Breviario anticomunista. Come liberarsi del passato per incatenarsi nel presente

 

Abbiamo rimosso una parte fondamentale della nostra tradizione, che nella quotidianità crediamo di criticare, mentre, in realtà, facciamo i conti solo con la sua ombra, con la sua eco mistificatrice, con la sua versione caricaturale opaca e “sinistra”.

 

di Gabriele Zuppa

 

 

Ebbene sì: “quelli dei centri sociali” che passano alle cronache non sono un modello auspicabile; la sinistra italiana, alias Partito Democratico, è stata e continua ad essere ampiamente penosa; l'Unione Sovietica è caduta, non ce l'ha fatta; infine, Marx, associato ad una vaga lontana origine dei tre elementi precedenti, è il filosofo che avrebbe voluto l'abolizione della proprietà privata e, quindi, della libertà ad essa legata.

 

Ecco che è facile pensarsi convintamente anticomunisti: nessuno aspira a essere come “quelli dei centri sociali”, nessuno auspica che la politica italiana del futuro riveda alla ribalta il PD di questi anni, nessuno vuole che il proprio Stato faccia la fine dell'URSS e... Marx, beh, ci mancherebbe altro che ci togliessero quel poco di benessere privato di cui disponiamo.

 

La messa al bando del comunismo, del marxismo e perfino, in generale, della “sinistra” fa sì che tutte le grandi idee – delle quali partiti, movimenti, filosofie, orientamenti si sono appropriati – siano anch'esse messe al bando; proprio perché, si dice, sovente con disprezzo, in quanto idee comuniste, sinistrose, marxiste, sovietiche.

 

Così facendo ci si preclude la via maestra a quelle soluzioni che si vanno cercando ad anni di crisi. A sbarrarla sono due macigni, due errori colossali e funesti.

 

 

Il primo riduce all'attualità politica delle questioni che sono innanzitutto eminentemente filosofiche. Ciò che è portatore della eco di certi temi, di un certo linguaggio, ecc. viene liquidato e ritenuto non degno di considerazione. Così facendo ci si preclude di tornare a considerare con serietà quelle grandi idee. Ma, appunto, grandi non sono quelle idee ora note nella versione della vulgata, ma quelle originarie cadute nell'oblio della storia. Così, si riduce la filosofia politica alla contingenza politica, per giunta ridotta a reazioni da tifo scadente.

 

Il secondo rimuove il fatto che di quelle grandi idee si sono bensì appropriati filosofi, movimenti, partiti, ecc., ma che esse non nascono e non si sviluppano solo in seno a ciò con cui ora vengono identificati.

 

Ordunque, quali sono queste idee? Ricordiamone qui due di fondamentali: la questione del lavoro e la critica alla proprietà privata, strettamente connesse tra loro. «Oddio – qualcuno penserà ora – ecco il comunista che vuole abolire la proprietà privata e impedirmi la libertà di scegliere che lavoro fare, la libertà di impresa...».

 

Cominciamo allora con dare la parola agli insospettabili padri dell'economia politica, Adam Smith e David Ricardo, e vedere su cosa sostanzialmente concordino.

 

Di che cosa si occupa l'economia? Della ricchezza. Cosa produce la ricchezza? Il lavoro. Cosa produce più lavoro? Cosa aumenta la produttività? La divisione del lavoro, la specializzazione. Che presuppone una certa organizzazione. Da cosa è resa possibile? Dall'accumulazione originaria della ricchezza, dal capitale.

 

Poiché il valore (di scambio) di ogni cosa, ovvero il suo prezzo, consiste in «una certa quantità di lavoro che scambiamo per ciò che riteniamo in quel momento contenere il valore di una uguale quantità», secondo Smith ne risulta che «col lavoro […] sono state acquistate originariamente tutte le ricchezze del mondo» (La ricchezza delle nazioni, 1776), ovvero tutti quei beni il cui valore (di scambio) consiste appunto nella quantità di lavoro impiegata per la loro produzione.

 

Smith è così chiaro che, senza che esplicitamente lo affermi, risulta evidente il significato di quanto dice: l'origine legittima della ricchezza è il lavoro; infatti, un bene, un mezzo (che prima non c'era), è tale per quella produzione che prende il nome di lavoro. Ascoltiamo le parole di Ricardo nei suoi Princìpi di economia politica e dell'imposta (1817):

 

« Il valore di una merce, cioè la quantità di qualsiasi altra merce con cui si può scambiare, dipende dalla quantità relativa di lavoro necessario a produrlo. »

 

(Per “completezza”, ricordiamo però, anche se qui non serve ai fini del nostro ragionamento, che «l'utilità [il valore d'uso] non è la misura del valore di scambio sebbene a tale valore sia assolutamente essenziale. Se una merce non fosse affatto utile – in altre parole, se non potesse in nessun modo contribuire alla nostra soddisfazione – sarebbe priva di valore di scambio, comunque scarsa possa essere o comunque grande fosse la quantità di lavoro necessaria per ottenerla. Nel caso in cui posseggano utilità, le merci traggono il loro valore di scambio da due fonti: dalla loro scarsità e dalla quantità di lavoro per ottenerle»).  

 

Adam Smith e David Ricardo
Adam Smith e David Ricardo

 

Sia che Smith lo espliciti o non lo espliciti, è ovvio che egli non può intendere che qualsiasi acquisizione, che qualsiasi presa di possesso di ricchezza storicamente derivi solo dal proprio lavoro. Perché è noto che nella storia è l'appropriazione di ricchezza altrui (cioè del prodotto del lavoro di altri) ad essere all'origine di quel possesso.

 

Smith assevera che nella «società che precede l'accumulazione del capitale [della ricchezza] e l'appropriazione della terra […] l'intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore». «Non appena il capitale si è accumulato nelle mani di determinate persone», la situazione cambia. Perché il capitale, impiegato nel creare condizioni e fornire mezzi di produzione, determinerà la possibilità di nuovi lavori.

 

Risulta conseguente dal discorso fin qui sviluppato che chi crea nuovi lavori, organizzando in modo nuovo l'esistente, debba ricevere una ricchezza pari al lavoro svolto, per il lavoro che ha ideato e organizzato nuovi lavori. Non conseguentemente, invece, Smith prova a spiegare che per il capitalista non può valere il medesimo principio.

 

« Si potrebbe forse ritenere che i profitti del capitale siano soltanto una diversa denominazione del compenso per una particolare specie di lavoro, il lavoro d'ispezione e di direzione. Essi sono tuttavia qualcosa di assolutamente differente, sono regolati da princìpi del tutto diversi e non stanno in nessuna proporzione con la quantità, la fatica o la genialità di questo supposto lavoro d'ispezione e di direzione. Essi sono interamente regolati dal valore del capitale impiegato, e sono maggiori o minori in proporzione alla dimensione di questo capitale. »

 

Perché? Per via di ciò che oggi chiameremmo rischio d'impresa. Quanto più impiego le ricchezze accumulate, tanto più devo aspettarmi di guadagnare da queste ricchezze. Il discorso manca però di qualsiasi evidenza e conseguenza da quanto prima spiegato, perché rimane in sospeso la questione dell'accumulazione originaria.

 

Immergiamoci nell'assurdo della pura fantasia e ammettiamo che un Rothschild abbia vissuto una vita di stenti per accumulare capitale e, da ultimo, investirlo. O che per generazioni i Rothschild l'abbiano accumulato per un grande investimento, che, ora, finalmente, qualcuno della famiglia si decide di tentare. Da dove si evince che, a causa di questo investimento, chi si metta a lavorare per questo investitore debba essere pagato meno della quantità di lavoro che fornisce? Da nessuna parte. Eppure è quello che accade, come viene denunciato da più parti e ben prima di Marx.

 

Entro una prospettiva capitalista, che cosa egli faccia con il denaro fantomaticamente accumulato è una questione privata: è lo stesso che scommetta sulle corse dei cavalli, scommetta sull'andamento dell'economia, giochi d'azzardo o intraprenda il rischio di una qualche attività. Quindi, proprio non si spiega da dove si deduca la legittimità che il profitto del capitalista debba provenire dall'aver deciso di spendere così quanto accumulato.

 

Dunque, immaginiamo che il lavoro svolto dall'impresa debba inglobare il lavoro necessario per acquistare macchinari, utensili, ecc. ma che non venga messo dai lavoratori che attualmente lavorano, ma dai lavoratori passati della famiglia Rothschild che hanno risparmiato per l'erede ora imprenditore. Ecco, si potrebbe calcolare che parte dei profitti dell'impresa vadano all'imprenditore, segnatamente quella corrispondente al capitale necessario ad avviare l'impresa. Come se anticipasse i soldi necessari ad organizzare quella nuova impresa condivisa da tutti i lavoratori. Allora l'imprenditore sarà legittimato a incassare un equivalente del capitale investito, più quanto gli spetta per il lavoro svolto.

 

Infatti il principio alla base della proprietà privata è che il lavoro è mio e che io sia legittimato a spendere come voglio il denaro corrispondente alla mie ore di lavoro. Che questo denaro venga bruciato, impiegato per fare dei giochi, comprare un terreno o dei macchinari non cambia il fatto che rappresenti il modo in cui io voglio che una parte del mio lavoro venga impiegato.

 

Che io abbia risparmiato non mi legittima a derubare nei decenni e nei secoli gli altri del loro lavoro. Ovvero a violare il principio che legittima ogni retribuzione e quindi ogni appropriazione (la proprietà privata), il quale recita: ogni accumulo di ricchezza che non corrisponda al lavoro svolto è illegittimo. Perché mai a chi decida di impiegare per un'attività la propria proprietà privata, il proprio capitale, la società dovrebbe riconoscergli un guadagno superiore al lavoro svolto, sottraendolo agli altri lavoratori? Infatti, si diceva, il valore di un prodotto è tratto dal lavoro svolto, precisamente dall'insieme del lavoro dei lavoratori che vi si dedicano, e da nient'altro. Non essendoci altra fonte del valore, tutto ciò di cui ci si approprierà oltre il proprio lavoro svolto, corrisponderà al lavoro svolto da altri. Significa derubare gli altri del loro lavoro svolto. Del valore da loro creato.

 

Lo dice chiaramente lo stesso Smith, prima di sorvolare sull'accumulazione storica del capitale ed introdurre, non giustificandolo, il principio del profitto per il rischio d'impresa:

 

« l'intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore; e la quantità di lavoro comunemente impiegata nell'acquistare o produrre una merce è la sola circostanza che può regolare la quantità di lavoro che essa dovrebbe comunemente acquistare, avere a disposizione o ottenere in cambio. »

 

 

Dunque – ribadiamolo – ogni accumulo di ricchezza che non corrisponda al lavoro svolto è illegittimo. Legittimo sarà semmai che, compresa l'importanza del capitale per avviare un'impresa, ciascuno metta a disposizione una parte del proprio lavoro per accumulare un capitale comune, sociale, a disposizione di chi abbia idee e capacità organizzative: a chi si dimostri capace di fare impresa. L'essenza del capitale non può che essere pubblica. Ecco, allora, che il rischio d'impresa sarà condiviso da tutta la comunità e nessuno verrà abbandonato qualora il tentativo di impresa, cioè di produzione di ricchezza per la comunità, e voluto dalla comunità, fallisca.

 

Ecco l'origine legittima dell'accumulazione, ovvero della proprietà. Anche un altro “insospettabile” come John Stuart Mill nei Princìpi di economia politica (1848) sottolinea con chiarezza cosa significhi la proprietà privata:

 

« In ogni difesa della proprietà privata si presuppone che essa significhi garantire agli individui il frutto del proprio lavoro e della propria astinenza. »

 

Ma poniamo di nuovo per assurdo che taluni si trovino a beneficiare di un enorme accumulo di ricchezza, magari perché donato loro da moltissimi membri della comunità. (E dovrebbero essere moltissimi, altrimenti non si spiegherebbe da dove i pochi che passano l'eredità avrebbero preso le molte ricchezze di cui disporrebbero). Con ciò, di nuovo si contraddirebbe il principio della proprietà:

 

« il garantire loro i frutti del lavoro e dell’astinenza di altri, trasmessi loro senza alcun merito o impegno da parte loro, non fa parte dell’essenza dell’istituto della proprietà privata, ma è una semplice conseguenza accidentale, che, dove raggiunge un certo livello, non soltanto non favorisce, ma contrasta i fini che rendono legittima la proprietà privata stessa. »

 

Insomma, l'eredità della proprietà privata, in qualunque forma si realizzi, benché a noi oggi sembri per abitudine qualche cosa di ovvio, è in realtà un assurdo.

 

Riassumiamo. Si devono favorire le imprese, ovvero i tentativi di aumentare le ricchezze – di un paese, di più paesi, dell'umanità intera –, e quindi ciò che di esse è condizione: il capitale, ovvero una base di ricchezza accumulata e disponibile per l'organizzazione della nuova attività produttiva. Ma il capitale non può che essere pubblico, così come pubblico sarà il rischio di impresa e il profitto dell'attività, pur magari distinguendo la diversità dei contributi, dei meriti. (Non occupiamocene al momento).

 

Ne segue altresì che la comunità come deve offrire le condizioni per nuove imprese produttive, così deve offrire le condizioni affinché ciascuno dia il proprio contributo nella produzione. Non mettere nelle condizioni di lavorare è non mettere nelle condizioni di vivere, è violare il principio della proprietà privata. Difatti, nessun accumulo, nessuna organizzazione e distribuzione di ricchezza sono legittimi se sottraggono ad altri dalla possibilità di beneficiarne, ovviamente attraverso quell'unica fonte della ricchezza che è il lavoro.

 

Diritto al lavoro e diritto alla proprietà privata sono due dei diritti fondamentali e imprescrittibili dell'uomo, sulla violazione dei quali si erige l'Occidente di oggi. Abbiamo preso per ovvio e legittimo ciò che è invece violenza peculiare del nostro sistema capitalistico, rimuovendo quei tentativi di analisi che hanno efficacemente sottoposto a critica e denuncia quegli abusi. Denigriamo indiscriminatamente un passato fecondo per sottoporci stoltamente alla servitù presente. Ridicolizziamo dei nomi e dei simboli ridotti ormai solo a segni della nostra ignoranza.

 

15 novembre 2019

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica