Che cosa resta dell’uomo quando gli si toglie la terra, la lingua, la storia, la casa? Che cosa rimane se non una nudità assoluta, un urlo disarmato che si perde nel deserto dei telegiornali, tra gli spot pubblicitari e i deliri dei talk show?
La Palestina – oggi – è il volto sfigurato della modernità. È l’infanzia che brucia sotto i droni, è il lutto che non ha più tempo di compiersi, è la polvere delle case sventrate che si mescola con quella memoria millenaria che l’Occidente pretende di non vedere, perché troppo impegnato a specchiarsi nella propria menzogna.
Io non voglio scrivere un articolo politico. Non mi interessa la diplomazia, né l’analisi geopolitica, né il conteggio macabro dei morti. Voglio parlare di ciò che non ha più voce, che viene ridotto a «danno collaterale», a cifra, a numero. Voglio parlare del bambino palestinese, del suo sguardo spalancato, senza più innocenza, che assiste alla distruzione come se fosse un’eclissi abituale.
L’ideologia che uccide oggi in Palestina non è nuova: è la stessa che ha incendiato i campi di sterminio, che ha bombardato Hanoi, che ha colonizzato l’Africa, che ha umiliato il Sud del mondo, e anche il nostro Sud – quello contadino, analfabeta, poetico – svuotato, svilito, televisivamente imbellettato.
In Palestina oggi non si combatte una guerra, si perpetua un massacro. Non c’è simmetria, non c’è dialogo, non c’è pace possibile tra chi ha il potere delle armi e chi ha solo la propria carne da offrire alla martirizzazione. Eppure, l’Occidente – con la sua stampa igienizzata e il suo moralismo selettivo – continua a parlare di “diritto alla difesa”, quando la difesa è diventata sterminio e la giustificazione una forma sublime di ipocrisia.
Mi rivolgo, allora, a chi ha ancora occhi per vedere: guardate Gaza. Non come un teatro di guerra, ma come un Cristo crocifisso ogni giorno. Un Cristo laico, collettivo, che grida nel deserto dell’informazione, tra il silenzio delle università, il cinismo dei governi, la viltà degli intellettuali.
E noi, noi italiani, noi europei, che abbiamo conosciuto la Resistenza, che abbiamo pianto per Marzabotto, che abbiamo costruito la nostra identità democratica sulla memoria dell’oppressione… noi dovremmo essere i primi a riconoscere chi è l’oppresso e chi l’oppressore. Ma siamo diventati complici, con la nostra indifferenza, con la nostra paura di dire ciò che è scomodo.
Non si può stare zitti.
Non ora. Non davanti a un popolo che viene schiacciato con metodo, mentre il mondo guarda altrove o finge di non capire.
Chi ha occhi deve usarli per vedere. Chi ha voce, per dire ciò che è inaccettabile. Chi ha mani, per scrivere ciò che non si vuole leggere.
Non esistono più scuse. Non c’è neutralità possibile. L’indifferenza è già complicità.
Chi tace, acconsente. Chi finge equilibrio, parteggia per il più forte.
In un tempo che scorre tra lo spettacolo e l’oblio, c’è ancora chi sente il dovere di sporcarsi con la verità.
Una verità che non è elegante, che non si insegna nelle università, che non piace nei salotti: quella che grida sotto le macerie, che dorme nei campi profughi, che muore senza telecamere.
Non per denunciare. Ma per restare umani.
E oggi, essere umani significa questo:
stare dove il mondo si vergogna di guardare.
Stare lì, tra chi non ha più casa, né sogni, né speranza.
Stare lì, senza chiedere nulla, se non che la verità venga detta. Finalmente.
A qualunque costo.
La Palestina non è un caso geopolitico: è il nostro specchio. È lì che vediamo ciò che siamo diventati. E ciò che, forse, non smetteremo mai di essere.
28 giugno 2025
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