Messaggistica istantanea, reperibilità perenne

 

Oggi alla reperibilità istantanea, che ha demolito per sempre la separazione tra vita professionale e vita personale, si annette l’impossibilità ormai di fare a meno dei sistemi di messaggistica istantanea e, in più, si aggiunge l’onere della presenza (l’essere online) che tali app non solo impongono, ma che possono dimostrare-certificare-rappresentare: ci troviamo di fronte ad una inedita forma di “prostituzione di sé’?

 

di Iosif Pezone

 

 

Basta spalancare le palpebre affinché appaia evidente la postura asservita che l’individuo contemporaneo è costretto ad assumere. Certo, non è affatto nuova la riflessione che s’interroga sui margini – o limiti? – della libertà individuale entro il perimetro circoscritto delle società occidentali, dai suoi codici e dalle sue leggi, siano esse simboliche o giuridiche. È ormai assodato che la stessa esistenza e sussistenza della kultur in quanto tale imponga un certo grado di sudditanza inevitabile nei confronti dell’Altro o di sé. Dal disperato che giunge alla fine del mese arrancando, fino al Capo di Stato che si ritrova costretto a obbedire a direttive e regolamenti sovrannazionali, ciascuno, sia pure in forme diverse, con il raggiungimento della maturità e il conseguente approdo nella cosiddetta “vita adulta”, realizza che quasi tutti i significanti che regolano/guidano/direzionano l’esistenza sembrano mettere in evidenza un aspetto oscuro della condizione antropomorfa, ossia: essere umani, oggi come all’alba della civilizzazione, significa anche – ma non solo – essere perennemente sottomessi a qualcuno o a qualcosa e, al contempo, sottomettere qualcun altro. 

 

La domanda capitale dell’infanzia e dell’adolescenza – “Che vuoi fare da grande?” – guardata da questa prospettiva sembra assumere sembianze tali da far sì che possa essere tradotta in ciò che vuol realmente significare: “A cosa e a chi vuoi obbedire?”. Perché non è forse questo, per certi versi, da sempre, il significato dell’obbligo del “dover essere”? «Cioè, il senso della civiltà sia appunto quello di disciplinare con l’educazione la bestia da preda “uomo”, così da farne un animale mansuefatto e civilizzato, un animale domestico?» (F. Nietzsche, Genealogia della morale). Dunque, nonostante si tratti di una condizione strutturale insita alla storia dell’umanità, nel nostro tempo l’inferno da subire in nome del progresso sociale può dirsi peggiore in quanto sembra imporre nuove forme di necessaria, sofisticata e al tempo stesso invisibile, genuflessione: la prostituzione del e di sé, decretata e sdoganata universalmente con l’avvento delle app di messaggistica istantanea, ne è un esempio clamoroso. 

 

Mai come nell’oggi la vendita del proprio corpo, come espressione massima della vendita di sé, appare come una scelta innocua, se confrontata alle subdole svendite della propria personalità, offerte/imposte dai sistemi di messagistica di ultima generazione. Se, infatti, c’è stato un tempo in cui il soggetto – rientrato a casa – sembrava potersi scollegare dall’incasellamento sociale-lavorativo, oggi, con l’integrazione di massa delle nuove tecnologie nella quotidianità, lo svolgimento della propria professione, del proprio lavoro e/o la coltivazione dei propri interessi, sembrano non godere più della possibilità d’interruzione dell’attività, da parte del singolo. Fino alla fine del secolo scorso, nonostante l’individuo arrancasse, l’illusione di una imminente, ma parziale, “liberazione” dalla propria alienazione sembrava reggere in quanto le prassi sindacali riuscivano ancora a mascherare bene sfruttamenti e sopraffazioni. Tramite la concessione (unita al controllo) delle ore libere, il lavoratore e la lavoratrice riuscivano ancora a sopportare l’esproprio del tempo in attesa e a patto che di tanto in tanto arrivasse ora la fine della giornata lavorativa, ora la settimana di vacanza, ora il permesso premio. La sola attesa di “eventi del genere” rendeva la sopravvivenza ancora possibile o quanto meno accettabile. L’iper-connessione h24, tra le varie gratificazioni e utilità che ha regalato all’umanità, ha finito per smascherare persino l’illusione della sopportabilità dell’esistenza civile: il tempo libero, che non è mai davvero esistito, ora collassa persino sottoforma di inganno e fandonia.

 

 

La reperibilità perenne e la possibilità generalizzata d’esser costantemente bersaglio dei desideri di comunicazione propri e dell’Altro, ha fatto sì che nelle proprie funzioni l’individuo si scopra non impegnato, né occupato, bensì perseguitato dal lavoro che ha scelto e da tutti gli aspetti con cui riempie la sua vita. Non ha più scuse, né dèi, che possano giustificare un suo “non posso”, visto che gli attuali significanti antropologici riescono ormai a far passate come ovvietà l’idea che tutti, potenzialmente, possano tutto: con le chiamate audiovisive, dicono, si può addirittura esserci, pur non essendoci. E così, la sola eventualità di “non poter rispondere subito”, si presta immediatamente ad essere interpretata come una non-volontà di far di far fronte a questa o a quella faccenda; di porre attenzione a questa o a quella persona. La sola idea dell’impossibilità fattuale di essere costantemente presenti/connessi sembra sia stata totalmente abolita dall’immaginario del singolo e del collettivo. L’assenza, come vicissitudine umana, è bandita. Non ci si può più sottrarre a quello che è divenuto a tutti gli effetti un onere, l’onere civile per eccellenza: essere online. Così, ogni attesa diviene mancanza; ogni feedback non ricevuto è un misconoscimento; ogni fraintendimento: negligenza. 

 

In altri termini, se nella vendita del proprio corpo ci si può scindere da sé stessi consumando, sì, il rapporto, ma essendo – con la testa – altrove per poi ritornare al mondo successivamente, riguardo la schiavitù a cui condannano le app di messaggistica istantanea accade il contrario: ci si scinde dal mondo non per tornarci successivamente, bensì per sentire di esistere davvero ma altrove – nella dimensione digitale che, a differenza della vita reale (il più della volte vuota e noiosa), può fornire prove del proprio agire e, più in generale, del fatto stesso di esistere. L’individuo può finalmente proiettarsi ed esaurirsi in quanto soggettività in uno schema – universale – nel quale la sola sua presenza (leggi: attività) è utile a fomentare e dare consistenza alla narrazione che il soggetto fa di sé – sia agli altri, sia a se stesso. Guardiamo un profilo qualsiasi di una persona media, comune, presente su qualsivoglia social network. Sembra che abbia il tempo per fare, essere e divenire, tutto ciò che egli desidera. Tempo per lo sport, per la cultura, per il sesso, per l’esercizio della professione. Tempo per sfiorare tutto, senza prendere – vivere – nulla; la possibilità di masticare la propria pietanza preferita, di gustarla persino, senza però poterla ingoiare: ecco l’essenza, almeno in questa prima fase della Storia, delle identità digitali.

 

Individui esposti lì, sulla griglia, sul catalogo, persone da vendere, adescare, contattare, comprare: perennemente. E non è proprio la presenza di quest’ultimo aggettivo, di fatto incontestabile e innegabile, a rendere l’argomento qui descritto cruciale – ai fini della qualità esistenziale di ciascuno di noi? La soluzione, ovviamente, non può essere una limitazione né l’interdizione di simili sistemi ma, anche e soprattutto in vista degli attuali fermenti generati dall’avanzata delle AI, problematizzare determinate dinamiche e i loro impatti è un compito a cui non si può più venir meno. Beninteso, sempre ponendo attenzione a non correre il rischio d’inciampare in pedagogismi – i quali risulterebbero ininfluenti, se non stucchevoli. L’obiettivo non può e non deve consistere nel formulare una sorta di “educazione” all’uso di determinati dispositivi, bensì nell’individuare per poi denominare quei fenomeni che, in quest’inizio di secolo e millennio, sembrano assumere le sembianze di nuove, e al contempo ennesime, catene.

 

 

17 gennaio 2024

 









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