La lacerante bellezza del contraddittorio

 

Nel momento in cui veniamo messi davanti a ciò che non siamo, o meglio ciò che siamo e non dovremmo essere, lì avvengono il miglioramento e l’unione con il diverso.

 

Nel nostro vivere, nel rapportarci con l’altro, nel porci degli obiettivi non ci bastiamo mai: facciamo sempre fatica ad accontentarci della situazione presente e siamo sempre alla ricerca del miglioramento. Il fatto di non essere mai soddisfatti di ciò che si è, da un lato comporta un sentimento di lacerazione verso la propria persona, dall’altro rappresenta una motivazione per cambiare la situazione presente, una spinta a ricercare ciò che ci potrebbe realizzare in modo più efficace. 

 

Il momento di crescita avviene quando ci rapportiamo con ciò che è diverso da noi: facendo esperienza dell’altro, dell’opposto, del contraddittorio abbiamo la possibilità di confrontarci con noi stessi. Il messaggio che giunge da fuori muove qualcosa dentro di noi e all’improvviso entra a far parte di ciò che siamo. Questo è possibile solo ammettendo che tra il fuori e il dentro non ci sia un’effettiva separazione, ma che le due parti siano collegate ed in continua interazione. Nell’altro facciamo esperienza del diverso ‒ cioè di qualcosa che non tenevamo in considerazione ‒ per poi riportarlo all’interno di noi stessi e confrontarlo con quello che siamo: solo dall’unione derivata da un confronto, che è stato in prima istanza uno scontro violento, ci può essere quindi un miglioramento. Sembra, dunque, che il dolore sia un elemento tanto struggente, quanto inevitabile per la nostra crescita: nel momento in cui veniamo messi davanti a ciò che non siamo, o meglio ciò che siamo e non dovremmo essere, lì avviene il miglioramento e l’unione con il diverso.

 

E. Munch, "Evening melancholy" (1891)
E. Munch, "Evening melancholy" (1891)

 

« Negli altri conosciamo la diversità dello spirito, in noi la sua unità. Ma è nella nostra diversità che scopriamo la diversità degli altri, ed è nell’unità degli altri che scopriamo la nostra unità. » (Nicolás Gómez Dávila, Notas)

 

Facendo esperienza del contraddittorio ‒ rappresentato dall’altro ‒, esperiamo la contraddittorietà che è all’interno di noi stessi; gli atteggiamenti che mettiamo in atto vengono così sottoposti ad una feroce critica e revisione per cercare di tenere presente più relazioni possibili e non isolare parti che potrebbero risultare importanti. È possibile scoprire la contraddittorietà dei nostri atteggiamenti solo tenendo conto della diversità che vediamo palesarsi negli altri: si crea così uno scontro tra ciò che siamo e ciò che l’altro è. Questa è la parte negativa della medaglia, la parte che lacera di più il nostro animo, la parte in cui vediamo ciò che non siamo e vorremmo essere, la parte in cui vediamo ciò che gli altri non sono e vorremmo che fossero. C’è però anche l’altro lato, quello positivo, che consiste nell’esperienza di unione che facciamo ogni volta che ci scontriamo con il diverso, con il contraddittorio. Per individuare gli elementi di diversità è necessario isolarli rispetto all’unità da cui si differenziano e quest’unità è ciò che dà più significato alle cose, è la parte più pura di esse, costituisce la loro essenza. Facendo così esperienza del contraddittorio, e quindi del dolore che esso provoca, non possiamo che esperire anche la bellezza di ciò che tutto racchiude e di ciò che ha veramente significato.

 

« Lo spirito critico rifiuta qualsiasi determinazione ed aspira a raggiungere, al di là dell’universo frammentario e spezzato, l’unità in cui si generano le apparenze molteplici. » (Ibidem)

 

Viene così da pensare che le verità di cui siamo portatori non siano incontrovertibili, ma siano il risultato di ciò che siamo in quel determinato momento, sempre in attesa di un contraddittorio che le possa far crescere e mettere davanti a porzioni più ampie di realtà. È nostro dovere dunque essere predisposti a ricevere un contraddittorio e non essere presuntuosi nel pensare di avere la verità in tasca, anche se apparentemente potrebbe sembrare la tesi più inconfutabile mai prodotta. Certo è vero che ‒ come sostiene il filosofo colombiano ‒ quando pensiamo una cosa è perché riteniamo sia la cosa migliore che abbiamo concepito e quindi all’interno di noi brilla di una luce particolare che la fa sembrare di per sé inconfutabile. Il segreto sta nel mediare tra l’uno e l’altro atteggiamento: avendo sicuramente un’ottima considerazione di ciò che si pensa, in quanto è ciò che di meglio siamo riusciti a produrre con il nostro lavoro, ma allo stesso tempo restando sempre umili nell’attesa di essere contraddetti.

 

Nicolás Gómez Dávila
Nicolás Gómez Dávila

 

 

« È terribile pensare che molte delle nostre cosiddette verità esistono solo perché siamo incapaci di quelle verità che le confuterebbero. Qualsiasi verità, tuttavia, possiede la sua propria luce ed è inconfutabile entro il suo proprio perimetro. » (Ibidem)

 

La retorica presente del “sii te stesso”, “sei una meraviglia così come sei”, “vai bene così, non devi cambiare” è qualcosa di inesatto e pericoloso. Questi ragionamenti ci isolano dall’altro, non ci fanno crescere e fanno passare per buona la situazione presente, anche se estremamente contraddittoria. È esattamente l’opposto dell’interpretazione che la tradizione greca ha dato alla massima iscritta nel tempio di Apollo a Delfi “Conosci te stesso”. Socrate e Platone, ad esempio, la conoscenza di se stessi l’hanno sempre vista nel rapporto dialettico con l’altro ‒ esaltando il valore della confutazione e del dialogo ‒ non nella sterile realtà dell’esaltazione della propria persona. La fatica del concetto, nel passaggio attraverso il contraddittorio, ha caratterizzato l’età classica; probabilmente oggi ci siamo dimenticati il valore di tale dinamica, preferendo l’isolamento che una visione relativista-nichilista può dare.

 

17 giugno 2018

 




  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica