Anche un «dio» si può sbagliare. Wittgenstein tra aneddoti ed “ingenuità”, meraviglia ed angoscia

 

Il clima culturale di un'epoca determina l'approccio a questioni fondamentali e, in generale, alle sfere del sapere e alle tradizioni. Grandi figure celebri come quella di Wittgenstein, ma anche ora meno note come quelle di Carnap e Schlick, commisero un errore cruciale. Credettero di balzare e di collocarsi fuori dalla filosofia e dalla metafisica, per poi, condotti dalla serietà della loro riflessione, ritornarvi, rivolgendosi magari a pensatori del passato e abbracciando – più o meno consapevolmente – tesi fondamentali di quella tradizione che avevano avuto la pretesa di abbandonare.

 

Ludwig Wittgenstein (1889-1951)
Ludwig Wittgenstein (1889-1951)

 

PAROLE SCANDALOSE

  

Il caso di Wittgenstein è un caso emblematico, che potremmo raccontare iniziando con una storia di censura. (O, se vogliamo usare un termine più leggero, con una omissione).

 

Un'omissione che appare irrilevante e sulla quale non varrebbe la pena soffermarsi se non fosse invece significativa del clima culturale dell'epoca, carica di un conflitto aspro, il quale, dopo aver caratterizzato quegli anni, segnerà – sotto altri nomi (analitici e continentali, per esempio) e altre fattezze – tutto il Novecento.

 

Il 30 dicembre 1929 Wittgenstein si trovava a casa di Moritz Schlick a Vienna. Schlick, che già nel 1918 aveva pubblicato la sua Teoria generale della conoscenza, era stato l'iniziatore del positivismo logico (o neopositivismo) e nel 1924 aveva fondato Circolo di Vienna. Circolo che aveva fatto oggetto importante delle sue attività la discussione del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, uscito nel 1921, condividendone sostanzialmente la filosofia.

 

Quel giorno, una osservazione di Wittgenstein venne riportata da Friedrich Waismann nei suoi Appunti di conversazioni con Wittgenstein, che furono poi pubblicati assieme alla «leggendaria» (come la definì Franco Volpi) Lecture on Ethics (Conferenza sull'etica), pronunciata l'anno seguente a Cambridge.

 

QUALCHE ANNO PRIMA

 
L'anno era già iniziato con un evento eccezionale: il ritorno di Wittgenstein a Cambridge dopo quindici d'anni. «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto», scriveva John Maynard Keynes in una lettera del 18 gennaio 1929. Keynes, che all'epoca era già il grande economista di fama mondiale, aveva incontrato Wittgenstein per caso il giorno del suo rientro in Inghilterra.

 

John Maynard Keynes (1883-1946)
John Maynard Keynes (1883-1946)

 

I due si conoscevano ed erano rimasti in contatto anche dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, quando Wittgenstein si arruolò volontario nell'esercito austro-ungarico come soldato semplice in fanteria. (Venne successivamente promosso ufficiale di artiglieria. Combatté sul fronte russo e su quello italiano nell'altopiano di Asiago. Si guadagnò diverse onorificenze e medaglie al valore militare).

 

Sappiamo per esempio che una volta gli chiese di inviargli un libro del famoso filosofo e loro amico Bertrand Russell. Non era però un fatto inusuale. Il traffico di libri e riviste tra gli studiosi non venne meno nonostante gli orrori della prima guerra mondiale, anche quando si trovavano a combattere su trincee opposte.  «Gli [economisti] austriaci per lo più leggevano in inglese e si tenevano al corrente della tradizione britannica, anche se non ne erano convinti; gli inglesi tendenzialmente non leggevano in tedesco e ignoravano quasi del tutto le opere dei teorici austriaci e tedeschi. Però i contatti tra gli accademici erano tali e tanti che i confini nazionali significavano poco. […] Il filosofo Ludwig Wittgenstein, amico di John Maynard Keynes a Cambridge […], scrisse al primo mentre era nell’esercito austriaco sul fronte italiano: “Potresti inviarmi [un nuovo volume del filosofo di Cambridge Bertrand Russell] che te lo pago dopo la guerra?”. Keynes ottemperò» (N. Wapshott, Keynes o Hayek).

 

A proposito di treni, è curioso come Wittgenstein, lontano cugino di Friedrich von Hayek, lo incontrasse per la prima volta su di un treno, casualmente, in occasione di una licenza durante la guerra. E anche questa volta Wittgenstein seppe impressionare il suo non banale interlocutore – l'economista che, assieme a Keynes, segnerà le sorti del Novecento –, il quale restò colpito dalla «sua passione radicale per la verità in ogni cosa» (G. Dostaler, Il liberalismo di Hayek).

 

Una fama, comunque, a quanto pare diffusa e condivisa nell'ambiente che frequentava. Per esempio, Russell – con cui collaborò fin dal suo arrivo a Cambrige, che volle pubblicargli il Tractatus e per cui scrisse una prefazione – lo ha descritto come «il più perfetto esempio di genio che abbia mai conosciuto: appassionato, profondo, intenso, e dominante» (B. Russell, Autobiografia).

 

Bertrand Russell (1872-1970)
Bertrand Russell (1872-1970)

 

Dunque, il suo ritorno suscitò entusiasmo. Per dargli il bentornato, due giorni dopo il suo arrivo venne invitato a casa di Keynes, che convocò il cosiddetto circolo degli «Apostoli»: un club studentesco non ufficiale, elitario, famoso e chiacchierato per le tresche omosessuali fra i suoi membri. Nel circolo, in presenza di vecchi amici e di nuovi studenti, fu solennemente accolto in qualità di membro onorario (di «Angelo»).

 

Naturalmente Wittgenstein era noto anche come autore del Tractatus logico-philosophicus: «l’opera leggendaria [anche questa, sic!] che ha permeato, se non dominato, le discussioni filosofiche a Cambridge negli anni precedenti» (W. Eilenberger, Il tempo degli stregoni).

 

« Wittgenstein aveva finito di scriverlo nel 1918, durante la prigionia in Italia, e con la ferma convinzione di avere “risolto definitivamente, nella sostanza” i problemi del pensiero. Di qui la decisione di chiudere con la filosofia. Pochi mesi dopo – Wittgenstein era l’erede di una delle più ricche famiglie industriali del continente – cedeva alle sorelle [parte del] suo patrimonio [parte del suo patrimonio ereditato decide di distribuirlo ad artisti austriaci privi di mezzi, che egli personalmente seleziona (a beneficiarne ci saranno artisti illustri come Rilke, Trakl, Kokoschka, Haecker)]. Come scrisse allora in una lettera a Russell, tormentato da gravi crisi depressive e da ricorrenti fantasie suicide, era sua intenzione guadagnarsi da vivere, da allora in poi, “con un lavoro onesto”. In concreto, avrebbe fatto il maestro elementare in una scuola di provincia.  

 

Questo Wittgenstein faceva ora ritorno a Cambridge. E ci tornava per dedicarsi alla filosofia. Il genio, ormai quarantenne, era però sprovvisto di titoli accademici, e appariva inoltre totalmente sprovvisto di mezzi economici. Dopo poche settimane in Inghilterra quei pochi risparmi messi da parte nel corso degli anni si erano già dissolti. Il timido tentativo, fatto dagli amici, di chiedere un aiuto economico alle ricche sorelle, fu respinto da Wittgenstein con estrema decisione. Alla vigilia del suo esame orale scrisse a Moore: “La prego di accettare questa mia dichiarazione scritta: non solo ho numerosi parenti benestanti, ma sarebbero anche disposti a darmi del denaro, se glielo chiedessi. Io però non gli chiederò neanche un penny”.

 

Che fare? Nessuno, a Cambridge, dubitava delle doti eccezionali di Wittgenstein. Tutti, e tra questi le personalità più influenti dell’ambiente universitario, volevano trattenerlo e aiutarlo. E tuttavia anche nell’atmosfera famigliare di Cambridge, non era possibile, per ragioni istituzionali procurare una borsa di studio o addirittura un posto fisso a un ex studente che aveva interrotto gli studi. La soluzione escogitata è di fargli presentare il Tractatus logico-philosophicus come tesi di dottorato. Negli anni 1921-1922 Russell si era impegnato personalmente per far pubblicare il libro: per facilitare la cosa aveva anche scritto una introduzione di sua mano, persuaso com’era che quel testo del suo allievo di un tempo fosse molto superiore ai suoi stessi lavori, non meno epocali, nel campo della logica filosofica, della matematica e della filosofia del linguaggio. » (W. Eilenberger, Il tempo degli stregoni)

 

INTANTO, NEL MONDO

 

Il 1929 è un anno filosoficamente rilevante anche per la stesura di uno dei saggi più importanti di Sigmund Freud (1858-1939), pubblicato l'anno seguente: Il disagio della civiltà (Das Unbehagen in der Kultur). Il primo titolo da lui scelto era stato Das Unglück in der Kultur.

 

Tutte le grandi produzioni delle più grandi menti dell'epoca svelano il centro nichilistico da cui si irradiano i risultati conseguiti.

 

Dieci anni prima era uscito il primo volume del celebre Il tramonto dell'Occidente (1918-1923) di Oswald Spengler e l'anno dopo La scienza come professione (1919), il testamento spirituale di Max Weber, il più grande sociologo tedesco, con cui chiuse la vita volendo testimoniare il «disincanto del mondo».

 

Nel 1928, l'anno che precede il nostro aneddoto di censura, era venuto a mancare prematuramente un altro grande filosofo, una delle figure più importanti del movimento della fenomenologia, Max Scheler, che, in una delle sue ultime conferenze pubbliche, aveva riassunto il clima di crisi con queste parole: «Nella plurimillenaria storia dell’umanità noi siamo la prima epoca in cui l’uomo è diventato un enigma a se stesso; in cui non sa più chi è, sapendo tuttavia di non saperlo» (W. Eilenberger, Il tempo degli stregoni).

 

Non è un caso che il percorso dei due più grandi filosofi del Novecento, Wittgenstein e Heidegger, sia caratterizzato da una svolta, radicale, in cui capiranno di dover osare tentativi diversi da quelli che li avevano condotti alle loro opere principali, assieme ad errori ed aporie che dovevano essere superati.

 

Lo spaesamento culturale, sociale, politico che accompagnò la china darwinista, liberista, imperialista, colonialista, fascista, nazista verso la seconda guerra mondiale, trovò una voce e una prospettiva nella filosofia dell'esistenzialismo. L'essere e il nulla (1943), L'esistenzialismo è un umanismo (1946).

 

Wittgenstein e il suo capanno norvegese, davanti al fiordo di Skjolden
Wittgenstein e il suo capanno norvegese, davanti al fiordo di Skjolden

 

INSENSATEZZE METAFISICHE?

  

Ma di che cosa si occupava quel libro di Wittgenstein che ebbe un impatto rilevantissimo in quell'ambiente, per il neopositivismo e per la filosofia del Novecento? Per fare un esempio, nella sintesi di Russell che introduce il libro, apprendiamo che:

 

« Per comprendere questo libro di Wittgenstein è necessario comprendere quale sia il problema del quale egli si occupa. Nella parte della sua teoria che tratta il simbolismo, egli studia le condizioni che dovrebbero esser soddisfatte da un linguaggio logicamente perfetto. […]

 

Il primo requisito d'un linguaggio ideale è che vi sia un unico nome per ogni entità semplice, e che non vi sia mai lo stesso nome per due differenti entità semplici. Il nome è un simbolo semplice nel senso che esso non ha parti le quali siano esse stesse dei simboli. In un linguaggio logicamente perfetto, nulla che non sia semplice avrà un simbolo semplice. »

 

La svolta di Wittgenstein su questo tema, fondativo della sua primigenia prospettiva, non potrebbe essere più radicale. Leggiamola in un passo dell'opera principale del “secondo” Wittgenstein.

 

« Quali sono le parti costitutive semplici di una sedia? – I pezzi di legno di cui è formata? O le molecole? Oppure gli atomi? – 'Semplice' vuol dire: non composto. E questo è il punto: 'composto' in che senso? Non ha alcun senso parlare di 'elementi semplici della sedia, semplicemente' » (Ricerche filosofiche, § 47)

 

A prescindere da questo aspetto, pur rilevantissimo, in generale nel Tractatus Wittgenstein esprime l'esigenza di denunciare la complessità che si cela dietro ad affermazioni o domande che sembrano ovvie, scontate, sensate, ma che analizzate risultano, egli dice, insensate. Domande come potrebbero essere quelle nell'elenco casuale che segue. Dio esiste? L'anima è immortale? Perché a volte facciamo del bene per gli altri e altre volte facciamo il male pur sapendo che è tale? Il destino esiste? Devi essere te stesso! Qual è il posto dell'uomo nel cosmo? Che cosa devo, dunque, fare? Non devo farmi condizionare dagli altri. La scienza è una fede. Che cos'è la fede? L'uomo è solo un animale? È un animale egoista? L'uomo è libero e responsabile? I sensi ingannano? «Il mondo è indipendente dalla mia volontà?» (Tractatus, 6.373). Ecc.

 

Questa la posizione di Wittgenstein con le parole del Tractatus.

 

« Le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza. Le domande e le proposizioni dei filosofi si fondano per la maggior parte sul fatto che non comprendiamo la logica del linguaggio.

(Esse sono come la domanda, se il bene sia più o meno identico al bello.)

Né meraviglia che i problemi più profondi non siano problemi. » (Tractatus, 4.003)

 

Infatti, secondo Wittgenstein: «La proposizione rappresenta il sussistere e non sussistere di stati di cose» (4.1).

 

Quindi: «La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali)» (4.11).

 

E: «La filosofia non è una delle scienze naturali.

(La parola filosofia deve significare qualcosa che sta sopra o sotto, non già presso, le scienze naturali.)» (4.1111).

 

Allora il compito della filosofia è quello di mostrare quando il linguaggio esprime un senso e quando un nonsenso.

 

« Lo scopo della filosofia è il rischiaramento logico dei pensieri.

La filosofia è non una dottrina, ma un'attività. » (4.11)

 

Alla lunga interminabile lista figurerebbe inoltre quella stessa domanda che ha guidato Wittgenstein e che risulta insensata: che cosa posso conoscere?

 

« Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumente nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

 

Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all'espressione del pensiero: Ché, per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo poter pensare ambo i lati di questo limite (dovremmo, dunque, poter pensare quel che pensare non si può).

 

Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso. […]

 

Invece, la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile ed irreversibile. Io ritengo, dunque, d'avere definitivamente risolto nell'essenziale i problemi. E, se qui non erro, il valore di quest’opera consiste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l'essere questi problemi risolti. » (Tractatus, Introduzione)

 

Dunque, non si può dire quel che non si può dire. Per questo, la stessa operazione di Wittgenstein, propriamente, che ha come proposito di indicare che cosa non si può dire – perché insensato –, non può parlare di ciò che non si può dire. Quindi non può che limitarsi a mostrare in che cosa consista il senso: perché certe formulazioni linguistiche sembrano averlo, ma non lo hanno – sono, appunto, nonsensi.

 

« Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque qualcosa che con la filosofia nulla ha da fare –, e poi ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l'altro – egli non avrebbe il senso che gli insegniamo filosofia –, eppure esso sarebbe l'unico rigorosamente corretto. » (6.53)

 

Ciò significa per Wittgenstein che quella sequenza di domande “filosofiche” non avrebbero senso perché si riferiscono a termini con i quali le questioni vengono poste, i quali non hanno «significato alcuno». Come Dio, anima, bene, dovere, libertà, ecc.

 

Dunque, dicevamo, che senso ha parlare di ciò di cui non si può parlare? Non ce l'ha. Per questo Wittgenstein si appresta così a chiudere il Tractatus.

 

« Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che v’è salito).

Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo. » (6.54)

 

Per poi sintetizzare con la celeberrima ultima proposizione.

 

« Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. » (7)

 

Rudolf Carnap (1891-1970)
Rudolf Carnap (1891-1970)

 

Carnap aveva fatto proprio il progetto e gli esiti wittgensteiniani e così si esprime ne La concezione scientifica del mondo (1929):

 

« Tutto è accessibile all’uomo e l’uomo è la misura di tutte le cose. […] La concezione scientifica del mondo non conosce enigmi insolubili. Il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce, in parte, a smascherarle quali pseudo-problemi; in parte, convertirle in questioni empiriche, soggette, quindi, al giudizio della scienza sperimentale. Proprio tale chiarimento di questioni e asserti costituisce il compito dell’attività filosofica, che, comunque, non tende a stabilire specifici asserti “filosofici”. Il metodo di questa chiarificazione è quello dell’analisi logica; a dire del Russell esso “si è sviluppato via via nel contesto delle indagini critiche dei matematici, segnando un progresso simile a quello promosso da Galileo nella fisica: la sostituzione di risultati particolari comprovabili, in luogo di tesi generali correnti non comprovabili, motivate in termini di mera fantasia”. »

 

Carnap sembra riprendere alla lettera Wittgenstein, ma in questo passo aggiunge qualcosa di fondamentale: «Il chiarimento delle questioni filosofiche tradizionali conduce […] in parte, a convertirle in questioni empiriche, soggette, quindi, al giudizio della scienza sperimentale». Ciò significa che, in realtà, mostrare, attraverso l'analisi logico-empirica, l'insensatezza di tutte quelle domande e di tutti quei concetti metafisici, significa ricondurli ad esprimere più adeguatamente – scientificamente – quell'esigenza conoscitiva che contenevano. Quei concetti più che non dire nulla, non dicono adeguatamente ciò che vorrebbero dire. O, se vogliamo, lo dicono più o meno adeguatamente: in una gamma che va da un modo inadeguatissimo – ma che pure sempre esprime un significato che compendiamo, quindi sensato, anche se poco – a un modo prossimo alla scientificità.

 

Ma gli stessi concetti definiti scientifici non si rivelano essere anch'essi inadeguati, migliorabili, riconducibili ad entità diverse da quelle inizialmente, immaginate, postulate, pensate? Sì che quel che si verifica non è un passaggio dalla metafisica alla scienza, dall'insensato al sensato, ma una progressiva conquista di sensatezza – comunque già da sempre presente.

 

Lo stesso Carnap, nel fare il filosofo rigoroso, fa il passo troppo più lungo della gamba e scrive:

 

« Tutti i fautori della concezione scientifica del mondo concordano nel rifiuto sia della metafisica esplicita, sia di quella latente, propria dell’apriorismo. Ma il Circolo di Vienna sostiene, inoltre, che anche gli asserti del realismo (critico) e dell’idealismo circa la realtà o irrealtà del mondo esterno e delle altre menti hanno carattere metafisico, essendo soggetti alle stesse obiezioni rivolte contro gli asserti della metafisica antica: essi sono privi di senso, in quanto non verificabili e vacui. Qualcosa è «reale», nella misura in cui risulta inserito nel quadro generale dell’esperienza. »

 

Curioso è che metta reale tra virgolette – chissà mai che possa voler dire. Ma, come se non bastasse, introduce il concetto di esperienza, come se esso fosse un'ovvietà. Che cos'è l'esperienza? Chiediamo per esempio: non tutto forse ricade nell'esperienza – è riconducibile all'esperienza, a «questioni empiriche»? Che rapporto c'è tra l'esperienza, il pensiero, l'immaginazione? Il mondo empirico della natura è espresso in caratteri matematici? Soggetto al rapporto di causa-effetto? Che cosa è: qualcosa che è inserito nel quadro dell'esperienza o è il quadro stesso o cosa?

 

Insomma, tutto era stato risolto e rilegato nel nonsenso, finché non ci si imbatteva nei problemi; tutto era uno pseudo-problema, finché non si iniziava a viverlo – magari daccapo, con l'impressione di capirci qualcosa di più.

 

Infatti, Wittgenstein era tornato. E censurato.

 

SCIAMANI DEL PENSIERO

 

Siamo a quel 30 dicembre 1929. Da quell'annotazione di Waismann fu eliminata l'intera prima frase, che conteneva un riferimento a colui che sarebbe divenuto il bersaglio polemico più celebre del Circolo di Vienna, che, proprio con Carnap, si sarebbe reso protagonista di una polemica rilevante, sia nei toni, sia nel merito: Martin Heidegger.

 

Martin Heidegger (1889-1976)
Martin Heidegger (1889-1976)

 

Lo scontro fu dovuto a una dura reazione di Carnap alla prolusione magistrale che Heidegger tenne nel luglio del 1929 all'Università di Friburgo, dove era tornato come successore di Husserl. L'attacco trovò la sua formulazione definitiva nel saggio Il superamento della metafisica mediante l'analisi logica del linguaggio, che venne pubblicato nella rivista «Erkenntnis», l'organo del Circolo di Vienna. Heidegger venne preso a simbolo di quella metafisica di cui il neopositivismo intendeva sbarazzarsi attraverso la denuncia dell'uso scorretto del linguaggio: dall'impiego di concetti che non hanno alcun significato – perché non hanno un riferimento empirico – all'uso di pseudo-proposizioni che contravvengono alla logica e alla sintassi.

 

Ecco un passo significativo del testo di Heidegger, Che cos'è metafisica (1929), attaccato da Carnap:

 

« Se noi ci appropriamo espressamente dell'esserci scientifico […] allora dobbiamo dire:

Ciò a cui tende il riferimento al mondo è l'ente stesso – e nient'altro.

Ciò da cui ogni atteggiamento assume la propria direzione è l'ente stesso – e al di là di questo nient'altro.

Ciò con cui, nell'irruzione, avviene che la ricerca si confronto è l'ente stesso, e al di là di questo – nient'altro.

Ma che strano: nell'assicurarsi di ciò che gli è più proprio, l'uomo di scienza parla, esplicitamente o meno, di qualcosa d'altro. […]

Che cos'è questo Niente? È forse un caso che noi ci esprimiamo così con tanta naturalezza? È forse solo un modo di dire – e nient'altro?

Ma allora perché ci preoccupiamo di questo Niente? La scienza rifiuta il Niente e lo abbandona come nullità. Ma abbandonando il Niente in questo modo, non finiamo forse proprio per ammetterlo? […]

La scienza non vuol saperne del Niente. Eppure è altrettanto certo che dove cerca di esprimere la sua essenza, essa chiama in aiuto il Niente. […]

La domanda esige soltanto di essere formulata nei suoi termini propri: Che ne è del Niente? »

 

Qui Carnap ha gioco facile nell'obiettare ad Heidegger l'indebito passaggio dal nichts (niente) avverbiale, scritto con la minuscola, al Nichts (Niente) sostantivato, scritto con la maiuscola.

 

Tra questi antipodi si colloca Wittgenstein, che, in quella prima frase espunta dall'annotazione di Waismann, diceva:

 

« Posso bene immaginarmi che cosa intenda Heidegger per Essere e Angoscia». Il sentimento di angoscia è per Heidegger proprio quel sentimento peculiare che si distingue dalla paura – che è suscitato da qualcosa di determinato – perché nasce dall'indeterminatezza, dall'«essenziale impossibilità della determinatezza. »

 

L'angoscia è il sentimento che si prova davanti al nulla, dice Heidegger. «L'angoscia rileva il Niente». Ma come è possibile angosciarsi per il Niente? Ma come è possibile angosciarsi per niente – verrebbe da dire, continuando il gioco heideggeriano?

 

Qualcosa di analogo afferma Wittgenstein nella Conferenza sull'etica per la meraviglia.

 

« Se dico “Mi meraviglio per l'esistenza del mondo”, faccio un cattivo uso della lingua. Lasciatemi spiegare: ha un significato chiaro e preciso il dire che mi meraviglio di qualche cosa perché è come è, tutti capiamo cosa voglia dire meravigliarsi per le dimensioni di un cane più grosso di qualsiasi cane mai visto, o per qualcosa di straordinario, nell'accezione comune del termine. In tutti questi casi, io mi meraviglio di qualcosa perché è come è, e che “potrei” concepire come diversa. Mi meraviglio per le dimensioni di questo cane, perché potrei immaginare un cane di dimensioni normali, per esempio, di cui non mi meraviglierei. Dire “Mi meraviglio di questo e di quest'altro”, ha senso solo se posso immaginarmi che le cose non stiano così. In questo senso, ci si può meravigliare, diciamo, per l'esistenza di una casa, vedendola, non avendola visitata da molto tempo e avendo immaginato che l'avessero demolita nel frattempo. Ma non ha senso dire che mi meraviglio per l'esistenza del mondo poiché non posso immaginarlo non esistente. Posso certo meravigliarmi che il mondo attorno a me sia così. Se, per esempio, avessi una tale esperienza mentre guardo il cielo azzurro, potrei meravigliarmi del suo essere azzurro, invece che coperto di nubi. Ma non è questo che voglio dire. Mi sto meravigliando del cielo, “comunque esso sia”. Si potrebbe essere tentati di dire che mi sto meravigliando di una tautologia, e cioè del cielo azzurro o non azzurro che sia, ma allora non ha senso dire di meravigliarsi di una tautologia. »

 

Tuttavia, siccome il nulla – il nulla del mondo ovvero il nulla della totalità dell'ente – non lo possiamo pensare, la meraviglia o l'angoscia significano più propriamente il sentimento davanti all'ignoto, a ciò che è al di là di ogni esperienza immaginabile, al dopo la morte.

 

Meravigliarsi per qualcosa significa rilevare un qualcosa di inatteso rispetto all'abitudine. La meraviglia che l'essere sia è possibile proprio dall'esperienza con quanto della nostra vita è divenuto irrecuperabile e che ci sembra un nulla. La meraviglia è per ciò che siamo rispetto a ciò che non siamo più: è nell'esperienza di questo “essere nulla” che si manifesta la meraviglia per l'essere che ora siamo e, quindi, per qualsiasi tipo di essente. Perché qualcosa ha dovuto essere quel che è stato? è domanda legata al nostro essere sospesi nel nulla anche rispetto al passato che abbiamo esperito e che ora esperiamo come non più recuperabile: del nostro essere bambini non ne sappiamo quasi più nulla, dunque per noi non ne è più quasi nulla. L'assenza dell'intimo legame tra le cose – legame che non possiamo mai carpire e che ci lascia sempre nel nulla di quel che siamo stati – si traduce nella domanda perché l'essere invece che il nulla? È il modo di dire – attraverso una domanda con cui si veicola un sentimento abissale – che ci sfugge il senso delle cose, perché esso trascende la loro presenza attuale.

 

Wittgenstein in quella sera del 30 dicembre dice:

 

« Pensate per esempio alla meraviglia che qualcosa esista. La meraviglia non può essere espressa nella forma di una domanda, e non vi è neppure alcuna risposta. »

 

 

Invece la meraviglia che qualcosa in generale esista è la meraviglia che qualcosa di particolare esista quando ne perdiamo l'abitudine, la sua familiarità dovuta alla sua presenza. Ma anche le cose più familiari, se pensate, mostrano la loro provenienza ignota. Lo spaesamento che proviamo per il mostrarsi ignoto di ciò che è familiare – è l'angoscia. Noi siamo così estranei a noi stessi che correttamente formuliamo la domanda perché l'essere piuttosto che il nulla? Il mistero su noi stessi coinvolge il mistero su tutto ciò che esiste. E neppure abbracciamo tutto ciò che esiste – così incommensurabile che lo chiamiamo infinito. Inappropriatamente, come se potessimo pensare e significare l'infinito in quanto infinito! Sappiamo però che l'essere piuttosto si mostra come indeterminato, e a questa indeterminatezza si accompagna l'angoscia, che è l'esperienza del pensiero che sa, attualmente, di non poter sapere. Questa ignoranza chiede: perché l'essere piuttosto che il nulla? La risposta ci è preclusa. L'inaccessibilità alla risposta è il mistero. Wittgenstein nel Tractatus lo chiama il mistico.

 

Continua Wittgenstein in quella conversazione di dicembre:

 

« Tutto ciò che vorremmo dire [sulla meraviglia che qualcosa esista] può, a priori, essere solo nonsenso. »

 

Nonsenso è piuttosto la pretesa di esaurire la domanda. Ma è nonsenso esplicitare il senso della domanda e quanto detto finora? Certamente no. Ché consente un guadagno di intelligibilità della questione e, quindi, dei concetti con cui viene posta. Si tratta piuttosto di dotta ignoranza, che rientra in una sfera della riflessione che la tradizione filosofica conosce benissimo, da Socrate a Cusano.

 

Queste considerazioni di Wittgenstein si trovano tra due asserzioni simili:

 

« L'uomo ha l'impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. »

 

« Tuttavia, noi ci avventiamo contro i limiti del linguaggio. »

 

Queste asserzioni sarebbero vere se volessero dire che l'uomo cerca di farsi presente e trovare sintesi di questioni complesse e di lunghi ragionamenti in apoftegmi efficaci. Come lo sono l'affermazione «L'angoscia rileva il Niente» e la domanda «Che ne è del Niente?». Ma se si dà un significato concreto – empirico, come lo è quello di un sentimento determinato, di una esperienza – tali affermazioni e tali domande non solo sono sensate, ma non trascendono né il linguaggio né il pensiero. Ed ogni affermazione comprensibile avrà sempre un qualche significato, anche se non sarà appropriato all'esperienza che vuole significare: sì che le sfuggirà, si troverà a contraddirsi e cercherà di riformulare il proprio dire. Siamo tutti poeti, scienziati, filosofi, ma non tutti allo stesso grado; o, viceversa, siamo tutti superstiziosi e fideisti, ma non tutti allo stesso grado.

 

Così possiamo benissimo meravigliarci per il mondo o angosciarci del nulla, e tanto più adeguatamente quanto più sappiamo che cosa stiamo dicendo. Come possiamo – ad esempio – dire di trovare ridicoli oggigiorno i cerchi-quadrati, e tanto più adeguatamente quanto più sappiamo quel che vogliamo significare nel contesto in cui ci troviamo a parlare: se qualcuno volesse dire che ieri ha visto un cerchio con le caratteristiche del quadrato che lo ha fatto ridere, sicuramente non starebbe descrivendo la sua esperienza adeguatamente, ché non può aver visto una superficie con tali caratteristiche; allora dovremmo chiedere che cosa intendesse dire, dopo aver spiegato che egli non può significare con cerchio e con quadrato quel che noi intendiamo, perché le due cose non possono stare assieme; ma se volesse, che ne so, criticare la bassa grafica di un computer in cui si vedono i quadratini che compongono i cerchi, allora la sua formulazione coglierebbe nel segno.

 

In una migliore comprensione del contesto semantico, nonché dei significati non riducibili a concetti astratti univoci descriventi “fatti” atomici in sé, ovvero in una migliore comprensione di ciò che egli apostroferà con il nome ora famigerato di giochi linguistici – in ciò consisterà proprio la “scoperta” del “secondo” Wittgenstein, con cui non farà grandi passi in avanti rispetto alla tradizione che credeva di aver superato, ma senz'altro rispetto alle sue ingenuità iniziali.

 

6 maggio 2020

 








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