Fallout: da videogioco a critica sociale

di Michele Rossi

 

Passata in sordina nel grande mondo delle recensioni online e del battage pubblicitario, Fallout è un piccolo gioiello: una prima stagione con otto episodi di pura follia.

 

Gli autori della serie,  Geneva Robertson-Dworet e Graham Wagner, si ispirano all’ambientazione post-apocalittica della serie di videogiochi omonima, e mescolano sapientemente gli ingredienti: abbiamo sangue a fiotti, violenza gratuita, aberrazioni genetiche, il tutto condito da una splendida colonna sonora anni ’50 che ci ricorda di continuo la particolarità di questa ucronia.

Sì, perché mentre in molte altre opere distopiche – da MadMax a Terminator, passando per Matrix – l’umanità intera precipita in una distruzione globale, con Fallout emerge una possibilità inquietante: e se fosse una parte minoritaria dell’umanità a ricorrere alla distruzione del resto del Mondo per garantire la sopravvivenza di un sistema corrotto e disfunzionale? 

È questo ci colpisce alle budella, come quei molari sparati da pistole e fucili a  mo' di proiettili nel mondo post-atomico.

 

Seguiamo quindi, in questa incursione, il tema centrale della prima stagione di Fallout (ovviamente, occhio agli spoiler!), che ci parla di una strana ucronia

Il mondo del XXI Secolo si è sviluppato grazie a un ricorso massiccio all'energia atomica, portando un sacco di nuovi gingilli tecnologici in una quotidianità rimasta immersa in una cultura artistica e filmica ferma agli anni '50. Anche le ideologie politiche richiamano pericolosamente quel periodo, con una martellante pressione propagandistica contro i comunisti cinesi. Contro questi ultimi, lo zio Sam ingaggia anche uno scontro militare senza esclusione di colpi, in un'escalation esponenziale. 

È in questa situazione paradossale, nella quale il corpaccione delle élite economico-politiche decide di tagliarsi le parti sane per mantenere in vita quelle malate, innescando volutamente un olocausto nucleare che devasta l'intero pianeta.

 

Il dente si rigira nelle budella, monta il disgusto e l'incazzatura: ci può essere qualcosa di più ingiusto di un sistema malato, disposto all'azzeramento totale della vita pur di sopravvivere?

 

Per fare un paragone impietoso, quanto siamo lontani dal super-ottimistico e pubblicizzato Il problema dei tre corpi!

La serie Netflix più cliccata dell'ultimo periodo, oltre a presentare recitazioni canine, dialoghi scialbi, personaggi piatti come una tavola da stiro, non convince. Troppo ottimismo, forse: sappiamo che il sistema economico globalizzato fa fatica ad affrontare una crisi climatica in corso, e pensiamo davvero che possa programmare una risposta unitaria, mettendo da parte la competizione geopolitica, contro una minaccia spostata addirittura 400 anni nel futuro?

In Fallout non c'è bisogno del pericolo extraterrestre: la guerra globale tra Stati Uniti e Cina nel 2077, oltre a generare una poderosa ondata di neo-maccartismo e sinofobia nell’opinione pubblica occidentale (a buon intenditor...), porta a uno scenario di mutua distruzione atomica. 

 

In altre narrazioni distopiche la nuclearizzazione mondiale è imprevedibile: all’umanità sfugge di mano lo sviluppo tecnologico, con conseguenze disastrose.

Non c'è dolo, solo un'enorme dose di stupidità e hybris. 

Così in Fallout, almeno in apparenza, avviene lo stesso. Per scongiurare l’apocalisse atomica si producono bunker sotterranei – i “Vault” – con tutto il necessario per mantenere la sopravvivenza e la generazione nei decenni di pochi esseri umani in attesa del decadimento di radiazioni nel mondo in superficie. Quest’ultimo, ridotto a un immenso Far West radioattivo, diventa cornucopia di creature mostruose, mutanti, ciarlatani e criminali di ogni risma. 

 

Eppure, il dipanarsi della serie racconta una storia diversa: il risultato finale – l’olocausto nucleare – non cambia; è il modo in cui ci si arriva che fa la differenza. Perché i Vault, le isole di salvezza e prosecuzione della specie umana, non sono prodotti di uno sforzo collettivo – un’alleanza tra cittadini o tra Stati – ma di colossi privati guidati da oligarchie finanziarie senza scrupoli. È innanzitutto la Vault-Tec, azienda madre multimiliardaria, a tifare per la guerra atomica e addirittura ad usarla per la conquista di fette sempre più grosse di mercato. Si progettano rifugi di serie A, B o Zeta, a seconda del portafogli di chi può permetterseli, pompando la domanda di mercato. Al resto ci pensa la Bomba. 

 

Quello che Fallout mostra in modo così vivido e doloroso, come un dente sparato nelle budella, è un capitalismo allo stato comatoso, costretto per la sua stessa auto-conservazione ad auto-distruggersi.

Auto-condannarsi per auto-salvarsi.

Una contraddizione esiziale, degna degli hegeliani più arrapati, fortunatamente (per ora!) limitata al mondo spirituale della produzione cinematografica, seppur con un messaggio dirompente: non potendo più offrire alcuna realizzazione sociale o politica, l'unica cosa che il capitalismo globale può mettere sul piatto è la mera sopravvivenza dei più ricchi tramite l'inganno di una guerra globale spacciata per inevitabile. 

 

Perché in fondo, come ben sintetizzato da uno dei protagonisti, “l'arma più potente del capitalismo, l'arma definitiva che gli consentirà di vincere, è il tempo”. 

 

9 maggio 2024

 


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