Oltre il capitalismo

 

Una sintetica panoramica dei fallimentari anticapitalismi "di pancia".

 

L’anticapitalismo di questi tempi è un po’ sulla bocca di tutti; v’è chi scava un po’ più in profondità di qualcun altro, munendosi di dati e di tabelle Oxfam, FAO, ONU e qualsivoglia altra organizzazione in grado di fornire un quadro sintetico delle disuguaglianze e delle problematiche legate al clima e allo sfruttamento, delle differenze che intercorrono tra Paesi industrializzati e quelli arretrati, ex coloniali, e tutt’ora succubi delle potenze più “avanzate”. Ma quel che in genere non si riesce a fare, una volta accordatisi sull’urgenza di prendere misure per arginare questi fenomeni, è il passo successivo, in grado di definire quale possa essere una soluzione effettiva, capace di combattere una volta per tutte quel male.

 

La radice dell’impotenza delle masse giace nella definizione fumosa di quel che il capitalismo incarna. Si criticano le grosse banche, le multinazionali, i grossi finanziatori senza scrupoli che si lanciano negli affari più loschi, e tutto si arena in questa analisi superficiale. Così, tendenzialmente vi sono due direzioni intraprese, anche se legate da un comun denominatore che le rende parimenti inefficaci. A sinistra si auspica una decrescita, un ritorno a tempi più felici, magari quelli segnati da uno stato sociale un poco più consistente, mentre a destra si finisce in un richiamo alla “sovranità”. Quest'ultima è la meta agognata da tutti coloro che vorrebbero un ritorno allo Stato nazionale con un’economia e una politica governate e stabilite da questo e non da organi sovranazionali e poteri "esterni" che ne influenzino le decisioni; il sovranismo, almeno a parole, vorrebbe aiutare quelli strati medi o medio-bassi della popolazione, asfissiati dal liberismo più sfrenato. E sarà evidente che, in ambito strettamente economico, questa proposta non si distacca realmente da quella socialdemocratica: anch’essa, di fatto, auspica un “calmiere” del capitale, di modo che siano possibili delle riforme un po’ più popolari. Entrambe le misure vengono ad essere una sorta di compromesso fra le esigenze dei più poveri e quelle dei più ricchi. La differenza fra le parti abita in qualche sfumatura di carattere civile, ma di principio non è così abissale come entrambi gli schieramenti sono portati a credere. E non sono neppure proposte innovative: già a cavallo fra Otto-Novecento vi erano quelle analoghe «idealizzazioni» del capitalismo “minuto” e locale, accompagnate dal motto decrescitista. «Non v’è il minimo dubbio che tanto il romanticismo quanto il populismo celebrano l’apoteosi della piccola azienda contadina», spiegava Lenin ne Il romanticismo economico, ma nessuno di costoro padroneggia il leitmotiv capitalista né comprende come esso sia stato un progresso rispetto al sistema più “feudale” e arretrato che la piccola produzione sosteneva. Checché se ne dica, il grosso capitale ha portato con sé le sue fortune: «Solo un utopista che escogita piani fantastici per estendere le associazioni medievali a tutta la società può ignorare che appunto l’“instabilità” del capitalismo è un potente fattore di progresso, il quale accelera lo sviluppo della società, attrae sempre più le masse della popolazione nella vita sociale, costringendole a riflettere sull’ordinamento di questa vita, e a “forgiare la propria felicità”» (ivi). La “decrescita”, quale che sia il senso in cui la si declina, non può essere una parola d’ordine accettabile ma solo un arretramento che non ha nulla a che vedere con il superamento del capitalismo; essa è una critica al capitalismo fatta “di pancia” – «sentimentale», per dirla con le parole del rivoluzionario russo. 

 

« Abbiamo visto come il romanticismo francese e quello russo trasformino parimenti la piccola produzione in “organizzazione sociale”, in “forma di produzione”, contrapponendola al capitalismo. Abbiamo visto inoltre che questa contrapposizione non contiene altro se non una concezione estremamente superficiale, che essa isola in modo artificiale e sbagliato una forma dell’economia mercantile (il grande capitale industriale) e la condanna, mentre idealizza utopisticamente un’altra forma della stessa economia mercantile (la piccola produzione). » (ivi)

 

Dunque, volendo pervenire a una definizione corretta del capitalismo, per potere in seguito trovare la giusta via per “abbatterlo” una volta per tutte, da dove cominciare? Nulla di più semplice di chiamare in causa colui che per primo riuscì a decifrare i meccanismi capitalisti: Carlo Marx. Egli ci insegna che nel periodo storico in cui viviamo vi sono di fatto due classi sulla scena politica: quella proletaria e quella borghese. Con faciloneria si ribatte che non vi sono solo quelle e che in realtà esistono molte sfumature e molti gradi di ricchezza a riempire i nostri sistemi democratici, e che dopotutto non sono più così tanti i cosiddetti proletari. Obiezione, questa, che nasce da una mala comprensione del pensiero marxiano (in uno dei suoi punti, perché gli equivoci sono molti), e che non comprende che discernendo le due “fazioni” egli intendeva semplicemente distinguere coloro che detengono i mezzi di produzione da chi ne dipende, perché non li possiede. Si faccia pure il censimento e la conta dei gradi di ricchezza della popolazione e dei settori produttivi sviluppatisi prevalentemente durante gli ultimi decenni, ma, infine, non si potrà trovare che l’elenco dei membri appartenenti a questi due poli all’interno di ogni Stato esistente. La classe padronale è colei che sola si abbuffa dei risultati conseguiti dall’altra classe, poiché la produzione della ricchezza avviene per mezzo del lavoro umano. In che modo? Il plusvalore, che con le dovute sottrazioni (del capitale costante) diviene il profitto, è la differenza fra il costo del mantenimento della forza-lavoro (salario) e quello del valore prodotto dalla forza-lavoro (valore prodotto dal lavoratore). 

 

 

Prendiamo in esame il noto esempio di Marx. Poniamo in ipotesi che un operaio sia pagato tre scellini al giorno. Questi tre scellini non sono arbitrari, ma sono calcolati in base al valore medio indispensabile affinché questi possa provvedere ai suoi bisogni primari (sfamarsi, fare figli, etc.), sicché «il valore della forza-lavoro è determinato dal valore degli oggetti d’uso corrente che sono necessari per produrla, svilupparla, conservarla e perpetrarla» (Marx, Salario, prezzo e profitto). Supponiamo che per pagare questa forza-lavoro giornaliera occorrano sei ore di lavoro, che cioè ci vogliano sei ore per ragguagliare, attraverso il lavoro, quel valore della forza-lavoro. «Se egli lavora sei ore al giorno, egli aggiunge al cotone [nel caso di un filatore] un valore di tre scellini al giorno», e però in questo caso non vi sarebbe plusvalore alcuno, e quanto sborsato dal capitalista non rientrerebbe con alcun interesse, finendo per non giovare in alcun modo alle sue tasche. Il capitalista tuttavia non ha acquistato il lavoro dell’operaio, ma la sua forza-lavoro; il che gli conferisce il pieno diritto di fare lavorare la sua forza-lavoro (il suo operaio) più di sei ore. Dunque accadrà che le ore di lavoro non saranno sei, ma otto, dieci, dodici. Sicché quelle ore di lavoro che non sono state necessarie a pareggiare il conto del mantenimento giornaliero della forza-lavoro, costituiranno il plusvalore, perché è come se fossero gratis. Se le ore diventano dodici, il plusvalore sarà di tre scellini. Il capitalista da ogni operaio, ogni giorno, seguendo questo schema, guadagna il valore di tre scellini.

Il saggio del plusvalore, allora, «dipenderà dalla misura in cui la giornata di lavoro verrà prolungata oltre il tempo durante il quale l’operaio per mezzo del suo lavoro riproduce unicamente il valore della sua forza-lavoro, cioè fornisce l’equivalente del suo salario» (ivi).

 

« Prendiamo, d’altra parte, il contadino servo della gleba quale esisteva, potremmo dire, ancora fino a ieri in tutta l’Europa orientale. Questo contadino lavorava, per esempio, tre giorni per sé nel campo suo proprio o attribuito a lui, e i tre giorni seguenti eseguiva il lavoro forzato e gratuito nel podere del suo signore. In questo caso il lavoro pagato e quello non pagato erano visibilmente separati, separati nel tempo e nello spazio, e i nostri liberali si sdegnavano, scandalizzati all’idea assurda di far lavorare un uomo per niente! » (ivi)

 

Ecco dove giace la “segreta” differenza di classe: fra chi può far profitto attraverso le quantità enormi di plusvalore, e chi deve soggiacere, volente o nolente, a quella logica. E si comprendono così le ragioni delle manovre odierne (le cui complessità e varietà abbisognano senz’altro di ulteriori approfondimenti), dalle delocalizzazioni all’accorpamento di piccole aziende in complessi più ampi, dalla corsa al ribasso e alla precarizzazione dei salari ai finanziamenti pubblici e alle esenzioni da tasse.

 

Il capitalismo, mascheratosi con l'ingenua richiesta della “libera concorrenza”, è propriamente la capacità per alcuni soggetti, di fare profitto a partire dallo sfruttamento del lavoro salariato, a qualsiasi branca economico-sociale esso appartenga. La libera concorrenza fu un progresso rispetto al mondo feudale per le ragioni addotte e per tutte le escrescenze infeconde entro cui la tradizione ingabbiava il commercio. Ma ora siamo giunti a comprendere che essa stessa si fa portatrice di una contraddizione da superare: pur ammettendo, per ipotesi, che il profitto sia cosa buona e giusta da fare, esso non potrebbe risultare una meta perseguita realmente da tutti, poiché la sua creazione abbisogna del meccanismo per cui vi deve essere chi lavora producendo plusvalore. Pertanto, tutte le sparate liberiste secondo cui “ciascuno può diventare ciò che vuole e fare soldi” è un’astrazione bella e buona, poiché se davvero tutti volessero abbandonare il salario per porsi a capo di un’azienda, non vi sarebbe profitto alcuno e morirebbe così ogni proposito di tal fatta. Il capitalismo è, per sua essenza, lo sfruttamento dei pochi sulla pelle dei molti.

 

H. Daumier, "Il vagone di terza classe"
H. Daumier, "Il vagone di terza classe"

 

In tal modo risulta chiaro come tutti quei palliativi che si tentano di apporre alle economie statali per porre freno ai capitali finanziari e ai monopoli legati fra loro (che costituiscono una fase avanzata del capitalismo: cfr. Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo) in vista di un capitalismo più piccolo e “umano”, fingono solo di arginare l’ingiustizia che questo sistema genera ogni giorno, limitandosi alla ricerca di un ingenuo compromesso che permetta comunque ai pochi di arricchirsi, ma un poco meno, e ai molti di sopportare con più energia le circostanze. Non spostano tuttavia di una virgola la necessità del superamento della contraddittoria logica del profitto, e del progresso che la storia reclama.

 

Basterebbe l’evidenza della contraddizione a fare accapponare la pelle, ma non contenti i riformisti di ogni sorta millantano la possibilità di mantenere il piede in due staffe. Di fatto, essi ricordano, vi sono stati dei periodi “speciali” in cui le due istanze, il profitto e il welfare, sono riusciti a coesistere in maniera abbastanza soddisfacente per salariati e capitalisti. Non si fa la fame per forza – tuonano costoro! Senza dubbio vi furono dei periodi più "spensierati" (che, in ogni caso, non garantivano benessere a chiunque), quando nel dopoguerra l’economia era meno sviluppata; quando l’Unione Sovietica incideva parecchio, e i partiti comunisti ad essa legati rispondevano a muso duro a ogni contrattacco dei padroni. Quando ancora l’Unione Europea forgiata dagli industriali doveva nascere, o era solo in progetto. Quando i popoli non erano ancora deviati dalla mentalità del consumo seguita al boom economico, e quando le ex colonie erano un mondo ancora in parte (solo in parte) inesplorato in cui impiantare le profonde radici del profitto. Il problema è proprio questo: possiamo (idealmente) radere al suolo tutto il grosso capitale monopolistico e finanziario, rimanendo coi più piccoli; ma il profitto è tale proprio perché permette l’arricchimento, e l’arricchimento sviluppa il capitale monopolistico e finanziario. Pertanto, anche compiendo un simile gesto, non ridurremmo l’ingiustizia, ma posticiperemmo l’avvento del suo volto più brutale. Inoltre, una tanto decantata economia mista non è garanzia di anticapitalismo – anche se capace di sviluppare un poco meglio il welfare rispetto alla maniera in cui è miseramente gestito oggi –, ma può dare vita alle cosiddette manovre di capitalismo di Stato (come accadde nei famosi anni in cui si stava bene!), volte a soggiogare miseramente altri popoli “arretrati”. Così, in quel caso, mentre noi ci appagheremmo della nuova auto comprata grazie all’abbassamento della bolletta del gas e del costo dei beni ortofrutticoli, milioni di uomini, che lavorerebbero per noi (per le aziende di Stato) a costo infimo nei posti più sperduti e dimenticati da Dio, farebbero la fame.

Se anche, volendo contemplare una lontanissima ipotesi, ciò non accadesse – se lo Stato non permettesse questo genere di sfruttamento a spese sue – accadrebbe con le imprese private, per le banche, per tutti gli istituti privati che egli ammette sul suo suolo. E se egli non permettesse loro di delocalizzare, di abbassare gli stipendi, di ottenere una qualche forma di flat tax, essi se ne andrebbero altrove o banalmente non sopravviverebbero perché abbisognano di tenere testa alla concorrenza che si attua al di fuori di quello Stato. E se così fosse – se cioè uno Stato a economia mista non attirasse più capitali a causa di tasse elevate e basso profitto – l’economia tutta ne risentirebbe, e vi sarebbero dei settori non coperti e carenti, la disoccupazione, la crisi, etc. Paradossalmente, le manovre liberiste odierne sono quelle più coerenti col principio del capitalismo e con il suo sostentamento, in continuo scontro con il welfare.

 

Qual è, ridotta all'osso, la proposta marxista? L’eliminazione delle classi, che solo qualcuno in malafede potrebbe pensare che per eliminazione si intenda “eliminazione fisica dei ricchi”. In realtà, quest’espressione, come quella che inneggia alla lotta di classe, porta con sé tutte le ragioni sino a qui addotte e ricorda come solo la messa fuorilegge del profitto potrà risolvere le crisi e tutte le impasse entro cui i tentativi di "placare" l'avidità, come propone la socialdemocrazia, si incatenano da sé. Questa è la ragione per cui si spiega che non v’è capitalismo buono e cattivo, e per cui si auspica non una sua riforma ma il suo superamento.

Va proposta una reale alternativa, affinché nessuno debba più pensare a sopravvivere, bensì si vada cercando sul serio “la propria felicità” e la “realizzazione personale”. Questo è il solo, vero, anticapitalismo ammissibile. 

 

4 febbraio 2019

 








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