Le riforme del PNRR e il declino decisionale del sistema politico italiano

 

Sono ormai alcuni anni – almeno dall’inizio del 2021– che si sente parlare del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza, per gli amici Recovery plan). Esso è diventato un punto focale del dibattito politico italiano, e a ragione: infatti tramite il piano l’Italia si propone di realizzare, di comune accordo con l’UE, riforme di larghissima portata riguardanti i settori cruciali dello Stato e dell’economia – e fin qui tutto bene. Quello che ci deve far riflettere in questa sede invece – al netto dell’impatto più o meno positivo del Piano – è una questione più generale: dovremmo, cioè, chiederci come mai le politiche del Recovery plan, così necessarie a detta di tutti i suoi promotori italiani ed europei per la modernizzazione del paese, non siano assurte prima a priorità del nostro sistema politico, e se ciò non riveli un certo vulnus nella capacità della nostra democrazia di governare il paese. 

 

 

I termini del problema

 

Dobbiamo iniziare guardando rapidamente al Recovery plan e al suo funzionamento, almeno a grandi linee. In seguito alle chiusure dovute alla prima ondata della pandemia di Coronavirus, i paesi UE si resero conto che la situazione economica era in assoluta crisi, e per farvi fronte si iniziò a pensare a un programma di spesa pubblica straordinaria tesa a rilanciare l’economia, come allora si stava cercando di fare anche negli Usa. Ora, a differenza degli Stati Uniti, i paesi europei non avevano le mani libere con queste politiche: infatti né potevano semplicemente stampare denaro, visto che l’euro è governato dalla Bce (Banca centrale europea), un istituzione Ue che non risponde ai singoli governi e che ha tra i suoi principali obbiettivi appunto quello di evitare l’inflazione (con risultati di recente poco brillanti, a dire il vero), né potevano prenderne liberamente in prestito, visto che l’Ue ha regole molto strette per gli stati sulla contrazione di debito pubblico. Si doveva quindi procedere in ambito europeo, unica sede dove si potesse essere liberi da queste stringenti regole, e gli esecutivi degli stati dopo intensi dibattiti si risolsero per una politica di spesa straordinaria in ambito comunitario: l’UE, oltre a distribuire fondi del suo bilancio, avrebbe raccolto sui mercati circa 750 miliardi di euro per finanziare politiche di ripresa dei singoli stati da concordare in sede europea (operazione chiamata Next generation EU). A ciascuno stato poi sarebbe spettata una parte dei fondi per attuare le politiche stabilite (all’Italia spettano circa 200 miliardi di euro, in parte a fondo perduto e in maggior parte prestati dall’Ue). 

 

Ora che si potevano reperire le risorse, bisognava assicurarsi fossero usate bene, ovvero per non solo stimolare la ripresa dopo la pandemia, ma anche migliorare e ammodernare l’economia dei paesi europei. I governi dei paesi dell’Unione, d’accordo con la Commissione europea, decisero alcuni obbiettivi verso cui si doveva tendere nell’utilizzo dei fondi (come la digitalizzazione, la transizione verde etc.). A questo punto i singoli governi, come quello italiano, dovevano presentare alla commissione e agli altri governi europei un piano che dettagliasse come sarebbero stati investiti questi fondi e come si intendesse perseguire a livello di singolo paese gli obbiettivi concordati a livello europeo. Per l’Italia questo piano era appunto il PNRR, nel quale si prometteva l’impiego dei fondi per la modernizzazione del paese, la transizione ecologica, e soprattutto varie “riforme strutturali” (come la giustizia, la pubblica amministrazione, l’educazione e il sistema sanitario) in ambiti dove il nostro paese presentava e presenta tuttora particolari criticità. Tale piano fu dapprima presentato dal governo Conte e poi rivisto dal governo Draghi, e sottoposto quindi all’approvazione della Commissione europea, che doveva vigilare sulla effettiva utilità delle riforme e delle “missioni” scelte dall’Italia rispetto agli obbiettivi comunitari. 

 

Di qui in poi il funzionamento – ovvero la fase in cui siamo ora – è il seguente: il paese deve impegnarsi nelle riforme scelte di comune accordo con l’Europa, e la commissione europea vigila affinché gli obbiettivi vengano raggiunti. Di volta in volta i fondi sono erogati allo stato in trances, o rate, se raggiunge gli obbiettivi nel periodo preso in considerazione. Se nel periodo gli obbiettivi non sono raggiunti il finanziamento è negato e posticipato. 

 

Questo è, a grandissime linee, il funzionamento del sistema: gli stati si sono dati obbiettivi da raggiungere in modo concordato con l’Ue (che naturalmente ha avuto diritto di parola nel determinare questi obbiettivi) e l’unione eroga i fondi per la ripresa e modernizzazione economica man mano che il paese li raggiunge. Gli stati, e l’Italia in particolare, si sono quindi impegnati in tutta una serie di necessarie politiche di larga portata, riforme strutturali e modernizzazioni radicali dell’economia e del sistema dello stato. 

 

Il ritorno (per decreto europeo) della decisione politica

 

Ora, perché questo è per noi interessante? Perché, al netto di tutti i possibili difetti del Recovery plan, con esso sembrano tornate sul terreno politico riforme di amplissimo respiro e lunga portata (basti pensare che le rate del Recovery plan saranno erogate fino al 2026 e il debito con cui lo si è finanziato si prevede sia da ripagare entro il 2058 per dare un immagine del fenomeno), riforme in grado potenzialmente di incidere in maniera sostanziale sull’intero sistema-paese, potendo portare a cambiamenti radicali nella situazione economica e sociale – o almeno questo dovrebbe essere nell’intenzione degli elaboratori del piano. Benissimo, non interessa adesso se sia più o meno probabile che il PNRR riesca a mantenere le aspettative che sembra suscitare, ma appunto sono importanti le politiche che prevede. 

 

Facciamo degli esempi di impegni presi dall’Italia nel PNRR: in esso si trovano politiche per la modernizzazione della trasandata rete idrica della Penisola, per la digitalizzazione della pubblica amministrazione, a lungo percepita come lenta e arretrata, poi semplificazione normativa, accorciamento dei tempi della giustizia, potenziamento e riforma globale dei servizi di istruzione e della sanità. Si può essere più o meno critici, come già detto, su come le singole politiche sono state progettate o vengono attuate, ma per qualsiasi cittadino interessato alla politica che si prenda la briga di consultare gli obbiettivi nel PNRR l’impressione è che – come d’improvviso – l’Italia abbia deciso di mettere mano a grosso modo tutti i problemi strutturali del paese, problemi di cui negli anni passati si è sempre discusso intensamente e interminabilmente in tutte le sedi, e che tuttavia sembriamo non essere stati in grado di risolvere, se ancora devono risultare criticità da sanare con il recupero post-pandemico. 

 

Ma perché adesso? Come prima cosa da notare, c’è che il PNRR è stato approntato in maniera preponderante sotto il governo tecnico-politico presieduto da Draghi, egli stesso un tecnico con pregressa esperienza europea di primo livello (fu governatore della BCE, appunto). In secondo luogo, assai più cinicamente, sembra risaltare come in un modo o nell’altro è servita la promessa di pagamenti di miliardi di euro per spingerci a prendere una posizione su questi problemi. Le questioni prima menzionate infatti, che il Recovery plan affronta, sono ben lungi dall’essere emerse con la pandemia. Erano problemi strutturali del paese della cui importanza – perlomeno tra gli addetti ai lavori – si aveva consapevolezza, ed era chiaro che un miglioramento delle condizioni generali del paese doveva passare anche per la loro risoluzione, a prescindere dai modi di dettaglio. Questi problemi, tuttavia, sembrano essere stati perlomeno in parte passati sotto silenzio dalla politica pre-emergenza, una politica che preferiva mettere mano all’indifferibile per lo stretto necessario invece che iniziare politiche di ampio raggio e lunga durata. Di contro l’impressione è che si preferisse attuare provvedimenti effimeri, adatti ad attuare misure promesse all’elettorato prima della fine della legislatura onde riscuoterne i dividendi elettorali sul breve periodo. L’ampiezza degli interventi che si sono poi dovuti inserire nel PNRR è da sola prova dei risultati della strategia della procrastinazione. 

 

 

Il pericolo nell’inerzia della democrazia

 

Una globale visione del futuro del paese sembra essere stata la grande assente della politica italiana degli ultimi anni, mancanza che si è solo potuta colmare, sembra, con un piano preparato sotto un governo tecnico con l’approvazione di un organismo sovranazionale (a sua volta piuttosto tecnico), il quale poi avrebbe vigilato sull’applicazione del PNRR indipendentemente dalla legislatura in carica. 

 

A mia opinione, questo rappresenta un fallimento per il nostro sistema politico, e per estensione della democrazia italiana. Fallimento, peraltro, le cui conseguenze a lungo termine possono essere del tutto imprevedibili ed inquietanti: la democrazia è un sistema di governo, e come tutti i sistemi di governo deve dare risposta alle esigenze della società che, appunto, governa, altrimenti rischia di andarne della sua stessa legittimazione. È importante non dimenticare quale fu la critica classica, riemergente in ogni epoca come fiume carsico da Socrate in poi, al concetto di democrazia: che essa rappresenterebbe il governo di tutti, e che i tutti in questione nulla ne saprebbero del vero interesse pubblico. L’argomento preferito per il sostegno dell’aristocrazia in tutte le epoche è invece appunto che gli aristoi, i migliori (oggi rappresentati con alti e bassi dai “tecnici”), sono gli unici a sapere cosa è meglio per l’interesse generale, ragione per cui peraltro è l’aristocrazia – intesa appunto come governo dei sapienti – la forma ideale di governo per Platone nella Repubblica, e non la democrazia. Questo pensiero è di inquietante attualità se le più importanti decisioni sulle politiche future si delegano, come appunto si è fatto con il PNRR e il governo Draghi, a soggetti legittimati non dal ruolo democratico di cui gli elettori li hanno più o meno direttamente investiti, ma da un retroterra di “competenza” che si ritiene sufficiente a investire un soggetto del compito di decidere per tutti. Un sistema del genere può senza dubbio essere efficiente, ma altrettanto sicuramente non ha una radice democratica

 

Più recentemente è emersa l’altra grande critica alla democrazia: l’idea che serva qualcuno in grado di decisione ferma e di andare oltre le divisioni e i dibattiti della democrazia concentrando la forza della nazione al bene comune è stata ripetuta per legittimare qualsiasi sorta di uomo forte più o meno dalla Rivoluzione francese in poi. La figura del grande leader carismatico di weberiana memoria può andare anche a braccetto con il tecnico, anche se ciò è piuttosto raro, oppure può esserne antitesi nel momento in cui si veda il tecnico come un altro decisore inefficace da superare. Quello che è certo è che queste due vere e proprie Scilla e Cariddi, tecnocrazia e cesarismo, nascono e prosperano nel medesimo contesto: quello di una democrazia che diventa debole, che, spesso (mal)governata da una classe politica troppo presa a guardarsi allo specchio, si avviluppa su se stessa non riuscendo più a dare risposte alla società che pure dovrebbe rappresentare; democrazia incapace, in una parola, di quella verwirklichung, quel rendere reali i valori e le scelte in cui Carl Schmitt all’inizio del secolo scorso ravvisava l’essenza stessa della politica. 

 

Cosa dobbiamo trarre da questo discorso? Appunto che, se la democrazia fallisce nel rispondere alle esigenze della società, si rischia detrimento per percezione che di lei hanno i governati. Contrariamente a quanto hanno sostenuto in ogni epoca i critici della democrazia, essa non si presenta come una forma di governo necessariamente inefficiente o più inefficiente di altre, e a titolo di esempio basti ricordare i grandi risultati raggiunti dalla democrazia italiana (ma anche nello stesso periodo dalle altre grandi democrazie europee) dal dopoguerra ad oggi: fu sotto la Repubblica democratica che l’Italia conobbe il suo periodo di massimo sviluppo economico, che si istituì un sistema sanitario pubblico e gratuito, che si espanse drasticamente la tutela dei diritti in pressoché tutti i campi. Queste erano politiche di ampio respiro che presupponevano una visione di paese, visione che negli ultimi anni sembra essere venuta meno, sostituita da riforme a breve termine elettoralmente spendibili fatte mantenendosi con più o meno successo nei vincoli di bilancio tanto cari a un mercato – che troppo spesso lasciamo a scegliere per noi. Il PNRR, dove le riforme strutturali sono state reintrodotte dopo lunga assenza solo con la collaborazione di un governo tecnico e di un organismo sovranazionale, sembra essere la prova di questo arretramento.

 

A problemi del genere non ci sono risposte facili, e quelle tecniche sarebbero al di fuori dello scopo di questa sede, ma mi limito ad indicare una possibile linea generale nella necessità di lavorare come paese a tutti i livelli, e a partire dall’opinione pubblica, su una cultura politica conscia che ponga l’accento sui veri problemi del paese, non in ultimo formando una classe politica sempre memore che avere una ben determinata visione di futuro può anche ledere al consenso elettorale immediato, ma che non averla può ledere alla democrazia nel suo insieme. E, soprattutto, che l’alternativa alla democrazia è troppo spesso il buio

 

26 febbraio 2024

 









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