C’è una guerra che non si combatte solo con i droni e i carri armati, ma con i video patinati, le stories da un minuto e il silenzio imposto a chi urla troppo forte. È la guerra del racconto. E a Gaza, mentre la fame dilaga e le bombe cadono, questa guerra la sta vincendo chi ha il controllo dell’immagine, non della verità.
Negli ultimi mesi, mentre l’IPC certificava carestia nella Striscia – oltre 640 mila persone in fase 5 (catastrofe), più di un milione in emergenza – Israele ha aperto le porte non ai giornalisti indipendenti, ma a dieci influencer accuratamente scelti. Nessun reporter libero di indagare, nessuna telecamera che possa disturbare: solo smartphone pronti a trasformare la tragedia in contenuto virale.
Li abbiamo visti sorridere davanti a pallet di cibo, girare video tra bottigliette d’acqua e scaffali ben riforniti, recitare slogan: “guardate, qui non c’è carestia, Hamas mente, l’Onu è inefficiente”. Così la fame diventa fake news, la carestia un’esagerazione, le agenzie umanitarie capri espiatori. Un’operazione di propaganda chirurgica: non si nasconde il dolore, lo si sostituisce con una sua caricatura rassicurante.
Ma la realtà non è un set. Fuori dall’inquadratura, bambini muoiono per disidratazione, ospedali chiudono per mancanza di carburante, famiglie si contendono una tanica d’acqua. Questo non è frutto di fantasie: sono dati, rapporti, testimonianze di chi rischia la vita per raccontare ciò che accade, e che spesso muore o viene ridotto al silenzio.
La manipolazione funziona perché non avviene solo sul campo. È parte di un ecosistema globale della narrazione. I governi occidentali si indignano quando conviene, ma alzano il volume del silenzio quando il loro alleato strategico è coinvolto. Parlano di “diritto all’autodifesa” mentre intere comunità vengono spazzate via; parlano di “aiuti umanitari” mentre chi li consegna è ostacolato, filtrato, usato per fini propagandistici.
Le piattaforme social sono complici. I contenuti che mostrano il dolore vero vengono rimossi come “sensibili”, “violenti”, “non conformi agli standard”. Ma se il dolore è filtrato, montato, addolcito, allora diventa accettabile. Anzi, viene spinto, amplificato, reso virale. È il trionfo del paradosso: non serve censurare la verità, basta sommergerla di menzogne confezionate bene.
Non siamo davanti a un nuovo fenomeno, ma a una sua evoluzione: il dolore trasformato in intrattenimento. Gaza ridotta a scenografia, la carestia a sfondo per reels motivazionali, la guerra a serie in streaming da guardare tra una pubblicità e l’altra. Il dramma più grande non è ciò che vediamo, ma ciò che non vediamo: le voci autentiche, quelle che disturbano il copione, sono eliminate.
Chi dissente viene bollato come estremista, antisemitico, disinformato. Chi sopravvive alla fame e trova il coraggio di raccontare viene accusato di propaganda. Chi domanda verità viene accusato di schierarsi. Il risultato è che il dolore sparisce. Non perché non esista, ma perché non deve esistere per chi guarda da lontano.
Ed è qui la responsabilità di tutti: governi, media, piattaforme e cittadini. La nostra passività è il fertilizzante di questa menzogna globale. Finché continueremo a scorrere i feed senza domandarci cosa c’è fuori dall’inquadratura, saremo complici. Finché accetteremo che la verità sia decisa da chi ha più potere economico e militare, il massacro continuerà indisturbato.
La verità è scomoda, non è instagrammabile, non è vendibile. La verità è fame, sangue, paura. E richiede coraggio per essere ascoltata. Non c’è neutralità possibile davanti alla carestia trasformata in spot. Chi tace, chi ride, chi si volta dall’altra parte non è neutrale: è complice.
Se vogliamo spezzare questa macchina di menzogne, dobbiamo tornare a guardare senza filtri, a pretendere accesso, a denunciare il silenzio organizzato. Perché Gaza non è un set. Gaza è una ferita aperta. E finché ci limiteremo a consumarla come intrattenimento, quella ferita continuerà a sanguinare.
Il potere vuole che dimentichiamo. Il nostro dovere è ricordare. Il potere vuole che scrolliamo. Il nostro dovere è fermarci, guardare, raccontare. Perché la fame non sparisce con un hashtag. La verità non muore finché qualcuno ha il coraggio di dirla.
E allora ascoltami, lettore.
Non pensare che Gaza sia lontana. Non illuderti che il tuo silenzio ti assolva. Non c’è distanza sufficiente a ripararti dalla vergogna di un mondo che trasforma la fame in scenografia e il dolore in intrattenimento.
Spegni per un attimo lo schermo e immagina: una madre che tiene in braccio un bambino disidratato non è “contenuto sensibile”, è la realtà. Un ragazzo che urla la sua fame dietro un checkpoint non è “propaganda”, è la verità. Queste voci gridano nel buio mentre un algoritmo decide che disturbano troppo.
Non aspettare che siano i potenti a raccontarti la verità: non lo faranno. Non aspettare che gli influencer smettano di sorridere: non lo faranno. Non aspettare che le bombe si fermino da sole: non succederà.
Succederà invece che il dolore sarà sepolto sotto il rumore, se tu continuerai a voltarti dall’altra parte.
Il potere non ha bisogno di menzogne se può contare sulla nostra indifferenza. È la nostra apatia la sua più grande arma.
E allora ribellati. Fatti corsaro di verità. Pretendi voci libere, cerca testimonianze vere, ascolta chi non ha voce. Rompi il silenzio. Guarda fuori dall’inquadratura. Racconta ciò che non vogliono farti vedere.
Perché ogni volta che lasciamo morire una verità, muore un pezzo di umanità.
E senza umanità, siamo già cadaveri che scorrono il dito su uno schermo, mentre altrove il sangue scorre davvero.
11 settembre 2025
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