Vivre Sa Vie è decisamente uno dei film-manifesto della Nouvelle Vague francese. Modello, insieme ad altri, per tanti registi: Wong Kar-wai fra tutti. Godard, il regista, cercando di spiegare l’intento fondamentale che muove la pellicola e tesse i fili della sua narrazione, dice che il fine della sua opera è quello di restituire allo spettatore il «movimento stesso del pensiero», di un flusso coscienziale che si srotola, per così dire, senza poter essere racchiuso in maniera definitiva in una sola parola o in una sola immagine. Per questo motivo, la narrazione, per restituire il carattere magmatico e intrinsecamente mosso del pensiero, si presenta come un dipinto suddiviso in dodici frammenti che ritraggono Nana, la protagonista, nell'intimità dei suoi gesti quotidiani, anche quelli banali, senza porre enfasi su nessuno di essi in particolare.
La scelta stilistica di Godard è motivata evidentemente da ragioni di natura filosofica e non solo da motivi di carattere formale. Ogni istante, infatti, per Nana ha lo stesso assoluto valore. Ad ogni istante Nana erige il suo culto personale. Non ci sono momenti che non possano farsi latori di un significato, di una segreta bellezza. Tutto è bello per chi riesce a guardare le cose con purezza dal momento che sa come oltrepassare l'umana inclinazione ad assolutizzare alcuni aspetti del reale a scapito di altri, come se il tutto esistesse soltanto per quei pochi istanti. Non si deve amare la vita perché è questo o quello, ma perché, misteriosamente, è. Il significato della vita, utilizzando le parole di Goethe, è la vita stessa, il suo donarsi e sembra ciò che Nana (Anna Karina) pensa ad alta voce:
« In fondo tutto è bello. Basta interessarsi alle cose e trovarle belle. Sì, in fondo le cose sono come sono e nient’altro. Un volto è un volto. Dei piatti sono dei piatti. Gli uomini sono gli uomini. E la vita è la vita »
La vita è soltanto se stessa: siamo noi, attraverso il nostro sguardo, che le diamo una forma, connotandola in un modo o in un altro. Ciò significa che siamo soltanto noi i responsabili dei colori di cui essa si tinge. Nessun accadimento interiore – nessun pensiero, nessuna passione e, dunque, nessuna azione – è attraversato interamente dalla necessità, ma rimesso alla nostra libertà. Ciò che conta non è quello che ci accade, ma il rapporto che con esso instauriamo. Nessun sentimento, dunque, può travolgerci da solo perché la natura stessa del sentimento dipende dalla nostra attività soggettiva. E anche non esiste alcun cielo intelligibile dal quale calerebbero i valori ai quali conformarsi per conferire ai nostri atti spessore morale. Ogni valore dipende dalla libera azione dell'uomo con cui li forgia. Il nostro stesso essere non è qualcosa di dato una volta per tutte, la manifestazione contingente e particolare dell'universale natura umana. L’esistenza, nel suo carattere di pura gratuità e ''gettatezza'', precede ogni essenza (Sartre). La «vita è solo la vita»: non possiede alcun fondamento. L’uomo «è condannato ad essere libero». La forma della sua esistenza dipende esclusivamente da lui. Egli possiede la possibilità – il suo essere è questa stessa possibilità – di forgiare se stesso o di perdersi nell’anonimia del proprio ruolo sociale.
E, tuttavia, tale libertà è una «condanna». Lo è perché appartiene all’esercizio della libertà una necessità insormontabile. Nessun uomo può non essere libero, nessuno può non scegliere. Dal momento che anche l'inettitudine - non scegliere, lasciandosi scegliere dagli eventi - sarebbe una scelta, seppur negativa. L’uomo è invece responsabile di ogni atto col quale scolpisce se stesso come dice Nana:
« Credo invece che siamo sempre responsabili delle nostre azioni. E liberi. Alzo la mano, sono responsabile. Giro la testa a destra, sono responsabile. Sono infelice, sono responsabile. Chiudo gli occhi, sono responsabile. Chiudo gli occhi, sono responsabile. Dimentico che sono responsabile, ma lo sono. Voler evadere è un’illusione ».
Anche scegliere di fare la prostituta per racimolare qualche soldo, come fa Nana, diventa una via per esprimere la propria libertà. Ella con questa scelta si libera, da un lato, dai legacci della morale borghese che raffigura la prostituta sempre e solo come vittima del potere patriarcale; dall’altro, esprime se stessa perché non si identifica totalmente con questo ruolo sociale, benché liberamente scelto. Così dimostra, ancora una volta, che il valore non risiede in ciò che si fa, ma nel significato che liberamente attribuiamo a ciò che facciamo.
L’assoluta centralità della libertà del soggetto è corroborata dalla predominanza dei primi piani di Nana. Infatti, in uno dei frammenti visivi di cui si compone la pellicola, assistiamo al primo piano del volto della protagonista che, al cinema, piange alla vista di quello sofferente di Renée Falconetti, la Giovanna D’Arco del capolavoro di Dreyer. Questo scambio suggestivo di primi piani – forse il più bello e famoso della storia del cinema Vogue – è decisivo non solo per la sua imponente carica drammatica, ma per due ragioni. Innanzitutto, perché in questa sovrapposizione Godard, con il coraggio tipico degli artisti che rompono gli schemi della morale comune, identifica Nana, una prostituta, con Giovanna d’Arco, una paladina della libertà. E lo fa – questa la seconda ragione che rende questa scena oltremodo importante – perché entrambe sacrificano ogni onore pubblico, scelgono la via della maledizione sociale in nome della propria libertà, del proprio possibile. Scelgono, insomma, di essere loro stesse fino alla fine, mostrando, ancora, che la libertà è responsabilità e, kierkegaardianamente, vertigine del nulla. Nelle lacrime che rigano il viso della bellissima Nana, infatti, è possibile scorgere, come se fosse un presagio, il tragico epilogo della sua esistenza. Perché, a volte, il prezzo da pagare per essere liberi è proprio la morte.
3 maggio 2025