Il film Au hasard Balthazar ci narra delle avventure di Bathazar, un umile asino simbolo dell'innocenza.
Di Au hasard Balthazar Godard disse che «è il mondo in 90 minuti». Il cinema, per Bresson, è questo: contrarre nell’immagine-tempo (Deleuze), nella commistione fatale di forma, suono e silenzio, la vita nella sua nudità, l'essenziale che, sommerso dalla chiacchiera, da uno sguardo costantemente bombardato dalla pornografia delle immagini, non riesce più a cogliere. In questo senso si può dire che il cinema di Bresson è, anzitutto, una paideia dello sguardo. Non è un caso che nelle sue Note sul cinematografo egli dica che il regista non dirige nessuno, tranne se stesso, tranne il suo stesso guardare. È questo continuo auto-disciplinamento dell'atto del guardare a costituire la camera oscura del suo cinema. L'atto del guardare/girare, però, non rappresenta l'imposizione del soggettivo. Il realismo di Bresson si colloca oltre la dicotomia tra soggetto e oggetto, tra veggente e veduto. Il reale, l’essenziale di cui il cinema è manifestazione, è l’incontro tra l'inatteso, la vita nella sua nudità, il suo perpetuo divincolarsi dal gesto prensile dello sguardo, e la nostra segreta attesa, lo sguardo che tenta di scrostare il reale dagli innumerevoli strati che velano la viva carne della sua essenzialità. Nessun ingenuo realismo, dunque, ma chiara consapevolezza della inestricabile compenetrazione di sguardo e guardato, di coscienza e natura, di cinema e vita.
Au hasard Balthazar è l’esemplificazione massima di questa duplice purificazione dello sguardo e del reale che lo sguardo stesso tenta di rivelare. Gli occhi di Balthazar sono la retina in cui la luce maestosa e iniqua del mondo transita col suo carico inusitato di dolore. Se nel Diario di un curato di campagna Bresson, compiendo la raffinata esegesi del capolavoro di Bernanos, tentava di afferrare quella grazia che, anche in punto di morte tutto redime nella luce abbagliante di un assoluto che si conficca in ogni fibra dell'esserci, qui, nello spazio di questi novanta minuti, egli si inoltra nell'Ombra dell'umano, nella vertigine del male che Dostoevskij ha saputo tematizzare con vigore filosofico ineguagliabile. Balthazar, come il Cristo della Leggenda del grande inquisitore di dostoevskijana memoria, è l'innocente che vaga nel deserto di un mondo ormai abbandonato al suo niente ontologico-assiologico. È, come il principe Myškin, l’idiota che si sovrappone al santo, perché ad essere senza peccato è la sua volontà, il suo sentire. Il suo raglio, il suo sguardo, sconfinano nel mutismo, nel silenzio innocente che rievoca quello dell’agnello di Dio davanti ai suoi assassini di cui parla Isaia 53. Questa sovrapposizione fra la santa innocenza di Balthazar e quella del Cristo è suggerita a Bresson dalla stessa simbologia evangelica. Il Cristo, infatti, decide di fare il suo ingresso a Gerusalemme in groppa a un asinello perché simbolo di quella povertà di spirito che rappresenta il culmine di ogni autentico cammino spirituale.
Come la vita del Cristo, quella di Balthazar è l’archetipo della condizione di ogni vivente. Nel suo sguardo il mondo si rivela non solo segnato dai singoli mali, dai mala in mundo, ma da quel peccatum mundi, per dirla con Caracciolo, che dei singoli mali ne è la radice trascendentale. Ogni male, ogni iniquità, è, negli occhi dell'asino, il segno di quel male ontologico che impregna di tragicità la Grundfrage: perché l’essere del mondo piuttosto che il niente se il mondo contiene Auschwitz, il cancro, Hiroshima, ed ogni altro genere di male? È l’innocenza che attraversa da parte a parte la pupilla e l’iride di Balthazar a costituire un giudizio sul mondo. La sua santità non solo mostra, per contrasto, la corruzione dell’animo umano, l’unico essere capace di fare il male e di esserne cosciente (ne L’Argent il nesso tra male e libertà sarà vagliato da un’altra angolazione, ma con la stessa profondità ermeneutica), ma la corruzione dell’intera creazione. E se Dio non è sullo scranno degli imputati è perché Dio, come ne Il Diario di un curato di campagna, è quel giudizio, è quella grazia, quell’innocenza che, con la sua stessa esistenza, rappresenta l’evidenziazione e, insieme, la trasfigurazione del male. Il cinema di Bresson, in Au hasard Balthazar, è più che cinema. È un teodicea capovolta. È teologia della grazia che, ogni ora, emerge luminosa dagli abissi del malum mundi. Bresson ci mostra che la tematizzazione del male radicale presuppone una radice più radicale ancora: il bene assoluto che in ogni creatura s’incarna come attesa di bene.
3 ottobre 2025