La geopolitica ha da sempre esercitato un forte fascino sul grande pubblico. Al contempo, ha generato molta confusione, complice l’assenza di una definizione univoca e per la “fluidità” del metodo d’analisi.
di Federico Ramponi
Questo non è l’unico, o ultimo, approccio semplificato che Fabbri adotta per la Russia. Nel capitolo dedicato agli Imperi, Fabbri scrive che: «i ruskij (russi) sono rimasti inscalfibili soggetti regnanti, mentre i popoli conquistati sono stati assimilati ma non alla pari (rossijskij), pur adottando la lingua di Tolstoj per gli affari di governo» (Fabbri 2023, 46). Trascurando la questione semantica – tutt’altro che secondaria – tra ruskij e rossijskij, di cui Fabbri verosimilmente ignora sia l’origine che l’uso proprio, Andreas Kappeler, in The Russian Empire. A Multiethnic History, mostra un panorama leggermente più complesso. Kappeler dimostra come la classe dirigente moscovita si sia servita dei notabili tatari per amministrare le regioni conquistate dal Khanato di Astrakhan (Kappeler, 2013). Anzi, alcuni notabili di origine tartara, come Simeon Bekbulatovich (discente di Genghis Khan), si erano pienamente integrati nei vertici dell’Impero – un fatto abbastanza improbabile se un popolo viene assimilato «ma non alla pari».
Per di più, questa visione dicotomica tra ruskij e rossijskij trascura le profonde influenze esercitate delle culture che furono inglobate nell’impero russo. La cultura imperiale russa, per esempio, attinse a piene mani dall’eredità mongola, adattandola ai propri scopi: il titolo di “zar” veniva utilizzato per designare tanto il basileus bizantino quanto il khan dell’Orda d’Oro; numerosi termini legati alla finanza e all’amministrazione – come den’gi (denaro) e kazna (tesoreria) – sono di origine mongola, così come diverse parole di uso comune (Figes, 2022). Perfino la celebre corona di Monomaco rappresenta un ibrido tra la tradizione russa e quella tartaro-mongola. Infine, la questione identitaria nel mondo eurasiatico – prima dello sviluppo dei nazionalismi e degli Stati come li intendiamo oggi – è molto complessa e sfaccettata: un nobile tedesco del Baltico poteva parlare correntemente francese, pregare con fervore cristiano in una chiesa protestante ed essere perfettamente integrato nei vertici dell’Impero russo. Alla domanda sull’identità nazionale, verosimilmente, avrebbe risposto identificandosi con la propria fedeltà allo zar, piuttosto che con un’appartenenza etnica o culturale. Dall’altro lato, un contadino dell’Europa orientale – termine inventato durante la Guerra Fredda – difficilmente si sarebbe posto il problema della propria identità in termini nazionali. Come scrive Hrytsak Yaroslav in Storia dell’Ucraina. Dal medioevo a oggi, avrebbe probabilmente risposto con espressioni del tipo: «noi siamo gente di qui», «siamo i fedeli di questa o quell’altra religione», «apparteniamo a quello o quell’altro stato» (Hrytsak, 2023).
Ma in fondo, porsi queste domande è superfluo, poiché la geopolitica umana «respinge il metodo descritto come scientifico, composto di standard nei quali incastrare ogni evento, anteponendo la teorizzazione alla realtà, ignorando quei fatti che non rientrano in archetipi arbitrariamente angusti» e «non ha intento divulgativo» (Fabbri, 2023,11;15). Una dichiarazione che ha un retrogusto nietzschiano e vagamente esoterico: se «non ha intento divulgativo», perché scriverci un libro? Se respinge il metodo scientifico, giudicato troppo “angusto”, su cosa si basano queste analisi? Sono opinioni?
La tentazione di optare per questa ipotesi è irresistibile alla lettura di altri passaggi di “alto” spessore culturale: «l’impero è obbligato a realizzare il benessere degli altri» – i nazisti avevano certamente una fervida immaginazione nel progettare forme di benessere imperiale da imporre con zelo, altrettanto creativo (Fabbri 2023, 45); «Ai giovani andrebbe concesso di essere tanti, dunque di fare da soli» (Fabbri 2023, 100) – nella pratica come si traduce questo “aforisma” ? E «in Francia la ricorrente sconfitta del Rassemblement National è determinata dall’atteggiamento della popolazione che, sicura di meritare una superpotenza, respinge il nazionalismo dei lepenisti, inconsciamente anticoloniale» (Fabbri 2023, 72); da quando un partito neofascista, fondato da un nostalgico di Vichy e noto criminale di guerra, rappresenta un'espressione anticoloniale?
Come si è già reso evidente nei passaggi precedenti, Fabbri e la Storia non intrattengono esattamente un rapporto amichevole, anzi, è un rapporto unilaterale e strumentale. Una (ennesima) dimostrazione è il modo in cui l'autore cerca di spiegare l’intrinseca capacità dei russi di non vivere di benessere né di economia, bensì di gloria:
« La prima Rivoluzione russa prodotta dal basso avvenne nel 1905, dopo che la Marina era stata annientata dai giapponesi al largo di Tsushima[…]. Era il momento più umiliante. La popolazione russa fu scossa da rabbia e depressione. Da Ginevra, Lenin definì la flotta «impotente, grottesca e mostruosa come l’intero impero zarista». Nelle successive settimane la folla si scagliò contro la monarchia, nelle grandi città e nella campagne. A Odessa si ammutinarono i marinai della corazzata Potemkin, mentre nascevano i soviet. Era la prima rivoluzione, poi annientata dal colpo di Stato elettorale. In attesa di realizzare la definitiva rottura durante la Grande Guerra[…]. » (Fabbri, 2023, 97)
Partiamo dai fondamentali: la battaglia di Tsushima ebbe luogo tra il 27 e il 28 maggio 1905, mentre le proteste – e, più in generale, l’intero processo rivoluzionario del 1905 – erano già cominciate nel gennaio dello stesso anno; una facezia, ma andiamo oltre. Le manifestazioni, guidate dal frate ortodosso Gapon e accompagnate da icone sacre e inni religiosi, pregavano per la salvezza dello Zar e cercavano di chiedere udienza allo zar batushka – lo zar-padre buono, l’unico in grado (secondo la tradizione popolare) di salvare il paese – affinché risolvesse i problemi socioeconomici che flagellavano l’impero. Se si volesse individuare un momento chiave nella rottura tra masse e autorità imperiali, verosimilmente sarebbe il massacro, noto come la Domenica di Sangue, avvenuto il 22 gennaio 1905 a San Pietroburgo; un evento che contribuì al declino (finale) del mito dello zar batushka e della dinastia Romanov. Infine, c’è il l’aforisma attribuito a Lenin: «la flotta [era] impotente, grottesca e mostruosa come l’intero impero zarista». Una citazione che suona curiosamente nazionalista per un rivoluzionario marxista esiliato in Svizzera. Soprattutto se si considera che in Lettura della rivoluzione del 1905 (18 gennaio 1922), Lenin definisce la guerra russo-giapponese come un conflitto imperialista che veniva portato avanti sulle spalle dei proletari.
Le numerose obiezioni che Fabbri solleva sulle materie più “accademiche” sono opinioni da bar, travestite da analisi. La storiografia convenzionale ha un’impronta «[…] di ispirazione leaderistica, incentrata sui re e i principi, invece che gli impulsi che muovono le comunità» (Fabbri, 2023, 86)? Possiamo davvero ridurre l’economia, che «è persuasa dall’idea che bisogni e interessi regolino l’agire umano» (Fabbri, 2023, 16), a un mero rapporto di forza? È giusto liquidare i leader politici come totem delle collettività (Fabbri, 2023)? Le ideologie e le religioni sono meri «strumenti» dietro i quali si celerebbero le collettività (Fabbri, 2023)?
Sulla questione storiografia corrente, Fabbri sembra trascurare completamente le evoluzioni metodologiche e teoriche che si sono susseguite negli ultimi decenni. Per di più, è abbastanza ironica l’accusa di “leaderismo” perpetrata, anche, contro la storiografia di scuola marxista-socialista: «[…] leaderistica quanto quella convenzionale sebbene in forma rovesciata, nata per raccontare i popoli come attori informi che subiscono decisioni altrui» (Fabbri, 2023, 86) – lo stesso Fabbri usa principi marxisti quando tratta le religioni e le ideologie come sovrastrutture.
L’economia certamente non spiega ogni dinamica storica o sociale, ma ridurla a un semplice rapporto di forza è una visione di un realismo caricaturale e primitivo: Costantinopoli, il centro del commercio del Mediterraneo, avrebbe mantenuto la stessa importanza senza la scoperta delle Americhe? L’ascesa del nazismo sarebbe stata possibile senza la crisi del ’29? La globalizzazione, nella sua forma attuale, sarebbe quella che conosciamo senza la crisi petrolifera del 1973?
Quanto ai leader, è indubbio che essi siano determinati da una molteplicità di fattori. Tuttavia, non possiamo liquidarli come semplici totem, privi di volontà propria – Fabbri sembra che faccia l’eco (deformato) di alcune letture di Jung e Spengler. I leader non sono né demiurghi né automi, però, le loro scelte contano, e possono piegare, deviare e accelerare gli eventi - questo è «il ruolo della personalità nella storia» secondo Plechanov. L’Unione Sovietica sarebbe stata la stessa senza Stalin, Lenin o Trotsky? L’Inghilterra avrebbe continuato la lotta contro la Germania nazista senza Winston Churchill? Oltretutto, questa visione porta a una conclusione controintuitiva: se i leader sono totem privi di volontà – mossi esclusivamente dalla volontà di gloria o dagli apparati – , allora non sono responsabili delle loro azioni. Se Hitler è solo un totem, allora chi è responsabile dei suoi crimini? È colpa esclusivamente del «blocco austro-bavarese, portatore del nazismo» (Fabbri, 2023, p. 36)? Oltretutto, quest’ultima affermazione suona leggermente ridicola: su cosa si fonda questa “analisi”? Su uno “studio” prosopografico della classe dirigente nazista? Sul fatto che Hitler e Himmler fossero rispettivamente austriaco e bavarese? Ma i leader non sono solo dei totem? Che fine fa il concetto di führerprinzip?
Ideologie e religioni hanno storicamente esercitato un'influenza profonda, non possiamo ridurle a meri elementi “estetici”. Per mettere in discussione questa idea, è sufficiente porsi una domanda, apparentemente semplice: la Germania guglielmina e quella hitleriana – pur governando la medesima “collettività” – avevano gli stessi obiettivi geopolitici nell’Est Europa? La risposta è ovviamente negativa: l’Ober Ost non è in alcun modo assimilabile al Generalplan Ost. I due regimi erano profondamente diversi, non solo nei fini, ma anche nella concezione dello spazio, nella gestione delle popolazioni sottomesse e nella costruzione ideologica dell’Est. Le religioni e i vari “ismi” sono strutture d’azione, non maschere narrative dove si nascondono le collettività: le idee muovono eserciti, plasmano economie e costruiscono percezioni geopolitiche. Gli studiosi tendono a sfumare le dinamiche; Fabbri, al contrario, sembra adottare un approccio che semplifica eccessivamente numerose dinamiche, comprimendole in formule evanescenti e, a volte, confuse. Chi sta semplificando la realtà in nome di un sistema rigido e schematico?
In conclusione, Geopolitica Umana non introduce particolari novità: la geopolitica proposta da Fabbri non si distingue né per approccio né per fondatezza storica. Si configura piuttosto come una narrazione poetica, ma epistemologicamente fragile e priva di coerenza. Pur dichiarando una presa di distanza da ogni determinismo, Fabbri sembra cadere negli stessi schematismi e riduzionismi che critica, presentando la geopolitica come «una mappa di un destino già scritto». Di conseguenza, che senso ha studiare una mappa già tracciata? L’opera di Fabbri si potrebbe inserisce nella categoria delle Grenzwissenschaften (scienze di confine) del secolo scorso: una formula, con pretese scientifiche, che oscilla tra il magico e l’esoterico. In ultima analisi, Geopolitica Umana riflette un certo degrado intellettuale, nel quale Fabbri non si discosta molto da altre figure intellettuali, come Federico Rampini. Citando Theodor Adorno, Fabbri sembra rientrare in quella categoria di «semieruditi» che, mossi da un «desiderio narcisistico di dimostrarsi superiori alla gente comune» (Adorno, 1967), utilizzano il proprio carisma per offrire scorciatoie intellettuali che semplificano la realtà, senza mai affrontarla.
29 maggio 2025