativo nella comunità umana.

 

Antonio Campi, "Santa caterina visitata in carcere dall'imperatrice Faustina" (1584)
Antonio Campi, "Santa caterina visitata in carcere dall'imperatrice Faustina" (1584)

Il carcere è violazione di Stato dei diritti umani, aberrazione sociale pubblicamente accettata, organismo giuridico punitivo ammantato di sadico paternalismo, o almeno, dati alla mano lo si deve ammettere, strumento pedagogico fallimentare.

Ma la strumentalizzazione da parte di alcune ideologie politiche e degli interessi elettorali intende far credere che i penitenziari assicurino maggior protezione e sicurezza collettiva, quando invece secondo i numeri avviene esattamente il contrario.

Non si sostiene qui che non esistano individui pericolosi per via dei loro crimini reiterati e soggetti che devono essere contenuti, ma si deve avere il coraggio di leggere i dati e usare l'intuito e la sensibilità per capire che un luogo di abbrutimento, carenza di relazioni umane soddisfacenti, di nutrimento culturale, dove molti valori etici sono calpestati o ignorati, un luogo di frustrazione cronica, di energie stagnanti, non può restituire alla società umana persone migliori, forze riqualificate.

Come può un luogo di claustrofobia interiore ed esteriore dare nuovo ossigeno a esseri umani ai quali si chiede di tornare a essere in armonia con la società?

L'utopia è quella di trasformare qualcuno tenendolo prigioniero.

 

Concludo con una suggestione letteraria tratta dalla magnifica opera di Dostoevskij I fratelli Karamazov: «se il giudice fosse giusto, il reo non sarebbe colpevole». È forse una critica giudiziaria al sistema legislativo o alla corruzione dei vertici legali? Anche, ma soprattutto svela la profonda comprensione della connessione energetica per via della quale tutti siamo ontologicamente legati a ciò che accade in ogni parte del mondo. Il grande maestro russo, nel suo più maestoso romanzo filosofico e teologico, sta qui esprimendo in termini giuridici quel rapporto energetico che unisce gli uomini nella responsabilità di ogni evento. E’ una visione profondissima del concetto di responsabilità nella sua radice metafisica. Non esiste nessuna colpa che sia solo di un uomo e non di tutti gli altri, ci dice Dostoevskij, perché nessun evento è, ontologicamente e quindi eticamente, avulso da tutti gli altri. Ogni foglia che cade condiziona ogni molecola che si posa e ogni molecola che si posa le reazioni di tutte le altre. Se il mondo fosse un luogo in cui non vi è colpa, incalza Dostoevskij, non ci sarebbero colpevoli, mentre il solo fatto che vi sia un solo colpevole significa che nessuno è completamente innocente. Certo, questo non può avere un effetto immediato e radicale sul sistema carcerario, ma sicuramente deve attivare una riflessione.

Ogni gesto, perfino ogni pensiero, ci dimostra oggi la fisica subatomica, è responsabile di ogni evento. L’esperimento della doppia fenditura sulle particelle subatomiche ha infatti rivelato che la sola aspettativa di un osservatore influenza il comportamento della particella. Sicuramente da un uomo chiuso in cella non ci si aspetta che riconosca in se stesso la propria possibilità di azione responsabile e cooperativa con gli altri.

C'è una connessione ontologica non aggirabile che vincola tutti noi, e una sola violenza non si ripercuote su tutto il resto. Questo ci rende alla mercé di tutto, ma responsabili di ogni cosa.

 

 

4 giugno 2019

 









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