A cosa serve la storia?

 

Se il richiamo alla storia avviene sempre, indipendentemente dalla nostra volontà, v’è un motivo per cui “affinare” questo procedimento mediante lo studio; lo possiamo vedere, per esempio, per la nostra formazione politica. 

 

Fra le molte cose reputate importanti e delle quali, poi, non sempre si sa dar ragione, v’è la questione dell’utilità della storia.

 

La domanda da porsi è inizialmente se “fare storia” per ciascuno sia un’opzione oppure una necessità. Leggendo il termine in senso lato, è abbastanza evidente che la “storia” sia un elemento costitutivo dell’esperienza stessa. Il fatto che si possa indicare ciò che ci accade ora, lascia implicitamente dedurre come in quell’istante si concepisca altresì che vi sia qualcosa che a una tale “contemporaneità” si oppone e relaziona, un prima e un dopo. Pertanto, prescindendo un attimo da quella storia intesa in senso empirico, come “studio accademico degli eventi storici”, è inevitabile concludere che ognuno di noi abbia costantemente a che vedere con la storia, e che non possa prenderne congedo. 

 

Questo fatto si riflette nella quotidianità. Possiamo ignorare le gesta di Carlo il Calvo, ma non facciamo che affidarci alla storia, sia pur quella minuta della nostra esistenza più prossima, per svolgere qualunque attività. Se ci accingiamo a premere un interruttore, lo facciamo perché abbiamo memoria di quanto accadde in passato, e cioè della conseguenza della pressione fatta sull’oggetto. A supporto di questo ricordo, ne abbiamo qualche altro che richiama qualche cognizione della fisica, e perciò sappiamo, con più o meno sicurezza e profondità, che la luce si accenderà per una serie di princìpi che abbiamo studiato. Allo stesso modo, per fare un altro esempio, richiamando alla memoria quanto abbiamo mangiato nei giorni precedenti, riusciamo a bilanciare i nutrienti della nostra dieta e così capire di cosa cibarsi oggi. Insomma, ogni giorno “studiamo storia” verificando tutti quei significati attinti da episodi passati, tanto quelli che reputiamo validi quanto quelli che ormai abbiamo sconfessato, e che valgono, anch’essi, sia pur negativamente, da monito per il presente e il futuro. 

 

Mosca, marzo 1917
Mosca, marzo 1917

 

Accertato quanto detto, ci riesce molto più agevole riuscire a determinare la ragione per cui sia decisamente importante lo studio della storia intesa, nel senso comune, come disciplina accademica. La differenza tra questa e la prima risiede unicamente nell’ampiezza degli interessi abbracciati. Fuoriusciti dalle “anguste” limitazioni di quanto empiricamente accade a noi, incontriamo una vastissima varietà di episodi che in molti casi paiono così lontani dalle nostre condizioni che approcciarvisi, anche solo per qualche esame, risulta un compito mastodontico e privo di reale valore.

Tuttavia, quello che avviene nel piccolo delle faccende quotidiane avviene anche per le grandi imprese della storia che leggiamo sui libri. Tutti quegli avvenimenti, che a un primo sguardo sembrano sconnessi e “superati”, a un approfondimento accurato non risultano più tali.

 

Se il richiamo alla storia avviene sempre, indipendentemente dalla nostra volontà, v’è un motivo per cui “affinare” questo procedimento mediante lo studio; lo possiamo vedere, per esempio, per la nostra formazione politica. 

 

Si potrebbe obiettare che sia possibile rifarsi unicamente al testo di un letterato senza addentrarsi tra le mille discordie e i grossi contrasti che segnarono l’epoca in cui quella teoria sorse. Perché studiare la storia italiana o russa, quando, limitatamente a certi nodi teorici, possiamo limitarci ai testi politici di Gramsci e Lenin? Perché la nostra formazione politica dovrebbe essere monca senza coscienza profonda delle vicende che coinvolsero i due scrittori e il mondo intero? Anzitutto, conviene ricordare come non vi sia differenza fra idea e storia. La storia è la storia delle idee, dei significati, dei valori incarnati nelle vicende politiche, religiose, istituzionali. Le idee sono le riflessioni, le valutazioni, i punti di vista entro cui ogni cosa si riflette, e che danno vita alle differenti soluzioni. I fatti sono idee, le idee sono fatti. Se così non fosse non avremmo alcun bisogno di scavare nel passato, né – se le idee fossero davvero separate dalla storia – le nostre azioni avrebbero un senso. Perciò, a rigore, affermare che le idee politiche siano differenti dalla storia dei fatti è dire uno sproposito, che non ha fondamento alcuno. L’analisi di un testo politico è l’approfondimento di un periodo storico. Per conoscere quel periodo storico, cioè le idee che in esso si avvicendarono, è bene conoscere tanto quelle definite “materia storica” quante quelle dette “materia politica” – tanto l’autore specifico quanto il periodo in cui visse.

 

Pietro Secchia (sulla destra) a un comizio del PCI
Pietro Secchia (sulla destra) a un comizio del PCI

 

Leggere un autore senza conoscere il contesto concreto delle sue idee politiche, cioè la materia storica, equivale a non farle proprie completamente, perché, al di là del piccolo ragionamento di cui vediamo immediatamente il valore – e lo vediamo solo in quanto se ne evidenzia il riscontro immediato nella nostra esperienza –, finiamo per non cogliere più di qualche elemento che si rivela, magari, tremendamente importante. Potremmo non capire che vi sono delle altre cose, scritte fra le righe, che sono attualissime anche in relazione alla nostra esperienza, e che quest’ultima abbisogna di più approfondite analisi per essere compresa. Se a tutta prima definiamo qualche passaggio come antiquato, adatto soltanto a quell’epoca ma non calzante con la nostra, non significa che esso sia davvero tale. Solo conoscendone la storia possiamo calibrarne la portata senza ingannarci, e possiamo davvero misurare l’effettiva distanza di alcune questioni, e così conoscere meglio ciò che oggigiorno ci circonda. Possiamo altresì scoprire che il mondo che pensavamo superato è invece la realtà di quello odierno, e constatare come, al di là di qualche virgola, la sostanza ne sia rimasta immutata; che, cioè, la distanza fra noi e coloro che vissero 100 anni fa sia, per molti versi, “cronologica” ma non “logica”. Riusciamo, mediante lo studio, a vagliare i reali progressi compiuti e quelli mancati, e abbiamo i mezzi per ricusare tutte le soluzioni che in passato furono propinate ma che non valsero allora come non varrebbero neppure oggi. 

Allora, solo a quel punto, intravediamo la forte ragione per cui dovettero sorgere gli interrogativi sollevati da quegli autori, e il motivo per cui si accinsero a consegnarci quelle risposte. Più ci addentriamo nei particolari del passato, più scorgiamo le fitte trame dell’oggi.

 

Con la storia formiamo così un’ideologia più articolata e complessa, la mettiamo alla prova e la confrontiamo con chi ne portò avanti le istanze, con chi le combatté, scoprendo in che modo lo fece, dandoci dei chiari segnavia per la valutazione delle organizzazioni politiche che verranno e per la direzione che la nostra, se l’abbiamo, deve assumere per non cadere in errore. Non solo: rivalutiamo quelli che credevamo i limiti della nostra esperienza, scoprendo di abitare un luogo assai diverso da quello prima supposto, e prendiamo coscienza delle radici delle grosse ingiustizie di cui, probabilmente, non sapevamo la portata. 

La storia, essendo un confronto con dei significati e con le loro conseguenze, incide pesantemente sulla nostra vita (politica e non solo) e amplia la consapevolezza su ciò che ci circonda, proprio come l’acquisizione delle leggi fisiche regola e migliora i nostri comportamenti quotidiani.

 

26 novembre 2018

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica