Brevi spunti di riflessione offerti dall’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola

 

La dignità umana è libertà, possibilità, capacità di scelta senza alcun vincolo, la quale consente all’uomo di poter assumere all’interno della scala degli esseri qualsiasi posizione esso desideri. La dignità più autentica, che il filosofo pone alla base della concordia universale, si rende concreta attraverso lo studio, il ragionamento e il dibattito sull’uomo così come sul mondo fisico nel quale è immerso: essa rappresenta la strada verso la gloria celeste. Ancor molto prima dell’esistenzialismo, Giovanni Pico della Mirandola si interroga a proposito dell’essere umano e delle sue reali potenzialità, offrendo spunti di riflessione sull’epoca presente e contribuendo a dare grande rilievo all’effettivo significato del “fare filosofia”.

 

di Filadelfio Favazza

 

 

Riflettere con un’adeguata coscienza critica sulla quasi totalità degli accadimenti del presente impone a noi tutti uno sguardo necessario sul passato, in maniera tale da penetrare i fatti con maggiore profondità e di riuscire a inserirli accuratamente in un orizzonte di senso più ampio di quanto si possa fare accostandosi all’attualità con spirito di passività. È risaputo che temi ricorrenti quali la pace, la guerra, la giustizia, l’uguaglianza e i problemi che ne conseguono, hanno tutti come radice comune proprio l’essere umano. Comprendere appieno questi fenomeni implica dunque una comprensione sempre più accurata dell’uomo, del suo modo di pensare, di agire, di plasmare il reale che incessantemente ne definiscono in forma indiretta la sua essenza.

 

Per questo motivo è bene non smettere mai di ragionare su noi stessi, cercando un poco alla volta di fornire un significato concreto all’apparente caos che tutto circonda e permea. E senza andare troppo lontano nella storia, volendo tralasciare il secolo scorso che grazie all’esistenzialismo tanto ha dato in favore della meditazione soggettiva, è possibile individuare proprio nel cuore dell’età rinascimentale un piccolo ma prezioso contributo: l’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola. Scritta nel 1486 come discorso di apertura per le sue 900 Conclusiones da un giovane uomo poco più che ventenne, quest’orazione è tutt’ora considerata dai più illustri studiosi del settore come il manifesto più significativo dell’umanesimo rinascimentale. Apparsa con questo titolo nell’edizione di Strasburgo del 1504, l’opera non solo contiene in forma sommaria i capisaldi del pensiero pichiano ma rappresenta una delle maggiori riflessioni filosofiche sull’essere umano.

 

L’uomo è fra tutti gli esseri del creato colui di fronte al quale è impossibile non provare meraviglia: è una creatura nata con l’intrinseca possibilità di diventare ciò che veramente vuol essere. E fu proprio Dio, indicato dall’autore come «ottimo artefice», a plasmare l’essere umano con la capacità di assumere aspetti e acquisire posizioni differenti a seconda della sua volontà individuale;  a tal punto da essere per tali ragioni paragonato al camaleonte, la celebre lucertola in grado di mutare colore della pelle in base all’umore. L’accostamento a questo animale non è certo casuale, in quanto fin dai tempi più remoti, per via delle sue instabili caratteristiche fisiologiche, esso veniva utilizzato come metafora degli sbalzi d’umore tipicamente umani. È indubbio però che entro i confini dell’ottica pichiana, il paragone assunse dei connotati nuovi e più specifici, poiché l’animale divenne il simbolo delle potenzialità derivanti dal libero arbitrio umano. Difatti, facendo riferimento ai testi della tradizione ebraico-cristiana, il filosofo spiega che è con gli appellativi di «ogni carne» oppure «ogni creatura» con cui il più delle volte veniva indicato l’essere umano; lo stesso Giovanni Pico segnala come sia «lui stesso a cambiare forma, ad adattare e modificare il proprio aspetto secondo quello di qualunque essere fatto di carne e il proprio carattere in base a quello di qualsiasi creatura» (Oratio de hominis dignitate).

 

Vivendo quindi all’interno dell’orizzonte della volontà, risiede precisamente nell’essere umano la possibilità di scegliere se innalzarsi al pari delle creature celesti o abbassarsi alla stregua delle più infime creature striscianti al suolo: l’uomo è posto precisamente al centro, nel bel mezzo del cielo e della terra. L’aver sostenuto con così tale forza la vantaggiosa posizione umana, derivante da capacità intellettive e deduttive non comuni a nessun altro essere, ha fatto sì che lo scritto venisse annoverato tra i più vividi esempi di antropocentrismo rinascimentale, un concetto chiave che sottolinea la superiorità dell’essere umano in tutto l’universo conosciuto. 

 

P. Delaroche, "L'infanzia di Pico della Mirandola", 1842
P. Delaroche, "L'infanzia di Pico della Mirandola", 1842

 

Ma se si fa riferimento alla stragrande moltitudine di filoni di pensiero che appartengono all’età umanistico-rinascimentale, questa concezione, che tra l’altro contribuì a consolidare il ruolo di assoluta centralità del pianeta Terra in tutto il cosmo, si trova a essere in stridente contrasto con il sistema filosofico bruniano. In effetti Giordano Bruno, pur condividendo movenze speculative simili a quelle pichiane, riteneva che ogni essere vivente possedesse pari dignità poiché composto della medesima sostanza, al contrario di Giovanni Pico, il quale era fermamente convinto che la dignità umana poggiasse proprio sul presupposto che l’uomo fosse l’unica creatura in grado di ambire al raggiungimento della gloria celeste. Addentrandosi nelle profondità del pensiero pichiano, è possibile vedere come la via verso quest’ultima fosse percorribile solo attraverso la pratica e, in seguito, la padronanza della filosofia, o più nel dettaglio della «filosofia tripartita». 

 

Prima di ogni altra cosa era necessario dedicarsi alla filosofia morale, emendando il corpo dai piaceri superflui e da qualsivoglia elemento perturbante, per poi prepararsi alla pratica della filosofia naturale, la quale lungi dall’essere una passiva contemplazione del mondo fisico, consisteva invece in una vera e propria indagine della natura in profondità. Di conseguenza, se era la riflessione morale a determinare un’approfondita indagine naturale, proprio quest’ultima contribuiva a spianare la strada all’esercizio della teologia, indicata quale più alta forma di ragionamento umano. Ciascuna di queste fasi, chiarisce inoltre il filosofo, veniva accompagnata da un motto. Ad esempio: il detto mēden agan, «nulla di troppo», stabiliva le norme più adeguate in funzione del raggiungimento della virtù; il celebre  gnōthi seautón, «conosci te stesso», raccomandava la conoscenza della natura proprio a partire dalla riflessione sulla soggettività umana; infine, il saluto teologico EI, traducibile come «tu sei», indicava la piena consapevolezza del tutto, nonché la tappa conclusiva del processo di ricerca.

 

Alla luce di riflessioni di tal genere, non c’è da stupirsi se nel corso del tempo furono fatti non pochi accostamenti fra le posizioni pichiane e la corrente esistenzialista, anche da parte di illustri studiosi dell’epoca umanistico-rinascimentale del calibro di Eugenio Garin, il quale, in un saggio dal titolo Quale ‘Umanesimo?’, richiamava esplicitamente le tesi sartriane  contenute ne L’esistenzialismo non è un umanismo, attuando proprio attraverso la figura di Giovanni Pico una connessione tra l’umanesimo rinascimentale e l’esistenzialismo ateo. E sempre Garin, commentando l’orazione, segnala: «Dio creando l’uomo non ha creato un esistente, ma una libera possibilità di essere: un punto di libertà assoluta capace di farsi meno che un vivente, meno che una cosa, ma anche di diventare uno con Dio» (Mezzo secolo dopo).

 

Ciononostante, andando oltre qualsiasi spunto di carattere filosofico-religioso e letterario – che se si tiene conto del contenuto dell’Oratio non sono per niente pochi – è bene porre l’attenzione su un punto in particolare, cioè sulla difesa pichiana della libertas philosophandi. Nello specifico, verso la fine dello scritto il pensatore ci tiene a sottolineare che non avrebbe mai osato esporre le sue idee se non fosse stato per coloro che per abitudine non facevano altro che condannare con reiterazione lo studio della filosofia. Quest’ultima era, secondo i suoi accusatori, un’attività da denigrare e offendere che dovrebbe, per non recare danno all’intero consorzio sociale, occupare la mente di un gruppo ristretto di uomini, «come se disporre di un’indagine approfondita delle cause del reale, delle vie della natura, dell’ordine dell’universo, dei decreti di Dio, dei misteri dei cieli e della terra, non avesse alcun valore in sé, a meno che non se ne possa trarre qualche vantaggio o ricavarne profitto» (Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate).

 

Questo passo è di una attualità disarmante,  in special modo se si tiene conto del seguito. Tanto è vero che il filosofo, rivolgendosi proprio agli intellettuali della sua epoca, denuncia ch’essi

 

 « ritengono e vanno predicando che non ci si deve dedicare alla filosofia, perché ai filosofi non spetta alcun compenso e per loro non è stata fissata alcuna remunerazione. Come se non dimostrassero da soli, adducendo questo unico pretesto, di non essere affatto filosofi! Infatti, se il senso della loro esistenza consiste nel reclamare denaro o nell’inseguire ambizione, in questo modo di certo non abbracciano la conoscenza della verità in sé e per sé. » (Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate)

 

Oggi come allora, la filosofia, quella autentica, pare venir confinata ai margini del dibattito culturale o al massimo strumentalizzata, usata come un’arma d’offesa dall’intellighenzia dominante al fine di far prevalere le proprie visioni su tutte le altre. È certo che l’intera colpa di siffatta situazione non può ricadere solamente sui governanti così come sui “filosofi” al loro servizio e che l’abbandono della filosofia come mera “eristica” e il suo puro rifiorire come “amore per la sapienza” è destinato a tutti coloro che hanno veramente sperimentato e inteso la reale portata dell’esercizio del pensiero critico. Proprio la filosofia, incalza infine Giovanni Pico, «mi ha insegnato a fidarmi dei giudizi della mia coscienza, piuttosto che a dipendere da quelli degli altri, e a preoccuparmi sempre di non dire o fare qualcosa di sbagliato in prima persona, più che di godere o meno di una cattiva reputazione» (Ivi.). 

 

In sostanza, la dignità umana non può consistere soltanto nell’innalzarsi per via di un’intelligenza superiore al di sopra di tutti gli esseri ma anche impiegare questa intelligenza per il progresso comune, alimentando tra gli uomini forme di dialogo e dibattito sempre più costruttive. Questa è la domanda posta dal nostro secolo, un quesito cruciale a cui tutti, giovani e meno giovani, hanno l’obbligo morale di rispondere.

 

21 giugno 2025

 









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