Uno sguardo sul meccanismo europeo di stabilità (M.E.S.)

 

Un istituto, quello del M.E.S., che sarà in controtendenza rispetto alle solite politiche, oppure si tratta di un potenziamento delle stesse? 

 

di Nan Ni

 

A. Rodin, "I borghesi di Calais"
A. Rodin, "I borghesi di Calais"

 

Confesso che non mi ero ancora informato con attenzione su questo famigerato E.S.M – European Stability Mechanism, meglio noto da noi come M.E.S. – essendo d'altronde parte della classe lavoratrice e non intellettuale, mi è meno agevole che ad altri di assolvere al dovere di avere una comprensione chiara della mia condizione e degli eventi in modo da potermi condurre adeguatamente senza fare danno ai miei stessi interessi, e non mi era affatto chiaro con quale tipo di fattore abbiamo a che fare. 

Il cosidetto M.E.S. infatti non è un protocollo di intesa tra stati, né un accordo multilaterale siglato da governi nell’ambito delle istituzioni politiche dell’Unione Europea, né alcun tipo di trattato, ma un’organizzazione finanziaria internazionale, del tutto analoga al Fondo Monetario Internazionale.

La sua governance è nominata, non eletta, e di esso fanno parte anche i ministri economici dei Paesi che aderiscono a questa organizzazione, i quali non coincidono con quelli che fanno parte della U.E. e che stanno ratificando in questi mesi il loro ingresso tra coloro che potranno avere accesso ai programmi di “risanamento” che essa proporrà loro in caso di necessità.

Sul suo sito ufficiale, questa organizzazione presenta la sua attività, affrettandosi ad informarci che «l’ESM presta centinaia di miliardi di euro ai paesi di programma. Ma questo non costa ai contribuenti alcuna somma, perché l’ESM ottiene il denaro di cui ha bisogno sui mercati finanziari», vale a dire operando transazioni sostanzialmente speculative, e «una volta che il denaro è nei nostri conti, il team di prestito lo passa ai paesi di programma come la Grecia», intervento che un’altra pagina del sito ci informa avere avuto «successo».

Non è infatti finanziando la propria attività speculativa per fornire prestiti a stati in difficoltà, ai quali cioè non è disponibile altra linea di azione, che la ricchezza verrà estratta dal paese bersaglio: questo screditerebbe questa organizzazione su tutta la linea. Tuttavia, da una parte, il denaro concesso dal M.E.S. non è che un prestito, il quale ha tempo debito, dovrà essere ripagato con gli interessi. Chi ripagherà questo debito? Lo stato in questione ovviamente. E come lo ripagherà? Attingendo dalle sue entrate, le quali, per uno stato che adotti il sistema capitalista di produzione, si riducono agli introiti derivati dalle imposte, dirette ed indirette.

E qui, come si dice, casca l’asino. Queste condizioni infatti «sono usualmente riforme specifiche, che possano eliminare o ridurre la debolezza nell’economia del paese beneficiario (sic). Queste riforme si focalizzano normalmente su tre aree: 1) Consolidamento fiscale – misure per tagliare la spesa governativa, riducendo i costi dell’amministrazione e migliorando la sua efficienza, e per incrementare le entrate per mezzo di privatizzazione o riforma fiscale; 2) Riforme strutturali – misure per aumentare la crescita potenziale, creare lavoro, e migliorare la competitività; 3) Riforme del settore finanziario – misure per rafforzare la supervisione bancaria o ricapitalizzare banche.»

Chi ha seguito lo sviluppo e le dinamiche che hanno dominato l’economia negli ultimi venticinque-trenta anni ha ben presente questo tipo di «misure», e ha imparato a conoscerle con il nome tristemente noto di “Washington consensus”, ma che avendo qualche variazione tecnica potrebbe essere detto “Bruxelles consensus”.

Ci sono tutti e tre gli elementi chiave: 1) stabilizzazione, in questo caso non della moneta, poiché tutti questi paesi debbono fare parte dell’area Euro, ma dell’economia intera come «consolidamento»; 2) liberalizzazione, nelle «riforme strutturali» per «migliorare la competitività», e 3) privatizzazione, misura che è esplicitamente nominata.

Quali siano i risultati a «lungo-termine» di tali condizioni è ben noto: il sempre maggiore aumento dell’ineguaglianza nella distribuzione della ricchezza, e la sempre maggiore concentrazione di denaro e potere nelle mani di un numero assai ristretto di individui che consistono di non più dell’1% della popolazione, esplosione della disoccupazione “sistemica”, abbassamento generale dei salari e delle condizioni di vita in un paese, diminuzione drastica dei servizi essenziali e tendenza demografica al ribasso sia nelle nascite, che nella aspettativa di vita. I casi dimostrativi di tutto ciò sono talmente tanti che non vale quasi la pena nominarne alcuno, come tutti i paesi dell’ex-Jugoslavia, la stessa Grecia, la Spagna, per limitarci al sub-continente europeo, regione del mondo dove «riforme strutturali» di questo genere hanno relativamente compiuto meno disastri che altrove.

Ma questo non è tutto. Poiché, sebbene il M.E.S. si presenti come una entità strettamente economica, regolata da un «board of governors» in cui sono presenti i Ministri economici dei paesi membri, essa ha anche una sua propria agenda politica. Questo non è ovviamente pubblicizzato in modo trasparente, e la ragione è più che ovvia. Tuttavia, sempre sul loro sito, è possibile trovare il testo di un discorso pronunciato il 15 novembre u.s. dal “managing director” di M.E.S. Klaus Regling – che proprio qualche giorno fa su ilSole-24ore ci informava che c’è non c’è da preoccuparsi per questa riforma… – alla Annual Research Conference del Directorate-General for Economic and Financial affairs (DG ECFIN), in un panel intitolato Il ruolo dell’Europa nella mutevole economia globale che non ha ricevuto, mi pare, la benché minima attenzione ma che mi appare di non poco interesse. È molto breve quindi lo riporterò per intero:

 

« Buon pomeriggio e grazie per l’invito. È sempre bello essere a Brussels, specialmente qui al Charlemagne dove ho passato molto tempo quando lavoravo in DG ECFIN nell’ultima decade.

Laurence [Boone – OECD] ha illustrato le prospettive per l’economia e Philip [Lane – BCE] ha parlato del mix di politica macroecomica e del ruolo dell’euro. Ascoltandoli, sembra che non ci aspettino tempi più facili.

Lasciatemi fare alcune osservazioni su dove io vedo le sfida a lungo termine per l’Europa. Incomincerò con quattro osservazioni: primo, è molto improbabile che vedremo incrementi nel welfare nei prossimi 20-30 anni, nella UE e in altre economie avanzate, comparabili agli incrementi medi degli ultimi 50 anni. L’ineguaglianza di reddito e benessere, che è stata discussa questa mattina, potrebbe ben diventare una questione dominante in molti paesi – specialmente perché la crescita annuale media rimarrà moderata. Terzo, ci sarà una crisi finanziaria in un certo momento del futuro, una che ci coglierà di sorpresa – altrimenti non sarebbe una “crisi reale”, se l’avessimo prevista. E infine, la dimensione relativa dell’area euro nel mondo diminuirà continuamente. Come porzione del PIL mondiale: era quasi il 22% del PIL mondiale nel 1970, è nel 2019 circa il 13%, sarà appena sopra il 6% nel 2050.

Così, questo che significa? Come dovremmo reagire? La mia “ricetta” personale consiste di due parti: primo, rafforzare la cooperazione multilaterale laddove possiamo. Nella UE, pratichiamo la cooperazione multilaterale ogni giorno. Non è facile, ma sappiamo come farlo e funziona. È un bene per lo sviluppo economico e per la pace. Il resto del mondo ammira l’Europa per questo. Su tutti i continenti ci sono tentativi di copiarci a questo riguardo. Dall’ASEAN all’Unione Africana al Mercosur.

Dovremmo supportare questi tentativi su altri continenti e, ancor più importante, dovremmo usare le organizzazioni internazionali che abbiamo: la Bank of International Settlements (BIS) è un buon esempio di come la cooperazione tra banche centrali funzioni bene – il ESM ha firmato un Memorandum of Understanding con la BIS appena due settimane fa; riformare la World Trade Organisation (WTO); rafforzare il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la sua governance attraverso una riforma delle quote e offrendo un solo seggio per l’area euro nella sua interezza. Infine, le RFA sono diventate una parte importante della Rete di Sicurezza Finanziaria Globale (GFSN). Insieme esse hanno più potenza di fuoco del FMI. c’è una buona cooperazione tra loro e con il FMI. Questo è importante laddove un’altra crisi colpisca nel futuro.

Secondo, l’Europa deva avere più voce in capitolo nel mondo. Come possiamo farlo? Facendo ulteriori passi verso l’unione fiscale e politica, dove necessario. Non diventeremo gli Stati Uniti d’Europa. Comunque, approfondendo l’Unione Economica e Monetaria (EMU) attraverso il completamento dell’unione bancaria, e una Unione dei Mercati del Capitale (CMU), creando uno Schema di Assicurazione Depositi Europeo (EDIS), una capacità fiscale per la stabilizzazione macroeconomica, e in definitiva un’attività sicura.

Tutto questo prenderà tempo. Certe condizioni devono essere presenti. Ma è importante cominciare il processo ora ed essere d’accordo sull’obiettivo finale. Tutto questo migliorerà in modo assoluto il funzionamento della unione monetaria e aumenterà il ruolo internazionale dell’euro.

Per concludere: il peso relativo dell’Europa nella mutevole economia globale in definitiva diminuirà. Ma possiamo controbattere a questo processo – combinando le nostre forze, integrandoci di più in poche aree chiave, parlando con una voce e promuovendo il multilateralismo in un momento storico in cui gli Stati Uniti si stanno allontanando da esso. Grazie. »

 

 

Capolavoro di retorica formale invero, la trasparenza con cui le reali priorità delle agende di queste organizzazioni si mostra per una volta lampante. Il centro del suo discorso è la terza osservazione che l’egregio Regling fa, da cui dipendono le prime due, e che implica la quarta. Poiché «ci sarà una crisi finanziaria», una serie di paesi si troverà in difficoltà, e dovrà così accedere ai prestiti del M.E.S. di cui costui è «managing director», sottostando alle «condizioni strette» imposte dai suoi «programmi» di «riforme strutturali». Siccome queste comprendono «misure per tagliare la spesa governativa» e «privatizzazioni» non può sorprendere la previsione che il «welfare», cioè appunto la spesa sociale sostenuta dallo stato, non «incrementi» in modo accentuato, né che «l’ineguaglianza di reddito e benessere» diventi «una questione dominante», in tanto che esso è il risultato strutturale delle riforme che questa organizzazione propone alle sue vittime, o che la «crescita annuale media rimarrà moderata» in tanto che il bilancio dello Stato è una componente, e non minoritaria, sì che esso è il maggiore attore economico nel paese, nella determinazione del P.I.L. stesso.

Qua l’egregio Regling sta confermandoci che il sistema economico che egli sostiene e che aiuta a mantenere in piedi lavorando attivamente per la sua conservazione in organizzazioni come il M.E.S. produrrà nel suo funzionamento sempre maggiore ineguaglianza e disparità nei settori della società, in seguito a una «crisi» che gli appare come certa, per quanto imprevedibile, e dunque in ogni caso strutturale a questo stesso sistema.

Ma le parti più interessanti, come avrete già notato anche voi, sono altre in questa breve dichiarazione. Innanzitutto notate come l’ideologia liberale mantiene inalterati e compatti i caratteri che la ha contraddistinta per tutta la sua storia, come ideologia di supremazia della civiltà bianca, europea, e al limite anglosassone, su qualsiasi altra cultura e civiltà del mondo in ragione di una ipotetica superiorità nelle capacità intellettive e fisiche degli esseri umani di colore bianco.

Non può però sfuggire il mascheramento retorico, l’abile dissimulazione concettuale, evidentemente figlia di una genuina convinzione in questa prospettiva degenerata e corruttrice sulla filosofia della storia: «il resto del mondo ammira l’Europa», e non si ammira forse colui il quale è in grado di compiere ciò che non siamo in grado noi stessi di fare? E infatti, è all’Europa che il «resto del mondo» guarda, per costui, come a un modello, sì che «su tutti i continenti ci sono tentativi di copiar[la]» nella sua così sofisticata «cooperazione multilaterale» (sic).

Allo stesso tempo afferma che gli stati europei «non diventer[anno] gli Stati Uniti d’Europa», e cioè, sempre in accordo a quella ideologia, non mai si sottometteranno, cioè le classi dominanti di ciascun paese, all’autorità di alcuno che come organismo internazionale possa limitare in qualsiasi modo la “libertà individuale” di intraprendere attività economiche nel modo che più sembri loro appropriato, quello che i liberali vedono essenzialmente come “totalitarismo”, cioè laddove lo sfruttamento del lavoro e gli interessi degli investitori corporativi trans-nazionali vengono limitati o intaccati. Questo per loro sarebbe l’“assolutismo” che dispoticamente impedisce alla “comunità dei liberi” di perseguire, “liberamente” i loro interessi con qualsiasi mezzo ritengano opportuno: è su questa base che nel settecento, e ancora fino alla fine dell’ottocento, i liberali difendevano l’istituto della schiavitù, tentando di giustificarlo sulla base, appunto della presunta superiorità dell’uomo bianco su tutti gli altri, il quale aveva così diritto di disporre delle sue proprietà così come gli appariva più consono.

È evidente poi che questo carattere, di cui furono imbevuti innanzitutto i coloni ribelli che poi avrebbero fondato gli Stati Uniti d’America, si trova a fondamento delle relazioni tra questi ultimi e gli stati europei, e anche perciò delle tensioni che in queste relazioni sorgono: gli europei, così come dissero i coloni nel settecento «non vogli[ono] essere trattati come negri» (per la citazione vedi l’eccellente Controstoria del liberalismo di Domenico Losurdo) cioè come individui che essi vedevano come inferiori e che avevano bisogno di tutela e dispotismo per essere governati e prosperare.

 

Siccome poi gli U.S.A. hanno assunto su loro stessi, investendosene da sé, la missione a cui sono manifestamente destinati, che è quella di imporre una dittatura militare planetaria della propria classe capitalista, a cui tutti gli altri stati debbono forzosamente piegarsi, non dev’essere difficile vedere per quale ragione in Europa spesso gli Stati Uniti non siano ben visti, e ugualmente perché invece siano assai ben visti anche in Europa quando le questioni di politica estera si muovono verso altri continenti insieme ai contingenti N.A.T.O. che portano «il vessillo della democrazia sulle loro armi mortali» (M. Parenti, Inventing Reality, p. 183).

 

18 dicembre 2019

 









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