Un'estetica del margine. Tra realtà e finzione: il fumetto come riflessione ontologica e politica nelle aree interne

 

C’è un modo per non soccombere alla retorica delle aree interne? Un modo per non consegnare i significati a una malinconica narrazione della conservazione? Queste sono le domande da cui muove il nuovo progetto di rigenerazione culturale e urbana che prende forma a Castel del Giudice, nel cuore dell’Appennino molisano. Un luogo simbolico di quell’Italia soltanto spazialmente centrale, ma “laterale” negli immaginari collettivi e troppo spesso retoricamente evocata quando a divenire secondaria è l'etica della cura. L'intreccio tra arte, comunità e pensiero dà vita, all’interno della cornice del Bando Borghi - Linea A del PNRR di Castel del Giudice, a un diario a fumetti. Ogni quindici giorni, una striscia illustrata racconta le storie passate, presenti e immaginate delle aree appenniniche. In questa ciclicità narrativa, la sovrapposizione delle categorie temporali dà vita a una temporalità nuova, o meglio a una meta temporalità che non ci restituisce cronaca illustrata o documentazione artistica, ma un fumetto che diviene una sorta di strumento di interrogazione ontologica del territorio e di reinvenzione dello stare insieme. L'imposizione dell'imperativo simbolico del vuoto, nella silente quotidianità delle aree interne, è scardinata dalla presa di parola per immagini, come gesto di resistenza politica ed epistemica.

 

di Luciana Petrocelli

 

 

  

Una soggettività che disegna la possibilità

 

Nel corso dei laboratori da zero a eroe, tenuti dal fumettista Marco Tarquini e aperti a tutta la cittadinanza, viene creato un personaggio collettivo, una sorta di soggetto ibrido, una figura che nasce da un coro di voci e mani, che non rappresenta la comunità, ma la inventa mentre la pensa. In questa operazione è latente una domanda radicale: che tipo di umanità è possibile nelle aree interne del XXI secolo?

 

Heidegger, nella sua celebre riflessione sulla contemporaneità, sostiene che la modernità si caratterizza come «l'epoca dell'immagine del mondo», come se essa si configurasse come l'età in cui il mondo si rappresenta unicamente tramite la modalità dell’immagine. Questo è il marchio che portiamo anche nell’abitare i luoghi.

 

Ma forse oggi, nel contesto dei margini territoriali, abbiamo bisogno di rappresentazioni che non siano nostalgici specchi, bensì aperture: di figure che abbandonino per un attimo la pretesa di mostrare ciò che siamo, o siamo stati, permettendoci di abitare ciò che potremmo diventare; come se la costruzione del personaggio fosse una pratica ontologica, che, attraverso le linee di un volto, conceda forma e rappresentazione a un possibile che venga innanzitutto percepito come un fare comune. Perchè, come insegna Merleau-Ponty, la percezione non è mai passiva, è un atto del corpo, un modo di essere-nel-mondo (Fenomenologia della percezione).

 

Le deformazioni simboliche e le stilizzazioni espressive del fumetto performano l’identità, senza fotografarla, costruendola nell’interazione tra segno e sguardo, restituendo un concetto di essa che si mostra in tutta la sua scivolosità. Non è più un “chi siamo”, ma un “come ci stiamo vedendo” e “come desideriamo essere visti”, attraverso un gioco di percezioni e affezioni, in cui rappresentante e rappresentato si condizionano reciprocamente.

 

 

Temporalità dell’interno: la durata come narrazione stratificata

 

Le strisce fumettistiche rappresentano, nell'insieme, un diario della comunità, in cui la temporalità, che esso permette di esplorare, è solo in apparenza quella della cronologia. In ogni striscia fumettistica, le categorie di passato, presente e futuro subiscono una fluidificazione.

 

Si tratta di una temporalità che, come sostiene Deleuze, disarticola l'identità e permette il divenire: e il divenire è sempre stratificato. Ogni striscia del progetto sarà così un episodio della memoria collettiva dialettizzata dal gesto immaginativo e dal segno, che ci farà comprendere che il tempo delle aree interne non è “in ritardo”, ma è un tempo che vuole resistere alla misura e che tenta di sottrarsi alla teleologia dello sviluppo unilineare. L’immagine-tempo rompe la linearità di questa narrazione evolutiva e mostra il tempo come una serie di piani simultanei, intersecati e differenziali: come l’ora benjaminiana che risveglia il passato e lo riaccende nell’interesse del presente. Quando i sedimenti accidentali della storia si fanno racconto delle comunità, in quel momento esse si svelano davvero, non per fissarsi nel passato, ma perché sanno che nel narrarsi che si può abitare il futuro.

 

Il fumetto come ontologia illustrata

 

Abbandonando l’istanza fotografica, nella sua forma meta-fumettistica, il progetto pone un interrogativo ancora più profondo: è il paese che immagina il personaggio o è il personaggio che immagina il paese?

 

Nel pensiero di Kendall Walton (Mimesis as Make-Believe), il gioco del “fare finta” (make-believe) è alla base dell’esperienza estetica, in cui giochiamo con essa a costruire mondi, senza consumare le immagini. E quando l’immagine prende parola e si rivolge a chi ha contribuito a crearla – quando il personaggio guarda il lettore e lo chiama anche per nome – accade qualcosa di potente. Immaginare secondo le regole della finzione inaugura una forma di verità che accenna il possibile, in cui le immagini, invece di rappresentare descrittivamente e prescrittivamente la realtà, si configurano come paradossi generativi del reale stesso.

 

In questo senso, l'immagine artistica non rappresenta il paese, ma lo ri-genera attraverso un gioco estetico e politico: attraverso un gioco di maschere. E, come afferma Massimo Cacciari «la maschera è il perfettamente riproducibile» (Il produttore malinconico).

 

 

Etica della narrazione e democrazia estetica

 

L’etica del progetto, lontana dalla ormai patetica saccenteria del “dare voce”, risiede, dunque, nel costruire le condizioni per un’auto-rappresentazione collettiva, disinnescando la retorica della marginalità e innestando la possibilità di esistere attraverso nuove forme simboliche e di pensiero, così che le aree interne non siano raccontate con la retorica dei “luoghi da salvare”.

 

Una nuova semiotica della rigenerazione, tenta, dunque, di costruirsi sull'ibridazione di un linguaggio che è insieme razionale e percettivo e su ogni colore, linea e spazio vuoto che diventerà un territorio di significazione. “Colmando” il non detto tra una vignetta e l'altra, si genera, negli spazi bianchi, il pensiero narrativo, afferma Scott McCloud (Understanding).

 

Un'epistemologia illustrata dell'Appennino

 

Nell'epoca della strumentalizzazione dell'immagine e dalla standardizzazione del racconto territoriale, Castel del Giudice sceglie il tempo lento del segno, la riflessione collettiva della narrazione illustrata.

 

Il progetto culturale del fumetto diventa tale quando si propone come tentativo di rispondere alla domanda se sia possibile pensare le nostre terre guardando oltre la patina della nostalgia e disertando ogni forma di ornamento linguistico. Può rispondere, non soltanto inventando nuove immagini, nuovi personaggi, nuovi modi di raccontare, ma ripensando quelli reali né difensivi né celebrativi, ma aperti, ironici, viventi?

 

Questo meta-fumetto, in cui ogni vignetta si compone di una fenomenologia del vivere insieme, è un tentativo di creare condizioni per una rigenerazione delle percezioni e degli immaginari, attraverso uno scarto epistemologico in cui vige soltanto l'ordine della finzione.

 

7 ottobre 2025

 




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