Nel cuore dell’Appennino, dove i paesi sembrano dimenticati e i muri parlano un linguaggio fatto di crepe, silenzi e tracce, un progetto musicale e poetico prova a porre una domanda semplice quanto radicale: come possiamo ricominciare a vedere, sentire, pensare diversamente l'ordinario di un'area interna? Come possiamo riscoprire un territorio non solo attraverso la memoria, ma attraverso l’immaginazione?
di Luciana Petrocelli
Questo lavoro prende forma nella pratica artistica che trova una sua traccia definita nel lavoro culturale che si tiene a Castel del Giudice, dal titolo evocativo: Tela di note e musica dei luoghi, dei sogni e delle percezioni. Ascoltare il visibile, reinventare l’invisibile.
Un’azione che non assume semplicemente la forma né di concerto, né di performance, né workshop convenzionale. È piuttosto un dispositivo trasformativo, che unisce musica, filosofia, mito, comunità e percezione.
La ferita del vuoto dei territori interni raccontano storie non dette, come una piazza in cui "prima c'era gente", un muro rotto visto solo come “rovina”, un ostello abbandonato ridotto a “residuo del passato”. Una lettura come effetto di un immaginario sociale, cioè di quell’insieme di significati, immagini e rappresentazioni che modellano la realtà più di quanto lo faccia la materia. Come ci ricorda Cornelius Castoriadis, l’immaginario non è un’illusione, ma un elemento costitutivo della società (C. Castoriadis, L'istituzione immaginaria della società). Non vediamo solo ciò che c’è, ma vediamo ciò che crediamo di vedere e — ed è qui il cuore del lavoro — l’immaginario non è fisso, può essere spostato, reinventato, riconfigurato. Questo slittamento può avvenire attraverso l’esperienza estetica, sonora, percettiva. Il lavoro di Tela di Note, condotto nella cornice del Bando Borghi di Castel del Giudice (IS), con giovani pianisti e musicisti locali, si articola lungo linee intrecciate che riguardano, inizialmente, un lavoro di trasformazione dei racconti personali in musica. Durante una serie di laboratori, i partecipanti condividono ricordi, foto, visioni o oggetti cari, che vengono immediatamente trasformati in improvvisazioni pianistiche.
Una musica che non rappresenta, ma trasfigura. Che non accompagna, ma ascolta e restituisce. È una pratica di autorappresentazione di una comunità che si sente attraverso il suono e che si riconosce in forme non consuete. Una pratica di cura e di custodia di un archivio musicale comunitario che verrà generato dal potere trasformativo delle note. Questo progetto musicale è anche rilettura simbolica del femminile nei territori marginali, attraverso figure mitiche come Aracne, le Janare, le Villi, le Baccanti e le guerriere sannite. Donne, tessitrici di senso e di destino, che incarnano il potenziale inespresso delle aree interne, luoghi spesso abitati da dame che reggono l’ossatura invisibile del vivere quotidiano. E il bosco, che accomuna tutte le figure femminili citate, diviene simbolo potente, spazio liminale, anti-urbano, sede del possibile. Una zona intermedia dove le regole si sospendono e si reinventa l'essere nel mondo.
In queste figure mitiche si scopre la forza di un’archeologia simbolica che può dare nuove radici culturali e affettive alle pratiche contemporanee. L'immaginazione mitologica non è evasione, è linguaggio potente per dire ciò che ancora non esiste. Il bosco, come luogo di nascondimento, funge da riconfigurazione simbolica e mitica dell'asse della realtà: nel laboratorio dedicato all'ascolto dei luoghi non si “spiega” nulla. Si fa esperienza. La comunità viene guidato in una riconnessione sensoriale con il paese. Si parte con esercizi di attivazione percettiva, come l'ascolto a occhi chiusi dei suoni lontani e vicini, il tocco di materiali locali (pietre, foglie, legni), fino all'evocazione di immagini non visive. Si impara ad ascoltare le crepe, i margini, il non detto dei luoghi.
Infine, la restituzione collettiva, in cui emergono nuove narrazioni, nuove parole. Si compone un manifesto sonoro e poetico, che sarà poi diffuso sotto forma di clip audio, QR code sonori, un atlante sonoro della e nella comunità. Il progetto non resta effimero, ma lascia tracce, sedimenta visioni, contamina l’immaginario locale.
Il progetto si fonda su un'estetica in azione e sulle convergenze che essa implica negli immaginari sociali. Secondo Castoriadis, ogni società è fondata su immagini, simboli, visioni del mondo (C. Castoriadis, L'istituzione immaginaria della società). Queste strutture non sono naturali né eterne, ma frutto di una creazione collettiva. E, soprattutto, possono essere messe in crisi, ridefinite, reinventate. In questo modo, la musica agisce come intervento poetico e politico: l’arte è operazione dello spirito sullo spirito stesso, afferma Paul Valery (P. Valery, Eupalinos o l'architetto) e se l’architettura è “musica congelata”, allora la musica è architettura liquida dell’immaginazione. Un’architettura fatta di risonanze, di aperture, di passaggi.
Attraverso l’ascolto, le persone scardinano automatismi percettivi, entrano in relazione nuova con ciò che le circonda, costruiscono comunità attraverso il suono.
È una forma di rigenerazione che non riguarda l’edificio, ma il modo in cui lo si abita interiormente.
Il caso di Castel del Giudice rappresenta oggi una delle esperienze più emblematiche di rigenerazione nei territori interni italiani, un paese che ha saputo, in parte, trasformare l’abbandono in risorsa, l’isolamento in laboratorio di pratiche generative. Tuttavia, ogni trasformazione materiale — per essere autentica, duratura e profondamente partecipata — deve poggiare su un fondamento simbolico altrettanto solido: una rielaborazione condivisa dell’immaginario collettivo che accompagni e sostenga la metamorfosi fisica dei luoghi.
È proprio in questa prospettiva che il progetto musicale si innesta nel tessuto di Castel del Giudice, senza una velleità addizionale o decorativa, ma nel tentativo di radicare un’azione poetica nel profondo del vissuto locale, affinché ciò che ancora è diffuso, latente o inespresso possa prendere forma e trovare voce. Il tentativo culturale si fonda sull'attivazione di un dispositivo estetico ed esperienziale che renda visibile l’invisibile, ossia ciò che le persone già percepiscono ma non hanno ancora espresso simbolicamente.
In questo senso, l’intervento non si limita a “suonare un luogo”, ma mira a spostare l’asse percettivo ed emotivo della realtà, da un lessico che perpetua una narrazione musealizzata della storia a quello della possibilità, dalla cristallizzazione nostalgica alla riattivazione dei processi immaginifici. Fondamentalmente: dalla percezione dell’assenza alla costruzione di un desiderio collettivo.
La musica scava sotto la superficie dell’evidente, che ascolta ciò che non è stato ancora detto, e rifonda le possibilità di senso. In questa prospettiva, la melodia non si limita a rappresentare il mondo com’è, ma agisce come forza di apertura ontologica, mostrandoci ciò che il mondo può essere, ciò che può ancora emergere dal reale quando lo si attraversa poeticamente.
È, in definitiva, un’azione politica in senso originario, una ridefinizione condivisa del possibile.
La musica, come Theodor W. Adorno la definisce (T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna), possiede una potenza critica che si sottrae al desiderio illusorio di fissare l’identità in linee precise, abbracciando l’ambiguità fertile del molteplice.
L’arte sonora autentica "non dice, ma fa segno verso ciò che non è ancora", mantenendo aperta la frattura tra esperienza e concetto, tra essere e possibile.
In un’epoca segnata da crisi ecologiche, sociali e culturali, non abbiamo bisogno di rassicuranti descrizioni del mondo, ma di nuove modalità per entrare in relazione con esso. Abbiamo bisogno di pratiche capaci di espandere il campo dell’immaginabile.
Come affermava Cornelius Castoriadis (C. Castoriadis, L'istituzione immaginaria della società), la vitalità di una società si misura non solo dalla sua capacità di produrre beni o garantire ordine, ma soprattutto dalla sua capacità di immaginare altri mondi, e non leibzianamente il migliore dei possibili, ma quello abitato spinozianamente dalla sintonia con ciò che siamo davvero: esseri razionali, certamente, ma parte viva di una natura più grande, con cui tornare a tessere legami di senso.
Perché, si può certamente affermare che una società che non sa più immaginare è una società che ha già smesso di esistere. Il nostro compito, allora, è restituire all’immaginazione la sua funzione fondativa e generativa, e alla musica il suo potere di riattivare la forza produttiva del desiderio collettivo.
11 luglio 2025
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