Jaspers e Scheler. Il sapere della sofferenza

 

In Psicologia delle visioni del mondo, Jaspers, riprendendo le analisi di Max Scheler contenute in un fondamentale saggio del 1916, Il senso della sofferenza, individua quattro atteggiamenti fondamentali che l’uomo assume dinanzi alla sofferenza che investe la totalità dell’esistenza umana: rassegnazione, fuga, eroismo e atteggiamento metafisico-religioso.

 

di Marco Palladino

 

 

La rassegnazione paralizza qualsiasi tentativo volto alla comprensione del significato della sofferenza. Anche sul piano pratico è giudicata vana qualsiasi azione che tenti di contrastarne l’erompere. Ma la rassegnazione può verificarsi anche solo sul piano strettamente conoscitivo. In questo caso l’uomo si rassegna dinanzi all’inspiegabilità della sofferenza, ma agisce cercando, nei limiti delle sue possibilità, di sottrarre alla sofferenza il suo aculeo velenoso. Oppure, la rassegnazione sul piano teorico e pratico conduce il soggetto a rifugiarsi nei piaceri della vita. Se l'esistenza è segnata da una sofferenza irredimibile, sé tutto è transeunte e vano, l’uomo deve tentare di cogliere quegli attimi, seppur fugaci, che alleggeriscono il carico della vita. In siffatta prospettiva esistenziale si riconosce illusoria qualsiasi visione del mondo che miri a un telos, a uno scopo ultimo: si vive per l’istante, per quei pochi momenti nei quali la vita ci appare dolce.

 

L’altro atteggiamento esistenziale che si produce al cospetto della sofferenza è la fuga dal mondo. Colui che fugge dal mondo considera l’essere come ciò che non è degno di emergere dal fondo oscuro del nulla. Poiché il mondo stesso è sofferenza, è bene cercare di raggiungere uno stato interiore di aristocratica indifferenza nei confronti delle vicissitudini della sofferenza e della gioia, che della sofferenza non è altro che un illusorio e fugace risvolto. Questo sentire, in certi casi, può condurre il soggetto anche a prospettare l’ipotesi del suicidio. In questo caso, osserva Jaspers, forse sulla scorta delle preziose osservazioni di Schopenhauer, l’individuo giunge all’idea togliersi la vita perché obnubilato dal senso dell’ego. Insomma, per usare la terminologia schopenhaueriana, negando se stesso il soggetto pone fine soltanto al fenomeno, non all’essenza di esso costituito dalla volontà di vivere. Questo sentire negativo può assumere la forma di una visione del mondo. Tale visione, identificando mondo e sofferenza, assolutizzando un polo dell’antinomia, il negativo, propone come via di liberazione la negazione di se stessi e del mondo: il non-essere è meglio dell’essere.

Tale visione del mondo, a mio avviso, trova la sua più compiuta formulazione nella dottrina filosofica di uno degli allievi di Schopenhauer più geniali: Philipp Mainländer. Il filosofo, morto suicida alla sola età di trentaquattro anni, nella sua unica grande opera, intitolata icasticamente Filosofia della redenzione, capovolge l’assunto dell’autore de Il Mondo come volontà e rappresentazione – non a caso amava definirsi il Paolo di Schopenhauer – individuando la cosa in sé non nella volontà di vivere, ma nella volontà di morte. Tale volontà discenderebbe dal suicidio di Dio all’origine del mondo. La pluralità del mondo infatti sarebbe il risultato della morte dell’unità trascendente del principio divino. Come si esprime Mainländer: «Dio è morto e la sua morte fu la vita del mondo». La volontà di passare dall’essere al nulla è l’essenza che vincola il divino all’umano. La redenzione consiste nell’imitatio Dei: l’imitazione dell’auto-annullamento divino attraverso il suicidio. Il suicidio, in questo caso, si avvale di una legittimazione metafisica.

 

Max Scheler, nel saggio citato, analizza alcune dottrine di liberazione dal dolore che esprimono sul piano filosofico e pratico i quattro atteggiamenti fondamentali di fronte alla sofferenza e che ci aiutano a comprendere meglio il rapporto fra sofferenza e redenzione. Innanzitutto, il filosofo si concentra sulla dottrina buddhista, analizzando alcuni discorsi famosi di Buddha contenuti nel canone Pali. Secondo il filosofo la dottrina del Buddha è una via di liberazione dal dolore che indica l’oggettivazione del soffrire e, differentemente dal nichilismo occidentale esemplificato dalla posizione estrema di Mainländer, la libera rassegnazione ad esso. Come è noto, la dottrina buddhista si prefigge di liberare l’individuo dalla punizione della rinascita continua in un mondo segnato dall’onnipresente realtà del soffrire. Buddha è totalmente disinteressato alle cosiddette questioni metafisiche: se il mondo sia finito o infinito, se dopo la morte qualcosa di noi permanga, se Dio, quale principio ultimo del reale, esista o meno. Si potrebbe dire, in questo senso, che il Buddha si avvalga husserlianamente dell'epochè, o che possa essere definito – come lo definisce Giangiorgio Pasqualotto – un kantiano ante litteram. Ciò che interessa principalmente al Buddha, infatti, è la liberazione dalla sofferenza. Questo motivo fondamentale che accompagna il buddhismo, nella varietà delle sue dottrine e scuole, lo differenzia sia dalle metafisiche religiose di matrice occidentale sia dal nichilismo europeo, in quanto la redenzione non consiste nella negazione dell’essere, ma nella liberazione dal negativo consustanziale all’essere.

 

Le quattro nobili verità che il buddhismo pone al centro della propria dottrina, le quali, secondo la tradizione, il Buddha avrebbe pronunciato a Varanasi nel suo primo sermone, sono le seguenti: 1) l’esistenza è segnata dalla presenza del dolore: nascere è dolore, invecchiare è dolore, morire è dolore. Assaporare la fugacità e la vanità di tutte le cose genera dolore. 2) Il dolore che intride di sé il mondo ha una causa 3) La causa del dolore è nella sete, nel bruciante desiderio di vivere e di rinascere, inseguendo ciò che è transeunte 4) La sete può essere espunta pervenendo alla via di mezzo costituita dall’ottuplice sentiero.

 

Secondo Scheler, il buddhismo oggettiva sofferenza e desiderio, facendo emergere come la realtà sia la produzione dell’intreccio fra la sete e la conseguente sofferenza. Per il buddhista l’obiettivo non è quella di garantire una salvezza oltre i confini della propria vita, ma quello di raggiungere una serenità d’animo, una pacata rassegnazione dinanzi alla pervicace realtà del soffrire. Dinanzi alla realtà della sofferenza si delineano due strade per Scheler: quella rappresentata dall’attivismo eroico occidentale e quella fornita dal saggio buddhista. Per la civiltà occidentale la battaglia contro la sofferenza è una battaglia condotta dall’esterno: la sofferenza è ridotta a oggetto del quale bisogna indagare le cause naturali e sociali ed estirparle risolutamente. Per il saggio buddhista la sofferenza va eliminata dall’interno, attraverso la sua accettazione, rinunciando a qualsiasi forma di resistenza. Anzi, per il buddhista la sofferenza è ingenerata proprio dalla sete di voler eliminare la sofferenza. Il buddhista sa che si può lottare contro i singoli mali, ma che la lotta esteriore contro il male in sé è assolutamente perdente. Il buddhista sa che la pratica di liberazione dalla sofferenza consiste nell’eliminazione della sofferenza della sofferenza. Per usare il linguaggio jaspersiano, la sofferenza della sofferenza è cercare di chiudere gli occhi al cospetto delle situazioni-limite, credendo – illusoriamente – di poterle evitare o superare con un atto della volontà. Come per il buddhismo, anche per la filosofia dell’esistenza di Jaspers, nonostante le dovute differenze, la liberazione dalla sofferenza giunge attraverso una penetrazione interiore della stessa.

 

Per il buddhista la liberazione giunge attraverso la visione della vacuità. Ogni fenomeno, anche quello della sofferenza, è intrinsecamente vuoto, non ha un’essenza. Non vi sono sostanze, ma solo relazioni: ogni ente è se stesso in rapporto agli altri ed è in se stesso relazione. La vacuità, nella dottrina buddhista può essere paragonata all’Umgreifende jaspersiano: come questo, la vacuità non è l’essente, ma ciò che permette all'essente di emergere nella sua in-sostanzialità. Parimenti, l’Umgreifende non è l’essente, ma lo sfondo originario che avvolge e trascende gli enti, consentendone l’emersione. Qualsiasi metafisica oggettiva – potremmo dire ontica, per usare il lessico heideggeriano – è cieca di fronte all’essere dell’ente, perché esso, come la vacuità buddhista, è il fatto d'essere dell’esserci degli enti e non si lascia oggettivare nella rete delle determinazioni categoriali. Sfuggendo alla presa del concetto. l’essere dell'Umgreifende coincide col Nulla. Ma, come visto nelle riflessioni del capitolo precedente, Il Nulla – o il vuoto buddhista – non sono un puro niente, ma il nulla o il vuoto relativo agli essenti. Per Jaspers allora, la liberazione dal negativo è liberazione nel negativo attraverso l’esperienza dell’Umgreifende nel naufragio.

 

Max Scheler (1874-1928)
Max Scheler (1874-1928)

Tornando alle considerazioni di Scheler, si comprende bene come per il buddhista la sofferenza, intrinsecamente vuota alla luce dell’esperienza della vacuità, consiste nella sete che rende autonomo il mondo. Il piacere non è dannoso in sé stesso, ma in quanto alimenta costantemente l’attaccamento e l’idea illusoria dell’indipendenza del mondo. Il desiderio non contemplato, ma vissuto in maniera irriflessiva, seduce e induce a credere alla consistenza degli oggetti del desiderio, allontanando il sapere della dipendenza del mondo dalla compenetrazione del soggetto. Il soggetto legato a se stesso non vede che il mondo è una produzione dell’attaccamento, scambiando così il mondo da lui generato con il mondo in sé. In questo caso l’attaccamento diviene involontario e automatico. Il saggio buddhista, invece, oppone all’azione inconscia dell’attaccamento quella del distacco essenziale dall’illusione dell’io, dalla volontà di perpetrare se stessi, di voler vivere o di voler non vivere.

 

L’eliminazione della sofferenza del pensiero buddhista, dunque, al contrario della fuga nichilistica dal mondo – analizzata prima nella figura di Mainländer, ma ascrivibile per Scheler anche a Schopenhauer e Hartmann –, non mira né all’affermazione del mondo né alla sua negazione, ma a «porre il nulla» laddove vige la sua illusoria auto-sufficienza. Il nulla del buddhismo non nega l’esistenza del mondo e delle cose, ma soltanto la loro resistenza e sostanzialità. L’esserci del mondo si rivela, allo sguardo della sapienza che è andata al di là, come impermanente e infondato. Fissando lo sguardo sull’infondatezza dell’essere, si scopre che lo stesso soggetto, il suo piacere e il suo dolore, sono altrettanto infondati. La liberazione si riduce dunque al raggiungimento di una «santa indifferenza», di un sereno abbandono al chiarore oscuro del vuoto.

Per il buddhista l’atteggiamento da assumere è quello che Jaspers indica all’inizio delle sue osservazioni sulle reazioni alla sofferenza. L'individuo sente dentro se stesso che il mondo in sé non è né buono né cattivo. La presenza della sofferenza, infatti, non induce il buddhista a esprimere un giudizio morale sul mondo. Ciò che il mondo è in se stesso dipende esclusivamente dalla nostra azione, dall’applicazione ad esso delle categorie con le quali ci orientiamo all’interno della scissione tra soggetto e oggetto. La vita spogliata dalla compenetrazione dei nostri pensieri e dei nostri desideri, dalle categorie morali e gnoseologiche, smette di penetrare la nostra carne e il nostro spirito.

 

Con l’eroismo, invece, l’uomo crede di poter far fronte alla sofferenza con indomito coraggio. Differentemente dall’atteggiamento buddhista, che mira alla soppressione dell’ego, l’eroe utilizza il dolore proprio per riaffermare se stesso e trovarvi il significato dell’esistenza. Il soggetto in questo caso sente maggiormente se stesso, pervenendo a forze sempre nuove, proprio quando la prova si fa più ardua e il dolore colpisce maggiormente. Questo atteggiamento esistenziale, secondo Scheler, può avere una certa efficacia quando si tratta di combattere i mali esteriori, ma è assolutamente inadeguato di fronte alla sofferenza che colpisce l'anima, contro la quale nulla può, per quanti sforzi faccia la volontà. L’eroismo che caratterizza il pensiero antico tradisce la volontà prometeica della civiltà occidentale di volere padroneggiare il dolore. Lo spirito dell’eroe è sospinto dall’orgoglio di salvaguardare la propria immagine, il proprio onore, davanti agli altri e a se stesso. Egli, differentemente dal nichilista e dal saggio buddhista, tenta attraverso la sua resistenza di sollevare la sofferenza dal suo carattere assurdo e scandaloso. Ma, pur affrontandola a viso aperto, non può esimersi dal tentativo di trovare un appiglio, e lo trova nell’illusoria impenetrabilità della sua volontà.

 

Prima di dedicarci all’analisi del quarto atteggiamento esistenziale – avvalendoci sempre dell’apporto delle riflessioni scheleriane sul tema –, soffermiamoci ancora sull’atteggiamento buddhista di fronte al dolore e sulla visione che Jaspers di esso fornisce nella sua prima grande opera, nella quale l’assimilazione della tradizione spirituale d’Oriente non è ancora maturata. Il confronto con l’Oriente, col suo tentativo filosofico di superamento della metafisica oggettiva, resterà una costante del pensiero jaspersiano e raggiungerà l’acme nelle ultime grandi opere degli anni Sessanta del Novecento.

In queste pagine dell’opera Psicologia delle visioni del mondo, Jaspers ritiene che l’elemento fondamentale della dottrina buddista consista nell’esperienza della transitorietà di tutti i fenomeni –quella che i buddisti chiamano impermanenza o co-produzione condizionata. L’esperienza della caducità dell’esistenza, della sua irrimediabile mancanza di un fondamento stabile, produce nell’occidentale la ricerca di un senso in una vita che si protenda oltre quella terrena. Dinanzi al volto scarno e truculento della morte, che rappresenta in tutta la sua terribile realtà la fugacità della vita, si cerca conforto nell’idea dell'immortalità. Il buddhista, invece, sorretto dalla credenza nella rinascita perpetua dell’esistenza, e dunque del perpetuo ripresentarsi della sofferenza dell’insensatezza legata alla transitorietà, crede che la liberazione non consista nel superamento della morte, ma nella deposizione della propria volontà di vivere, la quale cerca violentemente di perpetrare il proprio conatus.

 

Di fronte all’orrore della morte il buddista non indietreggia cercando consolazione in un supposto paradiso, in un mondo dietro il mondo in cui tutte le laceranti contraddizioni sono risolte. La morte, per il buddhista, possiede un valore rivelativo: gli permette di penetrare il cuore della realtà e di scoprirlo infondato. La visione dell’infondatezza dell’essere può generare sgomento, producendo la fuga del nichilista individualista, il quale si dona all’effimero della vita, alla caccia alle sensazioni; oppure può condurre al distacco, a quella serena indifferenza di fronte alle vicissitudini del mondo. Tale serena indifferenza sorge in colui che è morto a se stesso, recidendo la radice stessa della sofferenza e della paura della morte che è la sete di vivere. Nell’ottica buddhista, nota il Nostro, anche il suicidio, al pari del bisogno d’immortalità, rappresenta una potente affermazione della sete, della volontà di vivere che genera sofferenza. Ciò che il buddhismo nega non è il mondo, ma l’io che, col suo desiderio, ci tiene legati ad esso. La liberazione dagli attaccamenti – dalle cose, dagli affetti, ma soprattutto da se stessi – consentono all’individuo di superare e vincere la morte, perché, in qualche modo, egli è morto a se stesso prima ancora di morire. Per usare un’espressione cara alla mistica cristiana, si può dire che il cuore della dottrina della liberazione buddhista, per come viene recepita dal filosofo di Oldenburg in questa prima fase della sua produzione filosofica, sia la morte dell'anima, la via del nulla che affranca dall’ego. Si capisce allora quanto sia distante tale posizione da quella dell’eroe, il quale nella sofferenza e dinanzi alla morte, si rinserra in se stesso, assurgendo il proprio io all’unico valore che permane benché la caducità di tutte le cose. Questa tracotanza è l’espressione viva della cultura occidentale, la quale, dinanzi all’onnipresente realtà del soffrire e della morte, ha opposto dottrine metafisico-religiose che avrebbero dovuto sottrarre alla morte il suo carattere totalizzante e definitivo.

 

Karl Jaspers (1883-1969)
Karl Jaspers (1883-1969)

L’atteggiamento metafisico-religioso è un atteggiamento esistenziale, un’esperienza religiosa, vissuta intimamente, che si trasfonde, successivamente, sul piano logico-metafisico. L’esperienza centrale, qui, è un’esperienza mistica vissuta ai limiti delle forze teoretiche e pratiche. Nella sofferenza che investe il corpo e la mente la certezza esistenziale di Dio, della sua presenza, eleva il soggetto al di là delle sue miserie, sottraendo il dolore alla sua immediata assurdità.

Il dolore nella visione metafisica-religiosa tipica delle religioni abramitiche diviene, da segno dell’assoluta mancanza di senso in cui versa il reale, la testimonianza paradossale della presenza di Dio. L’individuo che vive sorretto dalla fede nel Dio personale, pur vivendo la sofferenza come un fatto supremo e inevitabile, trasforma la sofferenza in una prova. La sofferenza, come mostra emblematicamente il caso di Giobbe, colpisce il giusto perché è l’unico in grado di farsene carico. Con il libro di Giobbe – come vedremo in seguito, nella lettura che Jaspers fornisce – all’interno della tradizione ebraica si supera la visione della sofferenza come punizione per i peccati commessi – un’idea che avvicina sommariamente le religioni monoteistiche alla tradizione indiana, dove il supplizio della rinascita è riservato a coloro che nelle vite precedenti hanno commesso azioni peccaminose – giungendo all’idea della sofferenza come prova della fede, come ulteriore testimonianza dell’innocenza del soggetto che ne è investito, all’idea della sofferenza come espiazione del proprio male e del male altrui. In questo senso la sofferenza viene dipinta come ineluttabile, ma decade a strumento, perché funzionale al rinsaldamento del rapporto fra l’uomo e Dio.

 

Nella rappresentazione metafisico-religiosa della sofferenza subentra, inoltre, un’idea che nella teologia contemporanea ha avuto tanta fortuna: l'idea di derivazione cristiana secondo la quale anche Dio partecipa ed è vittima della sofferenza del mondo.  Tale idea non è estranea né all’ebraismo – si pensi alla teoria del mistico Luria, per il quale l’atto originario di Dio è un atto di autolimitazione, nel quale l’Assoluto stesso è esiliato e attende redenzione – né all'ambito strettamente filosofico, come mostrano le riflessioni del filosofo ebraico, allievo di Heidegger, Hans Jonas e quelle del già menzionato Luigi Pareyson.

In un famoso discorso tenuto a Tubinga nel 1962, confluito poi in un famoso e fortunato libretto recante il titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Hans Jonas ripropone con grande efficacia argomentativa l’idea, già formulata in realtà da Max Scheler, dell’impotenza di Dio. Tale concetto sorge dal confronto, patito in prima persona, con il male dilagante dell’Olocausto. La domanda che percorre l’agile teso è la riformulazione, in chiave moderna, della domanda centrale della teodicea: se Dio esiste, perché ha permesso l’abisso del male di Auschwitz? Gli attributi tradizionali di Dio – l’onnipotenza, la bontà e la comprensibilità – dopo la tragedia che ha caratterizzato il secolo scorso possono ancora riferirsi, conciliandosi fra loro, alla realtà assoluta che si suole chiamare Dio?

Se Dio è onnipotente e assolutamente buono, osserva Jonas, non si comprende perché non abbia impedito l’erompere del male ad Auschwitz: un Dio che è assolutamente buono ed è in potere di eliminare il male, ma non lo fa, è un Dio assolutamente incomprensibile per la ragione umana. Un Dio che può e vuole eliminare il male che affligge il mondo senza farlo è, come notava Pierre Bayle nella polemica con Leibniz, un Dio perverso: ossia, non è Dio. Viceversa, se Dio è buono e comprensibile, allora non è onnipotente: è un Dio impotente. Nel cuore del divino vi sarebbe allora un pathos originario. La potenza di Dio si manifesterebbe, come credeva Luria, nella sottrazione di sé, nell’atto kenotico di ritrazione, di distacco, che permette l’emersione, la nascita del mondo e della libertà umana. Dio, dopo Auschwitz, non può più essere visto come il Dio immutabile della tradizione, ma come un Dio in divenire, coinvolto nel farsi stesso del mondo e della storia umana.

L’unica risposta, secondo Pareyson, che è possibile dare alle accuse mosse a Dio dall’uomo contemporaneo, è che Dio stesso soffre. La tragedia immane della sofferenza coinvolge anche l’Assoluto, il quale si assolve dalla sua assolutezza incarnandosi nella storia e prendendo su di sé, da innocente, le sofferenze e i peccati dell'uomo fino a morirne: Divinum est pati. Il dolore diviene il luogo in cui lo iato infinito tra l’esistenza e la Trascendenza è colmato, in cui l’Assoluto solidarizza con l’uomo. Queste idee, rapidamente analizzate, esemplificano al meglio l’intreccio indissolubile, messo in luce da Jaspers, fra il sentimento interiore, la certezza esistenziale della presenza di Dio nel dolore, e la sua elaborazione logico-metafisica. La teodicea, anche la più raffinata dal punto di vista concettuale, è la giustificazione ex post di un’esperienza vissuta, di una fede originaria. La teodicea, in questa prima fase del pensiero jaspersiano, viene concepita come un involucro che rassicura e dona senso, conducendo entro vie sicure la forza destabilizzatrice delle situazioni-limite. Come il trascendere formale può fungere da sostegno alla certezza esistenziale della trascendenza, ma non la fonda, così la teodicea non fonda originariamente l’esperienza della compresenza dell’Assoluto e del male, la quale riposa sempre su uno sfondo esistenziale, il quale non trova conferma, ma sostegno nell’edificio razionale eretto dalla teodicea.

 

I sistemi teorici presi in esame da Jaspers sono il biologismo, lo zoroastrismo, l’idea indiana del karma e quella della predestinazione. Il biologismo rappresenta una teodicea a-religiosa che non mira a giustificare la bontà di Dio, ma la bontà della natura. La sofferenza viene vista come un elemento necessario all’interno dell’armonia naturale del cosmo. In un’ottica evoluzionistica la sofferenza dell’individuo diviene funzionale alla salvaguardia della specie, la quale rappresenta il Tutto cui la parte, l’individuo, deve sacrificarsi. Questa concezione della vita che pone al centro, come il valore più alto, la lotta per l’esistenza, si riflette anche sul piano sociale, dove la sofferenza dell’individuo – o di una classe di individui – diventa essenziale per il benessere sociale. La teodicea naturale si tramuta così in una teodicea sociale nella quale è operante lo stesso principio: la parte è degna di essere sacrificata per il Tutto, un tutto, in questo caso, rappresentato dalla società nel suo complesso. In particolar modo, nella moderna società tardo-capitalistica, guidata dal principio della competitività, l’individuo è sacrificato in nome dell’efficienza del sistema produttivo. Ancor di più, il singolo è ritenuto responsabile della condizione alienante in cui si trova perché incapace di assecondare il principio della competitività.

 

Lo zoroastrismo, invece, è una visione metafisico-religiosa che tenta di giustificare la compresenza di Dio e del male ipotizzando l’originarietà dell’elemento negativo. Il male, in questo modo, non è né direttamente né indirettamente il frutto dell’atto creativo divino, ma una forza autonoma, originaria, che si contrappone alla forza contrapposta del bene, a Dio. L’uomo, in questa rappresentazione metafisico-religiosa, diviene il luogo privilegiato nel quale gli opposti si fronteggiano. Egli è chiamato ad assecondare e a incarnare nella propria vita il principio positivo, scartando quello negativo, combattendo con tutte le proprie forze la sofferenza, al quale non è attribuibile né al Principio, dal momento che il male si erige accanto ad esso come co-originario, né alla creatura, la quale non produce il male, ma lo trova come opzione da scartare accanto a quella di segno positivo.

Questa visione del mondo è stata riproposta dal manicheismo, dalle rappresentazioni cristiane medievali, le quali, molto ingenuamente, hanno personificato la presenza del male nella figura del diavolo, il quale viene visto come lo spirito di questo mondo, il tentatore che induce l’uomo a peccare e ad allontanarsi dalla luce divina: insomma, come il responsabile diretto della sofferenza.

Lo gnosticismo, combattuto duramente dal cristianesimo, pur nella varietà delle sue dottrine, ripropone la teoria dei due principi con qualche significativa variante. Innanzitutto, il principio positivo, identificabile grossomodo con il Dio che si rivela nella persona di Cristo, non è il creatore del mondo materiale. Opera del mondo materiale, in cui deborda il male e l’assoluta mancanza di senso, è un demiurgo malvagio che, da Marcione in poi, è identificato col Dio dell’Antico Testamento. L’uomo è gettato in un mondo ostile e freddo, intrappolato platonicamente nella prigione del corpo. Infatti, oltre al dualismo metafisico che vede coinvolti due principi contrapposti, è presente un dualismo tra spirito e materia, uno iato incolmabile tra il mondo materiale creato dal demiurgo malvagio e il mondo spirituale creato dal Dio buono. Eppure, l’uomo conserva intatta dentro di sé una scintilla divina che lo riconnette alla sua origine spirituale. La salvezza non poggia sulla fede, sulla credenza, ma sulla conoscenza, sull’illuminazione, della propria natura divina, la quale si ridesta attraverso un progressivo distacco dal proprio corpo. Anche nella teodicea gnostica il dualismo metafisico fra Dio e il demiurgo, fra lo spirito e la materia, fungono da principi teorici di un involucro mitico-razionale che si prefigge l’obiettivo di mitigare il peso della sofferenza intrinseca ad ogni situazione-limite, pur riconoscendone la centralità all'interno della vicenda esistenziale e cosmica dell’uomo.

 

La dottrina della predestinazione e la dottrina indiana del karma, in parte già esaminata, si muovono nella stessa direzione. La prima, tipica di alcune forme di protestantesimo evangelico, si sorregge sul seguente assunto: nessuno sa a cosa è destinato, se alla salvezza o alla dannazione. Bisogna solo affidarsi a Dio, il quale ha preparato per il singolo la sorte più giusta; bisogna rendersi operosi nel mondo, ma al contempo non legarsi troppo ad esso, con la consapevolezza che bene e male sono entrambi inviatati da Dio, dunque ammantati di un senso, seppur imperscrutabile per il singolo.

Questa visione dell’esistenza, racchiusa nelle maglie della necessità, rende la sofferenza delle situazione-limite un elemento funzionale alla liberazione, privandola del suo carattere definitivo. La sofferenza della situazione-limite, in questo caso, diventa il presupposto indispensabile per il raggiungimento della salvezza: un puro mezzo. La sofferenza viene superata, come accade nel caso del cristianesimo del protestantesimo evangelico, quando viene accolta e ricercata quale strumento di purificazione e di avvicinamento a Dio. Allora la situazione-limite non viene affrontata a viso aperto, ma elusa attraverso l’idea che essa conduca a un supposto regno dei cieli, oppure, come accade nelle religioni orientali, all’estinzione della propria brama di rinascere, o, ancora, come accade nel comunismo, a un’ipotetica società nella quale l’ingiustizia sociale è finalmente espunta.

 

Anche secondo Max Scheler questa visione strumentale e quasi patologica della sofferenza, tipica di certe frange del cristianesimo più dogmatico, va assolutamente rigettata. La via regale della croce, al centro della dottrina cristiana, secondo il filosofo, non è solo un invito a soffrire con Cristo per il raggiungimento di un supposto paradiso, ma a riconoscere nella sofferenza l’invito ad amare in e con Cristo. La sofferenza, per il cristiano, non avrebbe il valore di ricondurre il soggetto all’ascesi, al rapporto solitario con Dio, ma al riconoscimento del valore più alto di tutti, quello dell’amore operoso che ricongiunge il singolo all’altro. Diversamente dalla dottrina buddhista, che vede l’amore quale strumento di negazione e di alienazione di sé, la dottrina cristiana vede l’amore quale forza di ricongiunzione con il mondo. Se per il saggio orientale la sofferenza è accolta quale eminente strumento di erosione del potere distruttivo del desiderio, per il cristiano la sofferenza può essere accolta soltanto se la sofferenza riposa in una «soffusa beatitudine», solo se primariamente il proprio cuore è liberato dall’amore che tutto dona e a tutti si dona.

 

Jaspers, invece, richiamandosi a Kierkegaard – considerato insieme a Nietzsche uno dei maggiori destatori della coscienza contemporanea – ritiene che l’uomo non debba fuggire la sofferenza, considerandola un mero strumento che consente un rapporto diretto e immediato con l’assoluto, ma riconoscere che in essa si è irrimediabilmente impigliati. Come dicevamo all’inizio, la sofferenza è un trascendentale esistenziale, e, in quanto tale, una struttura che ci ingloba e ci rende quello che siamo. La sofferenza non è un problema oggettivo che io posso analizzare e superare. Quale essere finito, situato nel punto liminale che separa il tempo dall’eterno, sono invitato a sperimentare la sofferenza come un mistero da abitare e da contemplare, con la consapevolezza che la salvezza non è il superamento del finito, ma è nel finito stesso, e che la Trascendenza si rivela non al di là del tempo, ma sul fragile lembo in cui tempo ed eternità si toccano senza confondersi.

 

7 luglio 2025

 









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