L'incredibile vanità delle pagine manualistiche. Una "storia" incompleta

 

Il manuale, di fondo, ha come obiettivo una sorta di sintesi efficace del marasma storico-concettuale che dà vita alla situazione contemporanea, sotto qualsivoglia aspetto, della propria nazione e del mondo intero. Se questo obiettivo così disposto sulla carta (ossia astraendo dalla maniera in cui simil scopo possa venir inteso) può ritenersi più che nobile, di fatto ciò che ogni scolaro sperimenta risulta l’esatto opposto di quanto gli autori e i fautori del “partito manualistico” si erano prefissati.

Tommaso Piva, "Vanitas"
Tommaso Piva, "Vanitas"

 

Sin da piccoli siamo stati abituati, ad ogni livello scolastico, a studiare dai manuali: manuali di storia, di letteratura, di italiano, di arte, di filosofia, etc., tutti concepiti ad hoc per gli studenti. Dalla prima elementare sino all’università – la quale, per quanto specialistica, per quasi ogni corso si appoggia puntualmente a un riferimento manualistico – ciascuno di noi si abbevera e pende dalle parole di un compendio. Il manuale, di fondo, ha come obiettivo una sorta di sintesi efficace del marasma storico-concettuale che dà vita alla situazione contemporanea, sotto qualsivoglia aspetto, della propria nazione e del mondo intero. Se questo obiettivo così disposto sulla carta (ossia astraendo dalla maniera in cui simil scopo possa venir inteso) può ritenersi più che nobile, di fatto ciò che ogni scolaro sperimenta risulta l’esatto opposto di quanto gli autori e i fautori del “partito manualistico” si erano prefissati. Nessuno, con la lettura di un manuale, riesce ad essere padrone di alcun argomento. Tanto che la prassi abituale, una volta concluso il periodo scolastico-accademico, vuole che non ci si ricordi più quanto si è studiato, e, oltre a questo – che solo in parte può essere giustificato dallo scorrere del tempo (ché se qualche cosa si è padroneggiato, se pure non se ne ricordano i particolari, quanto meno rimane il giudizio che se ne era dato) –, che non vi si ritorni più sopra. Eppure, contrariamente a quanto l’esperienza delle centinaia di migliaia di ex-alunni testimonia, lo scopo dei manuali consisterebbe nel fornire argomenti intelligenti volti a forgiare menti coscienti del mondo in cui abitano.

 

Dunque, una larga fetta di popolazione cresciuta a pane e bignami ostenta – per usare un’espressione salveminiana che vide la luce in altro contesto, ma che qui riesce perfettamente a calzare – «un’indifferenza olimpionica» nei confronti dei problemi della propria esistenza che vadano oltre le poche cose richieste da una quotidianità media; e se si imbatte in essi – quelli un poco più complessi che richiederebbero la comprensione di temi che i manuali dovrebbero trattare – se ne esce sconfitta e disillusa. Sconfitta perché non è affatto in grado di affrontarli, tanto che dalla molteplicità di opinioni su un qualunque soggetto riesce a partorire nulla più che un “ognuno la pensa a modo suo”; disillusa, poiché, non essendo in grado di risolvere questioni di siffatta importanza, non può che risentirne e vivere nello sconforto, all’ombra di un mondo “brutto” e “privo di senso”.

 

Quello che si impara a scuola, infatti, non è il senso dell’esistenza costruito mediante un fertile dialogo con i grandi del passato, al fine di trarre le fila dei loro pensieri e giovarsene, “curando” i nostri mali e quelli della società di cui siamo frammenti, ma si limita ad essere una carrellata insignificante di date ed avvenimenti che poco hanno apparentemente – perché così mal inseriti in un processo educativo – a che vedere con le occupazioni degli “adulti”. Non si legge Platone – mente squisita e fine che potrebbe ben influire positivamente su migliaia di storture che di giorno in giorno sorbiamo e causiamo –, ma si legge un sunto imbarazzante che al massimo riesce a farfugliare qualche scemenza sul mondo delle idee e sulle caverne. Non si studia la storia patria, che potrebbe – come vuole la frase di circostanza, che, ahinoi, di solito rimane tale, per cui “dalla storia si impara” – mostrarci la stoltezza degli attuali scenari, ma si squaderna una trafila di date (di battaglie, di fondazioni di partiti, di assassini, etc.) totalmente insignificanti, perché non contestualizzate, accompagnate da sentenze non argomentate.

 

Si dice, tanto per citare un caso tra gli innumerevoli, che i dibattiti prima dell’ingresso italiano sullo scenario della Grande Guerra fossero animati da due fazioni avverse: i neutralisti e gli interventisti; si assume l’evidenza per cui tra gli ultimi c’era un uomo chiamato Benito Mussolini e che questi, facendo leva su quelli che sarebbero stati poi i futuri reduci di guerra, un giorno avrebbe preso il potere. Ma qualcuno ha mai compreso quali fossero le ragioni che muovevano un partito, un singolo, un gruppo extra-parlamentare, a schierarsi tra gli uni o tra gli altri? No, perché nemmeno ci si accorge che prediligere la neutralità per motivi diversi porta ad avere, sulla guerra, posizioni diverse. Un conto è la neutralità frutto di studio e consapevolezza del panorama internazionale, esaminato da occhi intelligenti; altro conto è la neutralità miope di coloro che pensano che, dopotutto, quello scenario mondiale non era affar proprio né del mondo operaio e contadino:

 

 

« Il pacifismo ha un grande vantaggio: che il pacifista non deve studiare nessun problema internazionale nei suoi elementi spesso terribilmente complessi. È sufficiente per lui coltivare nella testa e nel cuore una sola idea e un solo sentimento: l’opposizione alla guerra. Egli ha fatto voto di non capire niente, e per mantenere il suo voto non ha bisogno di affaticarsi il cervello. » (G. Salvemini, Le origini del fascismo in Italia)

 

Qualcuno forse ricorda le posizioni di un certo Bissolati? Chi scrive afferma con assoluta certezza che il proprio manuale scolastico nemmeno cita il nome di quel politico di sinistra. Eppure, ironia della sorte, confrontandoci con Salvemini sembrerebbe, stando alle esigue pagine dedicate, spiccare tra le poche menti lucide dell’epoca. Zittito, letteralmente, dal Mussolini agitatore e ormai quasi fascista che si precipitava ai suoi comizi per spegnere la sua voce; inascoltato dalla corrottissima e squallidissima schiera giolittiana e dalle compagini sinistrorse, troppo occupate a infischiarsene dell’universo “borghese” per dargli ascolto; troppo di sinistra per poter essere preso in considerazione dalle fila conservatrici o nazionaliste, che amavano chiamare in causa il cosiddetto “principio di nazionalità”, a differenza del Bissolati, solo quando esso accomodava i loro interessi.  

Insomma, «nessuno dava ascolto alle loro [di Bissolati e dei pochi amici rimasti al suo fianco] ragioni», e così le sue parole finirono per rimanere sepolte nei meandri della storia, coperte da quelle di chi usava parlare a voce più alta. 

 

Avanzando un altro esempio inserito nel medesimo contesto, stavolta relativo al momento postbellico, scopriamo dalle pagine salveminiane più di quello che i manuali ci hanno insegnato durante il nostro periodo di formazione. Il manuale che possiedo (Feltri-Bertazzoni-Neri; 2006), circa gli esiti del Patto di Londra (patto sancito per contrastare le potenze centrali prima della guerra, volto pure a definire, in caso di vittoria, i vantaggi che ciascuna nazione vincente ne avrebbe tratto) e le pretese italiane recita così:

 

« [Le rivendicazioni italiane non furono che] un gesto d’orgoglio […] [che] provocò solo ulteriori danni al prestigio italiano, visto che i lavori della Conferenza [di Parigi] proseguirono regolarmente, procedendo all’assegnazione delle colonie tedesche in Africa e alla spartizione delle zone di influenza in Medio Oriente senza tenere nel minimo conto l’Italia, che da tale operazione di divisione delle prede di guerra non ottenne praticamente nulla. » 

 

Ora, affermazioni simili lasciano intendere che l’Italia, con le sue richieste fuor di misura, si sia rovinata da sé; sembra che gli Stati vincitori fossero ligi alle promesse, e che proprio la boria nazionalista italiana abbia fatto passare loro la voglia di includerci fra i commensali di quell’orribile banchetto che fu la spartizione delle terre di mezzo mondo, avvenuta senza il minimo riguardo nei confronti dei popoli che le abitavano. Leggendo Salvemini, invece, scopriamo che

 

« Approfittando della frattura creatasi tra Sonnino, fermo a reclamare quel mezzo chilo di carne che gli era stato promesso, e Wilson, che non aveva sottoscritto il Patto e non era quindi tenuto a renderlo esecutivo, Lloyd George e Clemenceau poterono eludere le promesse fatte nel patto di Londra. […] E mentre uomini politici italiani, i giornalisti e i professori si scaldavano per Fiume, e Sonnino e Orlando litigavano con Wilson, Lloyd George e Clemenceau si pappavano rispettivamente 450.000 e 225.000 chilometri quadrati di colonie tedesche in Africa, e si dividevano tutti i territori del Medio Oriente non abitati da popolazioni turche. La città di Smirne e il suo distretto, che durante la guerra (Trattato di St. Jean de la Maurienne, 1917) era stata promessa a Sonnino, fu restituita ai greci. La questione dei compensi territoriali che l'Italia avrebbe dovuto ricevere in Medio Oriente e in Africa venne rinviata a negoziati futuri. Uno dei compensi che Sonnino aveva sperato di strappare a Clemenceau e Lloyd George durante i negoziati era una qualche specie di mano libera in Etiopia. Londra e Parigi rifiutarono con fermezza. Gli innocenti diplomatici inglesi e i loro cavallereschi colleghi francesi sfruttarono sino in fondo il fatto di non aver più bisogno della carne da cannone italiana per la continuazione della guerra. Le promesse da essi fatte per trascinare l’Italia in guerra e vincolarla sino alla sconfitta tedesca, adesso potevano essere impunemente trascurate. Essi non si presero la pena di considerare che dietro Sonnino ed Orlando vi era una nazione, i cui sacrifici sopportati durante la guerra meritavano una ricompensa migliore. » (Salvemini, op. cit.)

 

Da sinistra: Lloyd George, Orlando, Clemenceau, Wilson
Da sinistra: Lloyd George, Orlando, Clemenceau, Wilson

 

L’autore non è nazionalista, né uno che sostenne che le pretese italiane (e pure quelle franco-inglesi!) fossero legittime: condannava, al contrario, la contraddittorietà delle rivendicazioni nostrane, che in base alla convenienza facevano capo al principio di nazionalità o lo tradivano in favore di quanto pattuito a Londra. Dirà, in aggiunta, che le pretese coloniali italiane erano non solo insensate, ma persino svantaggiose, e che fortuna volle che fossimo stati “traditi” dalle promesse fatteci dai nostri alleati. Allora, si penserà, se non erano sensate e rilevanti le rivendicazioni, perché dover specificare tutto questo? Perché non limitarsi a dire che l’Italia non era, dopotutto, governata dal buon senso – proprio come asseriva alla buona il manuale? Ebbene perché dal manuale non traspaiono le gesta degli altri cosiddetti paesi liberali, mentre Salvemini le narra eloquentemente. E se mettere in luce le scelleratezze italiane serve a mostrare il passaggio dalla “democrazia” alla dittatura fascista, specie in relazione a quella che chiamiamo comunemente “vittoria mutilata”, allora è altrettanto importante esaminare con cura le scelleratezze di quelli che più avanti avremmo chiamato Alleati. Se distinguevamo le dittature novecentesche dalle democrazie ad esse avverse per il liberalismo che permeava le seconde, e ora scopriamo che esse, a loro volta, erano teatri di gesti illiberali, qualche dubbio in merito al mondo attuale e alle sue interpretazioni sorge spontaneo. Cosa ne sarebbe se scoprissimo che i “buoni” non erano davvero così buoni, e che magari qualche contraddizione insita nel loro pensiero fosse ancora presente, oggi? Cosa ne sarebbe se prendessimo coscienza del fatto che le nostre democrazie hanno ancora, nelle loro gesta, degli elementi propri dei regimi totalitari?   

 

Gaetano Salvemini
Gaetano Salvemini

 

Traendo le fila del discorso, scopriamo che i manuali troppo spesso, nel loro voler essere sintetici, stracciano parti degli eventi, forse le parti più importanti: le ragioni che ad essi soggiacciono. Non ci insegnano perché qualche cosa avvenne: perché un discorso fu pronunciato, perché sorsero delle posizioni, perché un gesto non fu compiuto, etc. Quando esprimono giudizi, specie quelli negativi, non argomentano i motivi che li hanno portati a pensare in quel modo, né – che è lo stesso – confutano le tesi altrui. Salvemini argomenta le sue affermazioni, indicando perché, per esempio, la “vittoria mutilata” fosse una sciocchezza; il manuale considera solo D’Annunzio e dice che tutta la compagine nazionalista, futurista, ex-combattentistica fosse niente più che un gruppo di persone annoiate dalla vita che le portò, chi più chi meno, a forgiare il movimento fascista. No: per poter asserire che questi fossero folli non basta liquidarli con due parole, ma vanno studiate le loro idee e vanno indicate, tra i loro discorsi e gesti, le contraddizioni e le insensatezze. Questo i manuali non fanno mai. Neppure quelli di italiano, di filosofia o di arte. Fermandoci, in questo minuto spazio, alle questioni storiche, possiamo ribadire che il proposito di studiare storia per imparare da essa – nel modo in cui si compie oggigiorno – è certamente fallito. Non abbiamo imparato nulla dalla storia dei manuali, poiché essa non ci ha insegnato perché essere nazionalisti, fascisti, etc. sia sbagliato. Essi li hanno derisi, niente più. E cosa vieta, se nessuno insegna nulla, che, un giorno, un allievo formatosi sui manuali divenga proprio uno di quei violenti? Per rispondere al quesito penso basti guardarsi un poco attorno. 

 

4 maggio 2018

 

 

[Altre vignette sul dilemma dell'intervento si possono trovare sul sito www.movio.beniculturali.it]




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