La deriva culturale imposta — o meglio, accolta — dalla televisione commerciale ha sostituito il pensiero critico con l’intrattenimento anestetico. La rivoluzione non è avvenuta nelle piazze, ma nei salotti di casa: una rivoluzione “mariana” incolta che ha livellato verso il basso, legittimando l’ignoranza come spontaneità e la gaffe come cifra retorica. E mentre tutto brucia dietro le quinte, applaudiamo convinti che sia solo uno sketch.
C’è stata una rivoluzione culturale, ma non è venuta dai libri, dalle università o dalle piazze. Non ha avuto bisogno di manifesti ideologici, barricate o grandi discorsi. È avvenuta nel salotto di casa, ogni sera, nello schiamazzo catodico di una risata registrata o di un piagnisteo programmato. La televisione commerciale prima e il servizio pubblico poi hanno compiuto una rivoluzione vera, profonda, pervasiva e persuasiva. Abbiamo assistito a una forma moderna di maoismo al contrario – o se si vuole di marianismo, e non si parla di madonne, ma di devozione a conduttrici – in cui l’élite non viene rieducata al popolo, ma il popolo viene abbassato e inebetito all’inconsapevolezza, al livello del piatto standard della presunta normalità.
L’intrattenimento televisivo ha annullato la tensione tra essere e dover essere, lo scriveva già Umberto Eco nella Fenomenologia di Mike Bongiorno. Gli idoli del grande schermo sono inni alla mediocrità, campioni dell’accessibilità assoluta: nessuno ha bisogno di migliorarsi per identificarsi in essi, nessuno si sente escluso o inadeguato. Il successo di questo modello è proprio nella sua innocenza apparente. È una religione senza peccato originale, nella quale l’assoluzione è preventiva e il culto del «così come sei» è elevato a norma televisiva. L’uomo dello schermo non umilia, non insegna, non invita a salire: ti rassicura che sei già dove devi essere. E il pubblico lo ama per questo.
La spettacolarizzazione contemporanea – quella che invade ogni palinsesto con reality, trash, talk show gridati e fiction di cartapesta – è il trionfo del vuoto mascherato da intrattenimento. Non importa il contenuto, importa che sia facile, rapido, digeribile. Non importa che informi, purché distragga.
In fondo, ci piace il vuoto che guardiamo, perché ci consente di scomparire in esso, come camaleonti sul nulla che ci omologa. Con la sua promessa di leggerezza e accessibilità, la tv ha compiuto la più profonda mutazione antropologica del nostro tempo: ha abolito la distanza tra chi guarda e chi appare, tra chi sa e chi dice, tra ciò che conta e ciò che funziona. Il vero pericolo non sta nella televisione che ci riempie di sciocchezze, ma nel disabituarsi al silenzio fertile, al pensiero lento, alla profondità. È la spinta a vivere in superficie, dove ogni cosa è già detta, ogni volto già visto, ogni emozione prefabbricata.
L’intelligenza è sospetta, la complessità un fastidio, l’ironia una minaccia. Lo spettacolo ha bisogno di facce semplici, contenuti elementari, storie che si risolvano in un gesto, in una battuta, in una lacrima. Riconoscersi nella banalità dell’altro viene scambiata per empatia, l’ignoranza viene camuffata da spontaneità e autenticità. Un altro fattore di cui Eco si era fatto analista senza poter conoscere la deriva attuale, è l’elogio della gaffe: non l’errore autentico, ma la goffaggine istituzionalizzata. Un inciampo che diventa cifra stilistica, tratto umano, marchio di fabbrica.
Non siamo più davanti a un linguaggio che inciampa nel reale, ma a un reale che viene plasmato per rimanere costantemente sotto il livello di attenzione critica. La gaffe non scandalizza, anzi consola: è la prova che chi sta in “alto” è come noi – impreciso, distratto, impacciato – e quindi innocuo. Osservare un ignorante, mi assolve dalla mia ignoranza; guardare un uomo che compie discutibili azioni morali, mi assolve dalla mia coscienza morale.
L’uomo mediocre si impone con familiarità, egli è perdonato in anticipo, perché niente è più giudicato. C’è, in tutto questo, una strategia involontaria ma spietata: la legittimazione sistematica dell’inadeguato, la trasfigurazione dell’errore in stile comunicativo, della sciatteria in genuinità, della superficialità in calore umano. E così, mentre si dichiara di non giudicare l’uomo, si finisce per smascherare il sistema che ha costruito il personaggio: un apparato che premia non la qualità, ma la riconoscibilità; non il pensiero, ma la presenza; non l’intelligenza, ma la rassicurante inoffensività del già noto.
Lo spettacolo permanente, senza sosta, termina sullo schermo per continuare sui social, santuari del nulla. Non resta che ricordare le parole di Søren Kierkegaard, quando aveva previsto il tramonto tragicomico dell’Occidente:
« In teatro scoppiò un incendio dietro le quinte. Un clown uscì sul palcoscenico e avvisò il pubblico. Gli spettatori pensarono che si trattasse di uno scherzo e applaudirono. Il clown ripeté l’annuncio, con sempre maggior divertimento dei presenti. È così, immagino, che il mondo finirà distrutto: tra l’ilarità generale dei buontemponi, convinti che sia tutto un gioco ».
9 agosto 2025