Croce pericoloso. Francesco Postorino e le "ansie" dello storicismo assoluto

 

Con il suo Croce e l’ansia di un’altra città Postorino è impegnato in una vera e propria critica, dai tratti storico-sistematici, al pensiero del filosofo di Pescasseroli; ma è una critica che pulsa di ammirazione e gratitudine nei confronti di colui verso cui si esercita; che ne considera pertanto degni di altissima considerazione i pensieri.

 

 

Ci sono autori con cui si può e anzi, in certi casi, si deve non andare d’accordo; ma che al contempo è impossibile non amare. Benedetto Croce è uno di loro.

 

È un padre, Croce, e come tutti i veri padri lo si ama perché ci ha permesso di “essere” e ci ha amorevolmente indicato la via maestra. Ma ben presto, si sa, l’adolescente che è in noi vien fuori e sente il dovere – inizialmente, lo sente soltanto – di rivoltarsi contro quella pur autorevolissima voce che significa vita e speranza, ma che insieme rappresenta il rischio dell’immobilità, il fardello di categorie che non paiono ancora ereditate ma solamente imposte. Quando poi, al puro “avvertire” l’esigenza della rottura (con tutta la hybris che ciò fisiologicamente comporta) farà seguito, gradualmente, quella riflessa e più matura della comprensione volta a ricevere criticamente e a custodire i doni del padre, si sarà finalmente al cospetto della vita adulta. È proprio allora che inizia la vera discussione, il dialogo, la filosofia.

 

 

Nel suo lavoro Francesco Postorino procede ormai da tempo in questa fase, quella propriamente dialettica: e con il suo Croce e l’ansia di un’altra città (Mimesis, 2017) egli è infatti impegnato in una vera e propria critica, dai tratti storico-sistematici, al pensiero del filosofo nativo di Pescasseroli; ma è una critica che pulsa di ammirazione e gratitudine nei confronti di colui verso cui si esercita; che ne considera pertanto degni di altissima considerazione i pensieri. E che dunque li rievoca, sapendo che al netto della loro incoerenza essi sono «quanto di più proficuo ci abbia lasciato il più autorevole filosofo italiano del XX secolo», «in un mondo governato dalle narrazioni precostituite, dalle ideologie che rifiutano il contagio con la storia, dal duopolio sancito dalla guerra fredda e oggi dal pensiero unico manovrato da un potere invisibile» (p. 15).

 

Cionondimeno, talvolta la sua si fa critica aspra, memore di quegli allievi crociani che già presero rispettose ma nette distanze dal Maestro, come Carlo Antoni, a cui Postorino ha già dedicato una bella monografia di cui ho detto altrove. Leggendo il libro si scopre in effetti che l’“altra città” è proprio quella che Croce non ha l’ansia di raggiungere; piuttosto, l’ansia egli l’aveva per tutti quei tentativi potenzialmente oppressivi di riferirsi all'inintelligibile trascendenza di quanto vi sarebbe d’altro rispetto allo spirito umano: che tradissero cioè la liberale scoperta dell’immanentismo del secolo decimonono, fatta propria successivamente dallo storicismo assoluto. Concezione liberale, questa, perché non rivolta (come di fatto lo furono fedi religiose e politiche, queste ultime nella loro patologica versione “massonica”) a spazi nebulosi dai quali emanerebbe un raggio di luce che di colpo illumini l’esistenza, senza la necessaria mediazione critica dello spirito teoretico. Nel ’45 Croce scriveva infatti che:

 

« l'uomo non vuole attendere dal di fuori e dalla sorte o dalla Provvidenza quel che gli bisogna, e vuole procacciarselo esso, con l'opera sua, che è l'attualità della Provvidenza. Passivamente infelice non vuol essere, ma neppure passivamente felice. […]

Perciò miei cari amici; ansiosi ricercatori di “trascendenza” – così di quella delle religioni rivelate come delle illuministiche, anch'esse e a lor modo non pensate ma rivelate, mi vorranno perdonare se non mi unisco al loro coro e mi tengo stretto alla virtù che “immane” in noi e mi serbo assoluto immanentista. Può darsi che in questa virtù si possegga un Dio che ci dirige e ci comanda, un Dio che s'invoca dal fondo del cuore intensamente e che è più soccorrevole all’uomo del Dio o dell'idea trascendente. » (Agli amici che cercano il trascendente, 1945)

 

E tuttavia Croce stesso non pare sottrarsi del tutto a questo sodalizio – come ad esempio in certo modo gli rimproverava Giovanni Gentile – allorché dava l’impressione che esistesse qualcosa (come le sensazioni, la natura e l’animalità, gli impulsi, l’arbitrio del puro desiderare etc.) che possa precedere o eccedere non soltanto l’atto logico e giudicante del pensamento filosofico (questo sicuramente), ma addirittura lo stesso circolo spirituale nella sua interezza tetrarchica. Si tratta di una sorta di “fede nella vita”, nella “vitalità cruda e verde”, che è quell'imprevedibile magma che assicura allo spirito e alle sue forme porzioni di realtà sempre nuove e mai fisse, garantendogli che la sua sia vera e propria attività, libera perché non rinchiusa nelle torri eburnee del razionalismo astratto del XVIII secolo.

 

Ma è una Libertà che, trascendendo in qualche modo la storia stessa, sembra comunque venire dal di fuori, e perciò rovesciarsi nel suo contrario. Per questo Postorino osserva che nella sua “filosofia delle quattro parole” (così l’apostrofava sprezzantemente Gentile), fosse pure nel più “vicino” spazio dell’immanenza, si ripropone quella vertigine formalistica che Croce stesso riteneva avesse caratterizzato le stagioni pre-moderne non ancora venute a contatto con le “scienze mondane” dell’estetica e della politica; e che per questo faceva violenza al senso, all’utile, all’individuale, alla concreta prassi dell’uomo in carne ed ossa. Sì, c’è spazio per tutto questo nella filosofia crociana, ma profilandosi essa come una vera e propria eventologia, in cui la Libertà è “intransigente” e “assoluta”, più «non importa il contenuto, non importa se una dittatura politica venga sostituita da un’altra o da un assetto più o meno democratico. Il fascismo, ad esempio, presenterebbe un religioso rinvigorimento della Libertà, anche se un’amara sconfitta della morale» (p. 29). E allora lo storicismo crociano dei distinti imploderebbe nell’invalicabile trascendentalità dell’opera/accadimento; «strizza l’occhio all’evento asettico dell’Essere (Heidegger) e allo Scheitern (Jaspers)», addirittura «scivola nell’innocenza irresponsabile del nichilismo, e l’opera spirituale, enunciata con afflato idealistico da Croce, si de-spiritualizza nell’alveare del nulla» (p. 19).

 

Nel ripercorrere e rileggere alla luce del concetto di Libertà le quattro distinte dimensioni dello spirito crociano (estetica; logica; economia e politica; morale), le principali aporie Postorino le rinviene giustamente in quel misticismo oggettivo dell’accadere che confonde anche l’interprete idealista più scafato, il quale per quanto si sforzi di “far quadrare i conti” non riesce se non a vedere uno strascico naturalistico ad esempio nell’idea per cui l’intuizione artistica è quel materiale non già elaborato – perciò gentilianamente già pensato – dall’individuo-artista che realizza l’opera, ma piuttosto il farsi dell’opera stessa attraverso l’affaticarsi lirico che mette a disposizione le ingenue immagini su cui dovrà concentrarsi lo smaliziato giudizio dello storico. E, ancora, in questo punto, come contraltare, la riduzione sistematica della filosofia a mero «momento metodologico della Storiografia» (p. 59) fa sentire in lontananza odore di soggettivismo relativistico e della sua deriva storiografista (“gariniana”, per esempio).

 

L’opera di Postorino si muove per endiadi; e se la prima parte del volume è interessata a far emergere la diacronia tra “l’atto di fede liberale” e l’autentica fluidità della storia – cioè, tra la religione della libertàSollen involontario» di Croce, p. 25) e la dinamicità storica dello spirito – la seconda fa lo stesso coi concetti di liberalismo/democrazia e giustizia/eguaglianza: per ciascun binomio, il secondo termine è agli occhi di Croce affetto dall’astrattezza dello pseudoconcetto, e ne consegue che presa di per sé la democrazia, diversamente dal liberalismo, attende a un progetto irrealizzabile di “aggiustamento del mondo” alle cui illusioni giovanilistiche non cede il pensiero virile, che invece vuol limitarsi a comprenderlo e, in tale comprensione, a incontrare le traiettorie dell’accadimento storico. L’ideale democratico di eguaglianza si rivela a tal ragione parimenti infantile, in quanto mira ad applicare un’astrazione matematica (perciò pseudoconcettuale) all’irreprensibile concretezza della storia, e così il suo desiderio di sopprimere le differenze sarà per sempre destinato a fallire miseramente di fronte alla natura “liberalmente aristocratica” del Reale: l’unica uguaglianza possibile è quella “minimale” dell’esser uomini; dopo di che si danno solo differenze, e a deciderle non può essere che l’eventologia dell’accadere.

 

 

Esiliato a Parigi, Rosselli fu amico di Croce e dette vita al movimento"Giustizia e Libertà". Venne assassinato nel 1937
Esiliato a Parigi, Rosselli fu amico di Croce e dette vita al movimento"Giustizia e Libertà". Venne assassinato nel 1937

Su questi aspetti si consuma l’incontro-scontro con gli autorevoli membri del Partito d’Azione, alcuni dei quali già crociani, e dei rappresentanti della corrente liberalsocialista che in esso confluirono: Gobetti; Calamandrei; Calogero; De Ruggiero; Bobbio; Capitini. La terza parte del lavoro costituisce pertanto, sotto l’ascendente “difficile” di Croce, una pregiata pagina di storia delle idee politiche italiane.

 

Il vero e proprio principium discordiae tra Don Benedetto e i protagonisti di questa nuova generazione di antifascisti che credevano nel sinolo indissolubile di “Giustizia e Libertà” per cui di fatto Carlo Rosselli sacrificò la vita, può a parer nostro riassumersi in ciò che Croce per primo percepiva come tale, allorché ammettendo qualche limite – sia pur indispensabile – dichiarava:

 

« Il liberalismo ha la sua forza e la sua debolezza nel suo procedere cauto, che tende a farsi timido; il democratismo, per contrario, nel suo radicalismo e semplicismo, che tende a sostituire alla qualità, la quantità, all’effettualità della libertà la sua parvenza formalistica, e che, spingendosi all’estremo, senza volerlo, provoca e agevola l’intervento delle risoluzioni autoritarie, da esso aborrite in principio. » (Liberalismo e democrazia, 1943).

 

La natura, per così dire, “metapolitica” del Partito Liberale di Croce è perciò additata da Postorino come la principale causa della sua inerzia metodologica, che lo porta ad essere quasi un pre-partito, con «il dovere di rammentare a se stesso, e soprattutto agli altri, il richiamo al buon senso […] privo di contenuti perché questi ultimi possono scaturire solo dall’imprevedibilità del Reale – l’accadimento» (pp. 102-103). Ne risulterebbe così una prassi svuotata dell’anelito “oltremondano” proprio del dover-essere di kantiana memoria, incapace di portare sul piano formale della Libertà precise istanze volte alla realizzazione della giustizia economica: da ultimo un liberalismo conservatore, come lo etichettava Calogero nel Manifesto del liberalsocialismo del 1940. Ma – credo che osserverebbe Postorino – un conservatorismo ch’è tale non perché reazionario, bensì perché assume come irriflesso “tu devi!” l’imperativo categorico dell’accadere – un corto circuito.

 

Il nome di Guido Calogero, teorico del liberalsocialismo, è rimasto legato soprattutto alla sua "Filosofia del dialogo" (1962) che presenta alcune importanti analogie con il pensiero di Emmanuel Levinas
Il nome di Guido Calogero, teorico del liberalsocialismo, è rimasto legato soprattutto alla sua "Filosofia del dialogo" (1962) che presenta alcune importanti analogie con il pensiero di Emmanuel Levinas

Il capitolo dedicato a Guido Calogero, originale allievo di Gentile il cui pensiero ha rappresentato, assieme a quello di Ugo Spirito, la deflagrazione problematicista e potenzialmente debolista dell’idealismo attuale è uno dei momenti più interessanti di tutto il libro: mettendo il risalto in che senso il dialogo costituisca per il pensatore capitolino il fondamento postremo di ogni infondatezza, Postorino aiuta a capire che forse, prima ancora che empiricamente politica, la distanza tra i due “liberalismi” fosse soprattutto logico-epistemologica; e perché per Croce la filosofia di Calogero fosse da considerarsi “fiacca sul piano speculativo” (p. 114). Sarebbe stato d’accordo con lui un altro grande filosofo italiano, Gustavo Bontadini, che avrebbe visto in questa preconcetta secondarietà del logo rispetto al dialogo (in tal modo inconsciamente elevato a Principio) una forma contraddittoria di problematicismo trascendentale, che si toglie nell’atto stesso del suo porsi. In queste due macro-tendenze affiora forse il doppio volto assunto dalla filosofia italiana nella sua fase postbellica (fino ad allora caratterizzata da una “ostinata” e per certi versi “contraria” epistemicità).

 

Quest'opera è anche all'estero considerata un capolavoro di storia delle idee politiche
Quest'opera è anche all'estero considerata un capolavoro di storia delle idee politiche

Per ragioni simili, altrettanto interessante è il capitolo dedicato a un altro gentiliano eterodosso, Guido De Ruggiero, futuro azionista e Ministro della Pubblica Istruzione durante il governo Bonomi, per il quale l’ignavia pratica della filosofia politica crociana veniva sconfitta ab origine dall’attualismo del Maestro, perché risolvendo senza residui tutto il reale nell’agire dello spirito non v’era più spazio per la neutralità passiva dell’accadimento. Al No di Croce alla guerra egli contrapponeva perciò un deciso interventismo. Nelle fasi più mature del suo percorso, in opere come Il ritorno alla Ragione (di cui proprio recentemente Postorino ha curato una nuova edizione con Francesco Mancuso per Rubettino) allontanandosi tanto da Croce quanto da Gentile, de Ruggiero finisce con l’imparentarli nella comune impossibilità per il loro spiritualismo di «aderire in modo critico ai molteplici contenuti d’esperienza» (p. 132), azzerando la distinzione in una omogeneità indefinita e data già per scontata. Piuttosto, quella dell’uomo è una tensione mai definitivamente appagata a spiritualizzare il reale, l’indissipabile desiderio della situazione storica di coincidere con l’assolutezza della ragione: si riaffaccia sulla scena la raison sognatrice di nuovi mondi di là da venire, che adombra i redivivi dualismi dell’imminente stagione neoilluministica. E, contro la fagocitazione dello storicismo, Postorino accoglie con favore questo ritorno a suo dire poco valorizzato: «Se tutto è spirito non si riesce neppure a sentire lo slancio spirituale che intercorre tra le infinite riproposizioni del momento intuitivo e i passaggi salienti, ma ancora imperfetti, che lo alimentano» (p. 139).

 

Resta un dubbio, però, che in qualche modo mi riporta a un dialogo già cominciato più di un anno fa con l’autore di Croce e l’ansia di un’altra città: se il Sollen da una parte sembra essere lo squarcio dell’inaspettato, una liberazione sempre da (ri)conquistare che oltrepassa qualunque visione “religiosa” e aprioristica della Libertà; dall’altro, però, (come Croce non del tutto erroneamente riteneva) nella prassi ciò spesso si traduce in un’azione che tenta di porre in essere un ordine già presupposto, o quantomeno sottraentesi al sorvegliamento spirituale; non disponibile cioè ad attendere pazientemente che il faticoso e lungo lavoro del concetto porti a compimento quel che altrimenti non potrebbe avvenire mai, se non a patto di prestare il fianco a soluzioni frettolose e illiberali. È sì vero che «la notte del postmoderno, che oggi ci invade, può essere respinta se non si smette di prestare attenzione alla luce trascendentale del ‘mattino’ dipinta con enfasi religiosa da Capitini» (p. 19), ma mi pare che una delle forme più pericolose di oscurantismo postmoderno sia oggi da rinvenirsi esattamente nel presunto scarto tra Sein e Sollen, ragion per cui ci si sente piantati già nell’assoluta disperazione dell’inattingibilità di una qualche assolutezza valoriale (quali che siano poi questi valori). Ciò che dev’essere come ciò che è al di là della nostra portata, perché sempre dietro l'angolo eppure mai davvero qui. Ma intanto, dovendo pur viversi la vita, si vive un po’ come si può, e nelle situazioni di emergenza ci si richiama a principi irrazionali, o non discussi, o assunti senza pretese veritative di sorta, solo contingenti e relativi alla particolare urgenza del momento. È proprio allora che irrompe l’autoritarismo: la ragione della forza, come spesso si suol dire. Non è proprio quello che abbiamo davanti agli occhi in questo frangente? Ma Croce è vivo nelle nostre menti a rammentarci che la libertà è questa: 

 

« un’eterna via docendi et agendi, e non una cosa particolare, un metodo di soluzione dei problemi economici, e non già uno o l’altro dei problemi particolari risoluti o da risolvere. » (Ancora sulla teoria della libertà, 1943)

 

Forse è vero che Croce non seppe calibrare al meglio la convertibilità di Sein e Sollen, di “reale” e “ideale”, di factum e verum, ma quel che ci ha lasciato in eredità sembra essere proprio questa insolente capacità dell’idealismo di osare a trovare una sintesi tra l’apparente “frazione” in cui a tutta prima ci sembra di muoverci. Anzi a capire che la sintesi c’è già, ben prima di qualsivoglia frattura, ed è lì che ci aspetta. Sta a noi “incontrarla”. Forse, allora, più che abbandonare lui e Gentile, dovremmo provare a rigorizzare il tesoro speculativo che ci hanno lasciato. Ma Francesco Postorino sa bene che non è la via dell'abbandono quella da percorrere, e infatti negli ultimi mesi ha scritto un altro volume, intitolato L'altro Croce, che ci invita a nuove verifiche e nuove discussioni.

 

7 dicembre 2018 

 








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