Aruku Hito di Taniguchi è un manga capace di risvegliare dal torpore la nostra coscienza esistenziale. Delineando i contorni di un’estetica del mistero, il mangaka giapponese ripropone la lezione di Dōgen: ogni attimo, ogni passo del nostro cammino, dischiude la verità originaria dell’illuminazione. La pratica del vuoto è la condizione trascendentale dell’estetica e dell’etica. Essere Buddha significa essere semplicemente un uomo che cammina, consapevole del mistero di esistere.
di Marco Palladino
Studiare filosofia attraverso i manga significa rivoluzionare completamente il metodo di apprendimento. La filosofia, secondo la definizione data da Hegel, è la fatica del concetto. Questa fatica può restare fatica, ossia ricerca metodica, disciplinata della verità, servendosi del potere illuminante dell’immagine, della rappresentazione. Attraverso le linee, le figure, il concetto si simbolizza senza perdere il suo vigore. Da segno esangue acquista nervi, diventa carne. Le idee, motore dell’agire umano, non devono solo fissarsi nella mente, ma devono impressionare e colpire i nostri sensi, sedimentarsi nel nostro sguardo sensibile.
Nei manga, dunque, non solo vi sono elementi filosofici che ci inducono a porre domande fondamentali sul senso del nostro percorso, ma in essi vi è una singolare filosofia, una specifica traduzione artistica del flusso vitale. Lo vediamo soprattutto al cospetto delle opere di Jirō Taniguchi. Qui, nell’opera del mangaka presa in esame, la generale definizione che Hugo Pratt forniva del fumetto, di essere, cioè, «letteratura disegnata», sembra infatti essere completamente rovesciata. Il manga per Taniguchi, soprattutto per il Taniguchi de L’uomo che cammina, è poesia disegnata. Sfogliando le pagine di questo volume, la dinamicità che siamo soliti riscontrare nelle narrazioni tipiche dei manga è sostituita da una quiete singolare, una quiete profonda, che richiama fin da subito l’incedere proprio della poesia giapponese. È come se ci trovassimo al cospetto di un waka di Dōgen o un haiku di Bashō. Il protagonista assoluto del racconto è, infatti, come nelle poesie dei maestri poc’anzi citati, lo splendore del quotidiano che, ad ogni passo, folgora gli occhi serafici dell’uomo, senza nome (scelta non casuale, come a voler rimarcare il carattere archetipico, e dunque universale, di questo viandante che incarna ognuno di noi sul cammino della vita), che, senza meta, senza uno scopo preciso, si inoltra nei viali alberati, negli angoli familiari del proprio giardino, nei vicoletti di una Tokyo inconsueta, anch’essa trasfigurata, forse, dalla proverbiale flemma del suo passo.
In questo cammino, da un punto di vista stilistico, è da evidenziare la scelta di Taniguchi di utilizzare le onomatopee per segnalare i suoni più deboli, quelli più impercettibili, che increspano di poco il silenzio in cui il paesaggio e le cose sono immersi. Le onomatopee, solitamente, vengono utilizzate per marcare i suoni più forti, quelli legati ai momenti topici di un’azione. Qui, dove l’agire sfuma ''taoisticamente'' nel non-agire, nei passi e negli sguardi contemplativi, le onomatopee devono indurre lo spettatore ad allargare lo spettro della propria attenzione, per rivolgere lo sguardo a quei dettagli apparentemente insignificanti del quotidiano che emanano un insolito splendore. L’estetica di Taniguchi, difatti, potremmo definirla né un’estetica del bello né un’estetica del sublime, ma un’estetica del mistero. Gli oggetti che di volta in volta colpiscono lo sguardo dell’uomo non sono concrezioni visibili né di una perfetta compostezza e non sono neppure portatori di quella miscela di fascinazione e repulsione propria degli oggetti capaci di evocare il sentimento del sublime. Gli oggetti che l’uomo incontra compongono una sorta di miniatura del quotidiano: una conchiglia che spunta tra i fili d’erba del proprio giardino, le antenne di una televisione, la ruota di una bicicletta che sporge dal cortile, lo sciame di case osservate dalla cima di un albero. Tutto fa sobbalzare il cuore dell’uomo, ricucendo il suo sguardo allo stupore originario del bambino che osserva tutto con occhi assolutamente vergini, per la prima volta. Tutto ciò che egli vede e sente, però, lo ha già visto, lo ha già sentito. Ma è come se solo in quel momento vedesse davvero e sentisse davvero. Perché? Perché egli, come insegna Dōgen, vede il mistero abbacinante dell’esistenza di visto e veggente. Ogni esperienza, dalla fragile caduta della pioggia al volo liberatorio di un uccello, diventa testimone della straordinarietà di ciò che è ordinario. Aprire gli occhi alla segreta melodia del mistero che annoda silente i fili impercettibili delle cose, significa acquisire una nuova innocenza; vuol dire conoscere per davvero: ossia, nascere insieme alla cosa conosciuta, sentirsi parte di un parto continuo; un parto in cui le cose non gemono di dolore, ma per lo stupore.
Nel capitolo 17, il capitolo conclusivo del manga, l’uomo restituisce la conchiglia che aveva trovato in giardino al suo habitat naturale, alle acque materne del mare. Questo gesto, che sembra senza significato, rivela ancora una volta il respiro Zen che pervade ogni frammento visivo dell’opera. Infatti, un famoso detto di questa poderosa tradizione, un detto di Shih shuang, dice: «Lo Zen è un sasso sospeso nel vuoto». Taniguchi, facendolo implicitamente suo, lo ribadisce, dicendoci che lo Zen, la meditazione del reale è una conchiglia sospesa nel vuoto dell’acqua.
Il gesto di lasciarla cadere nel mare ricalca il gesto filosofico fondamentale che contraddistingue il cammino religioso di Dōgen: Shinjin datsuraku. Lasciar-cadere il corpo-mente di sé e degli altri. Lasciar-cadere le cose, lasciarle andare senza tentare vanamente di possederle. Abbandonarle non alla loro solitudine, ma alla loro libertà. Lasciar-essere che siano ciò che sono. Illuminazione (satori), come suggerisce il versetto 279 del Dhammapada, è vedere tutti i dharma, i fenomeni, privi di sé, d’identità di natura (svabhāva), vederli alla luce oscura della vacuità.
L’esercizio di Taniguchi, dell’homo viator (Marcel), che cammina, mosso dalla meraviglia per il mistero di essere, è una sorta di epochè fenomenologica. L’epochè, infatti, consiste nel mettere tra parentesi tutti i significati con i quali abitualmente codifichiamo e interpretiamo la nostra esperienza del mondo. Taniguchi, come i grandi pittori del mistero dell’essere (Hopper, Morandi, De Chirico, Rothko), osserva sospendendo qualsiasi giudizio sulle cose affinché a parlare, a rivelarsi nella loro ineffabilità, siano le cose stesse. L’uomo che cammina, dunque, è Taniguchi stesso. Egli invera l’intuizione acutissima di Dōgen sulla coincidenza di via e illuminazione, di cammino e risveglio. Una coincidenza scolpita nell’ideogramma stesso. Dō 道, infatti, vuol dire sia 'via' che 'illuminazione'. Se poniamo attenzione ai caratteri che lo compongono, ci accorgiamo che il primo indica un piede, il secondo, invece, la testa di un uomo. La combinazione dei due caratteri suggerisce non solo che l’illuminazione s’incarna sempre in un’esistenza singolare, in un’esistenza in cammino, ma, come Dōgen insegna con la sua opera e Taniguchi con la sua arte, che il cammino stesso, ogni zolla del nostro sentiero, riflette la luce infinita dell’illuminazione. Sovvengono a riguardo i versi immortali di Machado. Sulla scorta della poesia del poeta spagnolo credo sia possibile penetrare più facilmente nel mondo di Taniguchi. Infatti, in una sua lirica celebre, rivolgendosi a tutti quelli che, come i poeti, si accingono a percorrere il sentiero della verità, scrive: «Caminante, no hay camino:/ se hace camino al andar». Non c’è, come per il viandante di Taniguchi, un sentiero prestabilito, un destino fissato una volta per tutte: il cammino non è una strada già battuta, già tratteggiata dalla matita del fato, che conduce inesorabilmente verso il cielo della salvezza, ma è ogni passo, da quello energico e risoluto a quello a fiacco e claudicante. E in ogni passo è contenuto tutto il cielo che agogniamo. Ogni passo, riparato dalla luce della vacuità, unisce la terra del nostro sentiero alla volta celeste.
21 Ottobre 2024
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