La crisi della democrazia e il teatrino della politica

 

Il mondo si muove sospinto da continue e varie crisi (economiche, pandemiche, politico-militari), attraversato da una costante, che è assieme causa ed effetto: l’indebolimento dei poteri democratici. La politica sembra non solo incapace di prospettare soluzioni, ma pure inconsapevole dell’urgenza di cominciare un’analisi, invocata sia da esperti che da almeno un ventennio – e sempre più – la tematizzano, sia da elettori sfiduciati, stanchi di una partecipazione che finisce in farsa.

 

 

Le numerose e varie voci che si vanno susseguendo negli anni sulla crisi della democrazia occidentale danno la misura della sua portata e della consapevolezza diffusa che sempre più si ha, non solo da parte degli esperti. Nelle prime righe di The Shortest History of Democracy (2022), di John Keane, troviamo scritto:

 

« Milioni di cittadini in tutto il mondo si pongono oggi domande di grave importanza: cosa sta succedendo alla democrazia, un modo di governare e vivere che fino a poco tempo fa si diceva avesse goduto di una vittoria globale? Perché si ritiene che sia ovunque in ritirata o prossima all'estinzione? Hanno sicuramente ragione a chiederselo. »

 

Ad inizio anno è uscito in Italia un libro di un economista, Emiliano Brancaccio, esplicito già dal titolo: Democrazia sotto assedio (2022). Il sottotitolo contiene vocaboli di un lessico sempre più corrente: La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico. La quarta di copertina esordisce così:

 

« Da Trump a Biden, da Conte a Draghi, dall’effimera rivolta populista all’entusiasmo per il “governo dei migliori”, tutto sembra ogni volta cambiare affinché nulla in fondo cambi. Si modificano le parole chiave, le alleanze e le alchimie politiche, ma la sostanza della politica economica resta immutata. Mentre le contraddizioni della crisi pandemica, climatica e sociale si aggravano, la necessità di una “rivoluzione” di sistema torna sorprendentemente attuale. »

 

E si chiude con una citazione del saggio:

 

«Oltre l’80 per cento del capitale azionario mondiale è oggi controllato da meno del 2 per cento degli azionisti. Questa spaventosa concentrazione del potere economico ormai plasma il potere politico e assoggetta tutti i governi al medesimo imperativo: reprimere le ultime istanze egualitarie delle classi subalterne, se necessario anche restringendo lo spazio dei diritti di libertà. Il capitalismo tende così a precipitare in una crisi ancor più minacciosa, non solo economica ma anche democratica. »

 

Ma si può scegliere un anno a caso e il tema lo si trova comunque all’ordine del giorno tra le uscite editoriali. Per esempio, un saggio del 2016 si intitola Il potere vuoto. Le democrazie liberali e il ventunesimo secolo, di Lorenzo Castellani. In questa quarta di copertina si legge:

 

« Il grande gioco del potere sta cambiando e la democrazia liberale vive una crisi dai due volti. Da un lato l'avanzare del populismo, la fine dei partiti, il leaderismo, l'influenza del potere giudiziario, costituiscono il nuovo codice genetico della sovranità statale. Dall'altro sul tavolo della politica internazionale sono evidentissimi i fallimenti dell'esportazione della democrazia, le ipocrisie della tutela dei diritti umani. Con queste premesse, un viaggio dentro i meccanismi della democrazia liberale non può che essere un viaggio nella crisi dell'Occidente, nello sgretolamento della politica, nella debolezza delle democrazie occidentali di fronte ai grandi cambiamenti imposti dall'avvento della globalizzazione, delle nuove tecnologie, delle sfide geopolitiche. »

 

Si può benissimo andare molto più in là nel XXI secolo: Paul Ginsborg, scomparso di recente, nel 2006 aveva scritto La democrazia che non c’è. Un altro titolo suggestivo è quello di Massimo L. Salvadori: Democrazie senza democrazia (2009).

 

 

Si potrebbe proseguire a lungo, ma qui, più che fornire una bibliografia, ci interessa rilevare che, dopo più di un decennio, è sempre più evidente che non si tratta di un momento congiunturale, di assestamento, di passaggio; la tendenza appare sempre più marcata, di lungo periodo, al momento implacabile. Tanto che Keane, sempre nell’introduzione, asserisce:

 

« tutte le democrazie stanno affrontando la loro crisi più profonda dagli anni Trenta [...]. »

 

Benché egli evidenzi che non andremo incontro a una replica di quel periodo – «i nostri tempi sono così preoccupanti e sconcertanti proprio perché sono diversi» –, si tratta proprio di capire che cosa si sia rotto da allora, dal superamento di quella crisi, individuando discontinuità e differenze, ed eventuali continuità ed analogie; solo per restare a due eventi macroscopici, non si può non pensare all’epidemia di spagnola e alla pandemia del Covid-19; alla crisi economica del ’29 e a quella del 2008; il conflitto russo-ucraino, che porta con sé il terrore che si faccia conflitto mondiale.

Ciò che tutte queste analisi intendono indicare è che la crisi della democrazia è strutturale, cioè non determinata nella sostanza dall’avanzare delle forze politiche particolari. La rilevanza di un progetto politico non può eludere un problema tanto enorme e cruciale, la sua consapevolezza non può esimersi dall’analizzarlo, la sua credibilità non può prescindere dalla volontà programmatica di volere indicare eventuali soluzioni. Per questo lasciano sempre interdetti i leader politici che nelle loro scaramucce politiche paventano una crisi democratica nel caso di successo dei loro avversari. Si è ripetuto una volta di più, per esempio, durante la campagna elettorale delle ultime elezioni politiche in Italia.

Queste le parole pronunciate dal segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, in un appello del 6 settembre 2022:

 

« Abbiamo 17 giorni per cambiare la storia del nostro Paese ed evitare che l’allarme per la democrazia italiana diventi realtà. »

 

Come se l’allarme democratico fosse legato alla vittoria di forze politiche particolari: l’allarme democratico è invece già realtà.

Certamente, in qualche misura, con il variare delle forze politiche varia anche il livello di democraticità attuale e in prospettiva, ma non è questa variazione il cuore del problema. E, difatti, a certificare lo stato di salute (millantato) della democrazia ci ha pensato Mario Draghi, il Presidente del Consiglio dei Ministri del cosiddetto “governo dei migliori” o “di alto profilo”, nella sua ultima conferenza stampa, dieci giorni più tardi:

 

« la democrazia italiana è forte. »

 

Il problema principale che determina la crisi della democrazia – o, meglio, del sistema democratico attuale; visto che la democrazia è sempre stata estremamente povera rispetto ad un ideale futuro – è la percezione diffusa che andando a votare (ciò in cui consiste poveramente il nostro sistema democratico) nulla cambi, nulla sostanzialmente.

Per questo la tendenza registrata negli ultimi anni è di un numero crescente di astensioni tra i votanti. Questo, per esempio, il commento del direttore della «La Stampa» alle ultime elezioni amministrative del 13 giugno 2022 a Otto e Mezzo:

 

« La prima considerazione è che ha perso la democrazia italiana […] perché quando vanno a votare per le amministrative un italiano su due, beh, io penso ci sia molto da ragionare sullo stato di salute della nostra democrazia, del quale stato di salute sono ovviamente responsabili i partiti che non sono più in grado di ricucire una relazione sentimentale con l’elettorato.

Mi pare che il grande sconfitto di questo voto sia il voto: la gente non ha più voglia di votare perché considera il voto relativamente irrilevante […]. Cosa possiamo immaginarci che accada alle elezioni politiche dove i partiti sono spesso delle ombre? […] Non ci sono le ragioni di fondo, io credo, per molta gente di esprimersi. Questa è una crisi gravissima perché si mette in questione proprio la radice della democrazia. E su questo forse una riflessione andrebbe fatta. »

 

 

Di riflessioni fatte, che toccassero il cuore dei problemi, invece quasi non c’è stata l’ombra.

Le elezioni politiche hanno continuato a registrare un calo: dall’affluenza del 92% nel 1948 alla discesa del 86% nel 1994, passando per il 72% nel 2018, e giungendo al catastrofico 63,91% delle ultime elezioni del 25 settembre 2022.

Pochi giorni prima delle elezioni un sondaggio SWG aveva rilevato che il 28% del campione intervistato fosse persuaso che «votare non serva a nulla» e che un 13% si ritenesse «disgustato dalla politica».

Una tendenza non solo italiana, come è noto dalle legislative francesi di giugno, quando ha votato meno del 48% degli aventi diritto.

 

Se votare non serve a nulla, qual è la sostanza a non cambiare, pur nell’alternarsi dei partiti? Serve ricordarlo? Si tratta di quella tendenza costante degli ultimi decenni, che registra: l’aumento delle disuguaglianze e la concentrazione della ricchezza, l’erosione dei welfare (sanità, scuola) e la privatizzazione dei servizi, la precarizzazione, la crisi climatica, il progressivo aumento delle spese per il riarmo, la finanziarizzazione dell’economia, l’evasione legalizzata nei paradisi fiscali.

Che fanno davanti a tutto ciò la nostra politica e l’informazione per lo più? I politici si dedicano a teatrini nei quali si denigrano a vicenda e trattano gli elettori come se fossero in uno stato di minorità costitutivo; i giornalisti si limitano a riportare e ad alimentare proprio ciò a cui la politica si è ridotta: gossip. Che intrattiene in un teatro democratico sempre più vuoto, dove al momento va in scena una crisi senza appello, una fine tragica.

 

16 ottobre 2022

 








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