Popper, nel 1994, mise in guardia contro la “cattiva maestra” TV. Ma se potesse vedere i nostri smartphone, cosa direbbe? Cerchiamo di capire come il pensiero filosofico possa essere una guida nel presente, analizzando il potere dei media e il loro impatto sull’educazione delle nuove generazioni.
Lo studio della filosofia può apparire arduo, un labirinto di concetti astratti distanti dalla realtà. Eppure, la lettura di un classico può spalancare orizzonti inaspettati, rivelando la sua sorprendente capacità di illuminare il presente. Proviamo allora un esperimento filosofico: esplorare il breve e incisivo saggio di Karl Popper dal titolo Television: A Bad Teacher (K. Popper, Cattiva maestra televisione, a cura di G. Bossetti) del 1994. Nell’ultima stagione della sua vita, il filosofo viennese non poteva fare a meno di interrogare il proprio tempo e di cogliere le sfide culturali che le nuove generazioni si trovavano ad affrontare. In particolare, l’aumento della violenza tra i più giovani e l’ondata di crimini minorili attirò la sua attenzione. Sebbene le forze gli venissero meno, Popper trovò l’energia per registrare la propria voce, dando vita a un saggio di grande attualità.
Vediamo come le riflessioni di un filosofo del secolo scorso ci offrano una lente preziosa per analizzare criticamente il mondo che ci circonda.
L’affermazione della televisione
Questo scritto provocatorio di Popper, lucido filosofo della scienza, esprime una profonda inquietudine di fronte al potere pervasivo della televisione come medium di massa, definendola «un’educatrice onnipresente quanto irresponsabile» (Ivi). Già negli anni '90, l’era del tubo catodico dominava i salotti, innescando un acceso dibattito sui contenuti trasmessi: la violenza in televisione, l’ascesa dei reality show, l’implacabile martellamento pubblicitario. In questo clima di crescente inquietudine, si discuteva animatamente del ruolo e delle responsabilità dei media, in particolare della loro influenza sull’educazione, sui comportamenti e sulla visione del mondo delle nuove generazioni.
« Se riflettiamo sulla storia della televisione, vediamo che, nei suoi primi anni, essa era abbastanza buona. Non c’erano le cattive cose che sono arrivate dopo, offriva buoni film e altre cose discrete » (Ivi).
Buone premesse, cattivo uso
La diffusione delle stazioni emittenti ha determinato una forte competizione, al punto che accaparrarsi i telespettatori è diventato di gran lunga più importante rispetto alla realizzazione di buoni contenuti. A tal proposito Popper non manca di sottolineare in modo schietto che le emittenti televisive:
« Non fanno certamente a gara per produrre programmi di solida qualità morale, per produrre trasmissioni che insegnino ai bambini qualche genere di etica » (Ivi).
Trasformatasi in una “maestra” potente ma priva di bussola etica ed educativa, la televisione è diventata insidiosa: non fornisce buoni esempi, ma solo trasmissioni capaci di fare audience. Cosa attrae uno spettatore? Secondo Popper sono le «spezie e i sapori forti» a rendere un prodotto televisivo appetibile, ossia violenza, sesso e sensazionalismo. «Il fatto è che più si impiega questo genere di spezie più si educa la gente a richiederne» (Ivi).
Uno dei nodi cruciali è la costante esposizione alla violenza, un flusso ininterrotto che rischia di anestetizzare la sensibilità degli spettatori, in particolare dei più piccoli, normalizzando l’inaccettabile. La violenza, sottolinea il pensatore viennese, va contro «il nucleo fondamentale dello Stato di diritto», cioè «l’educazione alla nonviolenza».
Il filosofo continua:
« I cittadini di una società civilizzata, le persone cioè che si comportano civilmente, non sono il risultato del caso, ma sono il risultato di un processo educativo. E in che cosa consiste fondamentalmente un modo civilizzato di comportarsi? Consiste nel ridurre la violenza » (Ivi).
La logica dell’audience e del profitto spinge, al contrario, il palinsesto verso contenuti superficiali, spettacolarizzati o diseducativi, sacrificando la crescita individuale. La battaglia ingaggiata da Popper non è contro la televisione, ma sul modo di farla. Afferma infatti:
« Io sarei piuttosto dell’opinione che la televisione, potenzialmente certo, così come è una tremenda forza per il male potrebbe essere una tremenda forza per il bene » (Ivi).
Di fronte a questa deriva, Popper avanza una proposta pragmatica: l’istituzione di una “patente per giornalisti”, un sigillo di responsabilità analogo a quello che vincola medici e avvocati, per assicurare che chi maneggia il potente strumento televisivo agisca con coscienza e nel rispetto di rigorosi principi etici. La sua è una visione chiara: chi detiene il potere di plasmare le menti deve rendere conto delle proprie azioni.
« Chiunque sia collegato alla produzione televisiva deve avere una patente, una licenza, un brevetto, che gli possa essere ritirato a vita qualora agisca in contrasto con certi principi » (Ivi).
Se la tv è stata la prima babysitter di molte generazioni, poi sono arrivati i computer, gli home pc, i videogiochi, le varie consolle e infine i device digitali. Ogni epoca in pratica ha avuto la sua buona dose di tecnologia. Apparecchiature che invadono ogni ambito della società̀, in qualunque momento, in qualsiasi posto, senza più confini tra vita online e offline. Se i contenuti possono essere discutibili, sempre più studi dimostrano che l’uso eccessivo potrebbe compromettere le relazioni familiari, alterare lo sviluppo cerebrale e aumentare il rischio di dipendenze future, con effetti duraturi sulle competenze socio-emotive (ad esempio cfr. M. Spitzer, Emergenza smartphone). Tablet e smartphone sono diventati ormai giocattoli diffusi tra i più̀ piccoli, strumenti per tenerli buoni o distrarli.
Agli adulti che incentivano questa cattiva prassi, Popper direbbe:
« Dal momento che mettiamo tanta cura nello scegliere scuola e asilo per i nostri bambini, dedichiamo allora qualche momento di attenzione a questo elettrodomestico così speciale da influenzare in tanti modi, per fortuna talvolta casualmente anche benigni, la crescita dei piccoli, come e più della scuola e dell'asilo » (Ivi).
La pungente critica popperiana può diventare un’occasione di dialogo vivo con il passato per decifrare le sfide del presente. Le riflessioni del filosofo si possono infatti trasformare in una chiave di lettura per il nostro tempo, un’epoca dominata da schermi portatori di valori e usi insani. Non dimentichiamo poi i social: Instagram, Threads, TikTok, megafoni di una società che propaga spesso modelli negativi, effimeri ed eccentrici. Siamo circondati da guru in cerca di like e sponsor, sovente orfani di cultura ed etica. Se già la televisione rappresentava per Popper una potenziale minaccia per la democrazia, cosa penserebbe del nostro tentacolare universo digitale? La situazione odierna è ben più grave rispetto a quella dell’epoca di Popper. Eppure, penso che nella sostanza le idee sviluppate dal nostro filosofo non abbiano per nulla perso la loro attualità. In particolare il richiamo a un’etica della comunicazione mi sembra essenziale. Non so quanto potrebbe essere utile la “patente etica” per chi lavora nei media. Certo è che gli atteggiamenti di influencer, di tiktoker e di molti di quelli che ormai imperversano sui social andrebbero normati con un codice etico condiviso. Non si tratta di impedire la libertà di espressione, ma di interrogare seriamente l’ethos della rete. In questa operazione i filosofi possono e devono giocare un ruolo essenziale. Come ha fatto Popper, è importante scendere in campo e lavorare in sinergia con i legislatori per rendere il web un luogo più sano.
5 giugno 2025
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