La geopolitica ha da sempre esercitato un forte fascino sul grande pubblico. Al contempo, ha generato molta confusione, complice l’assenza di una definizione univoca e per la “fluidità” del metodo d’analisi.
di Federico Ramponi
Nata in Germania nel tardo XIX secolo, la geopolitica – termine coniato dal politologo svedese filotedesco Rudolf Kjellén – fu uno degli strumenti intellettuali attraverso cui le nazioni imperialiste giustificarono “scientificamente” la propria supremazia mondiale. Questo filone di pensiero, impregnato di razzismo e volontà di potenza, raggiunse l’apice con il Terzo Reich. Dopo il 1945, la geopolitica subì una damnatio memoriae nel mondo accademico, bollata come “scienza nazistoide” tanto in Occidente quanto nel Blocco Orientale. Sergio Romano, in un articolo sul Corriere della Sera, definì la geopolitica come «una pseudoscienza che la mitologia razziale e le credenze esoteriche di Adolf Hitler hanno trasformato in una micidiale religione del potere». Henry Morgenthau, uno dei più influenti politologi statunitensi del XX secolo, la etichettò come «una sorta di metafisica politica usata come arma ideologica» (Morgenthau, 1948).
In Italia, la crisi del Covid e la guerra russo-ucraina hanno segnato una rinascita dell’interesse per la geopolitica, fino ad allora confinato alle pubblicazioni di Limes e Geopolitica.info. Tuttavia, questo revival non ha prodotto maggiore chiarezza. Al contrario, ha favorito una vera e propria «cannibalizzazione» dello scibile, dove tutto viene etichettato come geopolitica, e come ha osservato Salvatore Santangelo: «se tutto è geopolitica, nulla è geopolitica» (Santangelo, 2022). È in questo contesto che si può comprendere, almeno in parte, il successo editoriale di Dario Fabbri e della sua opera, Geopolitica Umana. Capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne (Gribaudo 2023).
La geopolitica umana, secondo Fabbri, «studia l’interazione tra collettività collocate nello spazio geografico calandosi nello sguardo altrui» e si propone di «capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze moderne» (Fabbri 2023, 10). Per chi è già familiare con le sue teorie, Geopolitica Umana rappresenta una sintesi del suo pensiero: nazioni e imperi; l’irrilevanza dei leader e delle forme di governo; globalizzazione e social network; strategia e demografia. Il libro gode di una struttura solida, corroborata da numerosi esempi – o così sembra. Più che offrire «lenti graduate per vincere la miopia», Geopolitica Umana lascia troppe domande sul metodo adottato da Fabbri. Il testo è intriso di luoghi comuni, cherry-picking, errori grossolani e contraddizioni.
La prima impressione ci suggerisce che la geopolitica di Fabbri sia deterministica e di impronta normativo-teologica, in altre parole: serve a mappare «un destino già scritto» (Graziano 2022, 19). Difatti, Fabbri sembra rientrare nella categoria dei geopolitici teologici, sono «coloro che partono dalla fine (o meglio, dal fine, cioè dall’obiettivo che si sono proposti) per trovare a ritroso gli elementi “scientifici” volti a dimostrarne l’ineluttabilità» (Graziano 2022, 23).
In primo luogo, Fabbri vuole dimostrare che sia sempre esistito un pensiero “geopolitico” in tutte le collettività umane e ai loro pensatori: «Nella sua inclinazione ancestrale, la geopolitica umana è filone di un approccio frequentato fin dall’antichità […] Greci, persiani, romani, cinesi […] ne hanno lasciato notevolissime tracce» (Fabbri, 2023, 12). Questo ragionamento parte da un assunto molto problematico, abbastanza ricorrente nel pensiero geopolitico più tradizionale e attuale, ossia: quello di trapiantare nel passato – e in società profondamente diverse – un tipo di pensiero e strutture che, semplicemente, non esistevano. La geopolitica classica (di cui è evidente l’influenza su Fabbri) è un prodotto storico ben preciso, nato in un contesto segnato da profonde trasformazioni sociali, politiche e tecnologiche. Di conseguenza, risulta problematico sostenere – come fa Fabbri con disarmante facilità – l’esistenza di un «approccio frequentato fin dall’antichità» da Stati, nazioni, imperi e collettività ben definiti, proiettando retroattivamente dei concetti in ambienti che ne erano privi; in secondo luogo, Fabbri cerca di dimostrare l’esistenza di leggi immutabili (quasi divine) che non possono essere modificate: «La strategia è ciò che una nazione deve [...] compiere per restare in vita […], esiste di per sé. È frutto delle caratteristiche geografiche, antropologiche, demografiche, economiche e culturali di un popolo [...] La strategia va soltanto riconosciuta, non inventata [...] Si modifica quando cambiano i fattori strutturali che l’hanno germinata, in nessun altro caso» (Fabbri 2023, 140). Viene spontaneo chiedersi se la bomba atomica sia una caratteristica economica o culturale della collettività americana.
Il fattore umano, indipendentemente dal tempo o dallo spazio, appare secondario, non esistono vere transizioni, rotture o cambiamenti; i popoli che abitano in determinati spazi sembrano eternamente uguali a se stessi: «La continuità è un elemento fondamentale di ogni soggetto geopolitico» (Fabbri, 2023, 63). Questa rigidità nel trattare il “fattore umano”, per esempio, è evidente quando Fabbri tratta la questione dell'assimilazione e dell'integrazione:
« L’approccio di una collettività agli stranieri è conseguenza della sua condizione strategica: indipendente o tributaria […] I soggetti indipendenti perseguono l’assimilazione […] un processo che prevede notevole ferocia culturale, a volte perfino fisica. Viceversa, i soggetti tributari possono soltanto integrare gli immigrati […] consentendo loro di appartenere a più nazioni » (Fabbri, 2023, 121).
Questa impostazione cancella completamente la complessità: Fabbri propone uno schema rigido e dicotomico, dove gli immigrati appaiono come passivi, vittime di politiche aggressive nei contesti "indipendenti" o impossibilitati (per scelta o meno) di assimilarsi, o integrarsi in toto, nei contesti "tributari".
L’esperienza storica dell’immigrazione italiana negli Stati Uniti smentisce questo manicheismo. Al contrario del modello “fabbrino”, gli emigrati italiani furono attivi nella costruzione della propria identità e nell’interazione con il nuovo contesto sociale, e lo fecero attraverso una moltitudine di meccanismi: il voto di scambio, gli scioperi, l’attivismo politico dal basso, la promozione, su incoraggiamento del regime fascista o autonomamente, della lingua italiana e della cultura italiana. Inoltre, la studiosa Nancy Carnevale ha messo in discussione il modello rigido di assimilazione in ambito linguistico (prima generazione monolingue, seconda bilingue, terza assimilata), mostrando (utilizzando sempre il caso degli italo-americani) come si sia sviluppata una sorta di "lingua creola", ibrida e dinamica, che variava da zona a zona, e serviva da ponte comunicativo tra migranti di diverse provenienze regionali (Carnevale, 2009). Prima della Seconda guerra mondiale, secondo l’Associazione degli insegnanti di italiano negli Stati Uniti, circa 75.000 studenti delle scuole superiori e 22.000 universitari studiavano l’italiano. Tuttavia, il conflitto segnò una brusca interruzione: la lingua italiana fu associata al “nemico” e sottoposta a forti pressioni assimilative. Negli anni ‘80, però, si registrò una riscoperta della lingua e della cultura italiana, sostenuta da associazioni come la National Italian American Foundation e l'Order Sons of Italy in America (Pretelli, 2011).
Il grande assente di Geopolitica Umana è, paradossalmente, proprio la geografia. Dalla geografia fisica alla percezione dello spazio, l’analisi è ridotta a brevi cenni, sparsi e disordinati. Ancor più sorprendente è la totale assenza di una riflessione articolata sul ruolo delle risorse — alimentari, minerarie, idriche o finanziarie. In Geopolitica del mondo contemporaneo, Carl Jean dedica tre capitoli al ruolo delle risorse nelle dinamiche geopolitiche (Jean, 2007); Colin Flint, nella terza edizione di Introduction to Geopolitics, tratta della percezione dello spazio – sociale, ideologico e geografico (Flint, 2017); Andrea Maddaluno ha dedicato un intero volume (Geopolitica. Storia di una ideologia) al rapporto tra geopolitica, ideologia e immaginazione dello spazio (Maddaluno, 2019). Appare singolare che un libro che ambisce a essere una “lente d’ingrandimento” ignori proprio questi elementi basilari.
Fabbri, di contro, sembra preferire spiegazioni astratte, concetti evanescenti e contraddittori quali la "gloria" o la "cifra antropologica" – che non necessitano di un’analisi logica o scientifica. La "gloria" rappresenta una categoria nebulosa e difficile da definire, e a volte manda in cortocircuito il sistema fabbriano: se, come sostiene Fabbri, i leader non giocano un ruolo determinante, perché dovrebbero agire in nome della gloria? E, riprendendo un’argomentazione di Aldo Giannuli, quante calorie ha un chilo di gloria? È difficile immaginare, ad esempio, gli egiziani condurre guerre in nome della gloria del faraone, mentre sono affamati e scalzi.
Questo, comunque, non è l’unico cortocircuito presente; Fabbri definisce la globalizzazione come:
« […] conseguenza della superiorità della Marina statunitense, capace di occludere il passaggio delle altre Marine negli stretti […] Poiché il 90% delle merci transita via mare, tale capacità, come capitato in passato per romani e inglesi, ha trasformato l’intero planisfero in un unico mercato » (Fabbri 2023, 181).
Tuttavia, se ignoriamo completamente altri modelli di globalizzazione (Janet Abu-Lughod ha descritto la pax mongola come una globalizzazione terrestre), se davvero la globalizzazione è l’effetto diretto del controllo dei mari da parte di una potenza navale, questo entra in contraddizione con quanto affermato dallo stesso all’inizio del libro, quando scrive che la geopolitica umana non si limita a una «[…] mera interpretazione militare [...] surrogato della geopolitica, tendente a valutare lo scontro in base agli armamenti [...] ignorando l’attitudine antropologica [...]» (Fabbri 2023, 18).
La nozione di “cifra antropologica” risulta particolarmente problematica, in quanto può prestarsi a interpretazioni di stampo razziale. Fabbri, ad esempio, insiste sull’idea che alcune civiltà sarebbero “naturalmente” civiltà marinare — un’idea che richiama, per certi versi, la teoria delle razze marziali — (Fabbri, 2023) oppure immuni a determinati processi storici e, anzi, propense ad accettare forme di autoritarismo: «i russi non subiscono l’attuale regime […] lo sostengono e lo conservano. Lo ritengono antidoto contro la “colonizzazione occidentale”, incarnata dalla democrazia. Preferiscono una condizione dispotica alla penetrazione straniera» (Fabbri 2023, 73).
La Russia di Fabbri è il classico – e comodo – archetipo della geopolitica da Guerra Fredda: statico, uniforme, misterioso e impermeabile; il popolo russo è un monolite che serenamente si rende complice del potere per puro istinto patriottico. Giovanni Savino, storico del nazionalismo russo, e gli autori di Rossijskoe obšĉestvo i vyzovy vremeni, kniga šestaja (La società russa e le sfide del tempo, libro sesto, 2022/2023), offrono una visione ben diversa:
« Cosa pensano i russi?[…] Uno dei miti più diffusi è che ai russi piaccia il pugno di ferro, il dittatore di turno. Eppure non è così, come scrivono i sociologi del gruppo di ricerca: «Se nella società russa esisteva una domanda d'autoritarismo, negli ultimi decenni essa si è indebolita costantemente. Se nel 2000 con la tesi ''La Russia può prosperare solo quando a capo di essa vi sarà una personalità forte, un padrone'' era d'accordo quasi il 29% della popolazione, nel 2017 esso era il 22% e in più nella primavera del 2022, già dopo l'inizio dell'operazione speciale militare in Ucraina, la cifra è sempre restata la stessa, il 22% dei rispondenti». Eppure continua a esser presentata come cifra dell'essenza russa la propensione all'autoritarismo […] » (Giovanni Savino, Russia e altre sciocchezze, 11 luglio 2024)
28 maggio 2025