Perfect Days di Wim Wenders è uno di quei film che ti entrano dentro dalla prima inquadratura, restando impressi nella pelle e nello spirito per giorni. L'impronta dell'ultima opera del regista tedesco è inconfondibile in un duplice senso. Non solo perché è chiaro che, stilisticamente, si tratti di un suo film, ma perché intende parlare dell'inconfondibile (Pietro Prini avrebbe detto «l’inverificabile»), cioè della sconcertante evidenza inevidente dell’esistenza.
Hirayama, questa solinga figura che sbarca il lunario facendo l’addetto delle pulizie in una Tokyo sempre più agitata e alienata, sembra quasi ricalcare la fisionomia spirituale de L’uomo che cammina di Taniguchi. Come il protagonista del manga, egli non è interessato solo a ciò che si vede, ma al vedere, alla presenza assente, densa e al tempo stesso impalpabile, di tutto ciò che si vede. Quando si sveglia o quando siede da solo nel parco, dopo il lavoro, egli è attratto irresistibilmente dalla voce del vento che sussurra e agita il fogliame. Ciò che lo avvince non è né il vento né le foglie né la luce, ma il respiro indefinibile di questi elementi, la vita che palpita fragorosa in essi e che grida continuamente la sua non-nientità. È il miracolo dell’essere vivi, un miracolo che nessuna parola, nessuna immagine, nessuna voce possono circoscrivere, perché ogni parola, ogni immagine, ogni suono sono parte, segni del miracolo stesso.
L’inserimento delle scene oniriche in bianco e nero, l’uso delle dissolvenze, dalla prima che lascia intravedere il Kanji di ombra, sembrano rimandare a un altro film europeo che diversamente ha omaggiato il Giappone: Hiroshima mon amour di Resnais. Ma qui la sovrapposizione chiaroscurale fra le immagini sembra funzionale all’emersione di questo rituale quotidiano in cui Hirayama si immerge nell’Aperto della vita. La sua passione per tutto ciò che è analogico, dalla macchina fotografica con cui è solito fotografare lo stesso albero alle audiocassette di Lou Reed, Patti Smith, Van Morrison, Velvet Underground, Nina Simone etc., fino a giungere agli amati libri usati, da un lato conferisce spessore pop a un’opera lontana dalle coordinate del cinema mainstream, dall’altro sembra marcare ancora di più il carattere eccentrico dell’ordinario, le fattezze di una solitudine ricercata e coltivata, che si contrappone risolutamente a qualsiasi isolamento forzato. Il rapporto di distanza e poi di inaspettata vicinanza col suo giovane collega, impacciato e goffo, ci consegna subito la statura etica di un uomo che parla poco e agisce nel silenzio. Questo spessore morale emerge ancora di più quando a spalancarsi sulla limpidezza apparentemente inscalfibile del presente è la porta del passato. L’incontro con la nipote, scappata di casa, rimpingua la sostanza spirituale dell’opera. Non c'è un solo mondo, una sola prospettiva, vi sono infiniti mondi nello stesso mondo, diverse finestre dalle quali lasciare entrare la luce, lo spettacolo della vita. Può accadere che i mondi soggettivi s’intersechino, oppure che restino lontani. Ma anche quando restano lontani, apparentemente impenetrabili (come il mondo soggettivo della donna che gli siede sempre accanto nel parco o quello del clochard che danza nel brulichio nevrotico della metropoli, incurante del giudizio altrui), sembrano tremendamente vicini. Il lontano, l’impenetrabile, diventa vicino perché incontra la compassione di Hirayama, la sua capacità di riconoscere la prossimità della marginalità. Anche quando la sua religione della sacralità dell’istante, del quotidiano, sembra essere incrinata dal conflitto, dall’incontro con l’altro che inquieta e che sovverte le nostre coordinate soggettive, anche allora la sua postura esistenziale non vacilla del tutto. Anche allora egli vede l’altro come se fosse se stesso, inducendolo a soggiornare, anche se per poco, nel suo personale culto dell’Adesso: «la prossima volta è la prossima volta. Adesso è adesso». Questa tautologia apparentemente vuota è una tautologia esistenziale. Non aggiunge nulla sul piano logico-discorsivo, ma spalanca l’infinito sul piano esistentivo. Non si tratta, secondo Hirayama, di vedere nuovamente lo stesso. Si tratta, invece, di vedere continuamente la novità assoluta dello stesso, la perpetuità miracolosa dell’Adesso: il reale così com’è, scrostato da tutte le incrostazioni individuali, soggettivistiche. Anche nel dolore, anche quando il passato sembra lacerare la puntualità indissolubile dell’attimo.
Il finale, sulle note di Nina Simone, con Koji Yakusho che fissa lo spettatore, infrangendo la separazione della quarta parete, sembra rammentare la scena folgorante di Eureka, quella in cui Kōji/Makoto incrocia lo sguardo innocente di Kozue/Aoi Miyazaki. Anche qui, come in Eureka di Aoyama, lo sguardo unico e molteplice del cinema (il mondo che è infinità di mondi), nel tragico, nella comprensenza di lacrime e sorriso, nella smorfia impossibile di Kōji/Hirayama, ricompongono la trama dell’Adesso, la tessitura indicibile di ciò che è perfetto in un giorno. Non esiste il giorno perfetto, ogni giorno è perfetto perché è. La perfezione non è l'assenza di imperfezione: è la grazia, il mistero, l’insondabiltà di ogni giorno, di ogni Adesso.
25 aprile 2025