I giganti della distruzione e il banditismo capitalistico

 

Attraverso le crisi economiche, la figura del banchiere Alan Greenspan – con le sue politiche e, da ultimo, con le sue parole nel libro Capitalism in America, in cui in esplicita la sua filosofia – ci restituisce con nitidezza, in una immagine non più trasfigurata, l'anima del capitalismo. Un capitalismo che non si è corrotto nel tempo, ma che è esso stesso la corruzione.

 

di Gabriele Zuppa

 

 

Il 23 ottobre 2008, in una deposizione di fronte alla commissione del Congresso degli Stati Uniti, Alan Greenspan, l'ex presidente della Federal Reserve, ha ammesso l'esistenza di una «falla» nella teoria alla base della regolamentazione finanziaria nel mondo occidentale. Quale? La stessa che persiste da oltre due secoli: l'assunto che «l'interesse egoistico delle organizzazioni, in particolare le banche, fosse tale da renderle in grado di proteggere nel migliore dei modi i propri azionisti e il loro capitale» (citato in M. Mazzucato, M. Jacobs, Ripensare il capitalismo, I; l'intera deposizione la si può leggere qui). Nientemeno che l'assunto “della mano invisibile”.

 

La giustificazione del chairman della banca centrale degli Stati Uniti d'America suona inverosimile, perché suona non diversamente da quella di un monello che, colto in flagrante, si difenda, con malcelata ingenuità, asserendo «io non pensavo che...». È infatti noto che la tesi “della mano invisibile” è un'improvvida formula che non sta a garanzia di nulla: lo si ripete in tutte le salse dagli albori del socialismo e la si sbandiera universalmente senz'altro a partire da Keynes, nel cercare di prevenire o nel commentare i più svariati fallimenti sociali.

 

Il fatto è che i bulli del capitalismo fanno il loro gioco, sapendo che c'è tra loro chi “perde” e chi “vince”. Ma sapendo pure che, comunque, sarà a spese dei poveracci che vivono per farli giocare. Tanto bulli sono loro, quanto stolti i poveracci, noi, che da oltre due secoli continuiamo a berci la storiella del «io non pensavo che...», proprio come due genitori che da tempo si bevano la storia del loro figliuolo bullo, che proprio loro, così facendo, ce lo hanno fatto diventare.

 

Negli ultimi anni, più di prima, guardiamo al capitalismo come a quell'unica possibilità che, nonostante tutto, ha migliorato le nostre condizioni, almeno materiali, di vita. E ci rivolgiamo alle sue “grandi” figure, pubbliche o private, come a coloro che, nonostante tutto, ci danno lavoro. Greenspan, con i suoi diciotto anni (1987-2006) come presidente del Board of Governors della Federal Reserve, è stato una di quelle “grandi” figure, uno dei banchieri centrali più potenti al mondo, il membro più autorevole del Committee to Save the World, secondo la copertina del «Time» nel 1999.

 

 

La noncurante azione economica attuata da Greenspan viene giudicata tale solo innanzi al cospetto di autorità politiche, peraltro complici, in circostanze che lo costringono a “riconoscere” una «falla». Ma è difficile credere che l'azione criminale di Greenspan nei confronti dei poveracci sia considerata da lui stesso un errore. Come egli scrive nel suo ultimo libro appena uscito, Capitalism in America (2018), è nell'ordine delle cose che i poveracci vengano «distrutti». Del resto, «per gli investitori finanziari, gli anni Greenspan sono stati fantastici: l'indice Dow-Jones ha superato i diecimila punti e il prezzo delle azioni è cresciuto mediamente oltre il 10% l'anno», come racconta il premio nobel per l'economia Paul Krugman nel suo Il ritorno dell'economia della depressione e la crisi del 2008. Krugman, in un capitolo dedicato a “Le bolle di Greenspan”, spiega che secondo il presidente più longevo della Federal Reserve, William McChesney Martin Jr., che la diresse dal 1951 al 1970, lo slogan guida della politica monetaria dovesse essere «portare via la coppa del punch quando la festa comincia a decollare». Egli intendeva la necessità di alzare i tassi di interesse per far sì che una forte crescita dell'economia fosse controllata per evitare l'inflazione. Ma significò anche il monito a prevenire l'«esuberanza irrazionale» nei mercati finanziari, secondo un'espressione proprio di Greenspan. Che però non ha mai fatto nulla per controllare lo scoppio delle bolle, anzi: «l'ex presidente della FED detiene quello che io credo essere un record insuperabile tra i banchieri centrali: durante la sua presidenza non c'è stata una sola bolla speculativa sugli asset, ma ce ne sono state due: la prima sulle azioni e la seconda sulle case». E ciò è accaduto nonostante gli indicatori chiaramente mostrassero la bolla azionaria degli anni Novanta e quella degli immobili nel decennio successivo, che ha portato alla scoppio della crisi nel 2008.

 

Nel novembre del 2008, un'incredula regina Elisabetta, che visitava la London School of Economics per l'inaugurazione di un nuovo edificio, chiese come fosse possibile che nessuno avesse previsto il sopraggiungere un disastro di tali proporzioni. Le risposero ammettendo che in molti avevano previsto la crisi, anche se non l'esatta forma che avrebbe preso, i tempi con i quali si sarebbe abbattuta e la sua entità. Si pensava inoltre che comunque, in un modo o nell'altro, si sarebbe riusciti a porvi rimedio una volta scoppiata. Insomma, non si è fatto nulla per prevenirla. In fin dei conti, la si è voluta. Così come si era voluto la crisi della bolla azionaria nel 2000. L'euforia ed i guadagni conseguenti non si son voluti arginare, sebbene si sapesse che, in un modo o nell'altro, avrebbero portato ad una crisi. A quella azionaria del 2000 Greenspan fece fronte, come sostiene Krugman, favorendo quelle dinamiche che avrebbero determinato quell'altra bolla, immobiliare, che sfociò nella crisi del 2008. Come a dire che il capitalismo è sempre disposto all'azzardo di qualche catastrofe per la possibilità di partecipare a un nuovo grande bottino. Sia i giganti, sia i poveracci, tutti assieme presi dalla logica del capitalismo. Così, da un lato abbiamo chi, preso dall'euforia di un suo facile guadagno, si accoda per partecipare all'abbuffata:

 

« In base a una lunga esperienza, sapevamo che chi compra casa non dovrebbe accollarsi dei muti che non può permettersi di pagare, e che dovrebbe anticipare una somma sufficiente a sostenere un moderato calo dei prezzi pur mantenendo un valore positivo. I bassi tassi d'interesse [che c'erano al momento] avrebbero dovuto tutt'al più modificare al ribasso delle rate di pagamento del mutuo.

 

Abbiamo assistito invece a un completo abbandono dei princìpi tradizionali. Questo fenomeno era dovuto in qualche misura all'esuberanza irrazionale di singole famiglie che vedevano i prezzi degli immobili salire continuamente e stabilivano di dover entrare nel mercato, senza preoccuparsi di come rimborsare il mutuo. Ma era dovuto in misura maggiore a un sensibile mutamento delle pratiche di finanziamento. Agli acquirenti si concedevano mutui immobiliari senza anticipo o con un risparmio irrisorio, con rate mensili che andavano molto al di là della loro capacità di rimborso – o diventavano inaccessibili quando veniva rialzato il basso interesse iniziale. Gran parte di questi finanziamenti a rischio rientravano nella categoria dei cosiddetti “subprime”, ma il fenomeno era molto più vasto. E non erano solo gli acquirenti a basso reddito, o appartenenti a minoranza svantaggiate, ad accedere a mutui che non potevano ripagare; lo facevano tutti.

 

Perché gli enti finanziatori hanno allentato i vincoli? Anzitutto, si erano convinti che i prezzi delle case avrebbero continuato a crescere all'infinito. E finché i prezzi salgono, al finanziatore non interessa più di tanto se il mutuatario è in grado di pagare le rate; se sono troppo alte, l'acquirente può iscrivere un'ipoteca sull'immobile per avere più liquidità o, nella peggiore delle ipotesi, può vendere la casa e rimborsare il mutuo. In secondo luogo, i finanziatori non si preoccupavano della qualità dei propri mutui perché non li tenevano in portafoglio. Li vendevano a degli investitori, che non capivano che cosa stavano comprando. »

 

Dall'altro lato abbiamo chi, potendo, non fa nulla per intervenire:

 

« [Greenspan] non ha alzato i tassi di interesse per frenare l'eccessivo entusiasmo dei mercati. Non ha cercato neppure di imporre dei limiti sulle operazioni a riporto. Ha atteso […] invece che la bolla scoppiasse […] per poi intervenire. »

 

Da ultimo, davanti all'evidenza crescente e ai ripetuti moniti di alcuni economisti, Greenspan dichiarò che un forte declino dei prezzi delle case era «del tutto improbabile». Paventando al massimo qualche «bollicina» nei mercati immobiliari locali. Invece, fu, di nuovo, crisi, ma paragonabile solo a quella del 1929. Fu, di nuovo, crisi, per la quale i ricchi divennero – e continuano a diventare – sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

 

 

Questo aspetto fondamentale non è nemmeno preso in considerazione da Greenspan, perché nell'ottica del capitalismo questo non può essere un problema. Il capitalismo, secondo Greenspan, deve essere voluto da tutti, poiché – secondo il luogo comune – il capitalismo avrebbe comunque migliorato le nostre condizioni di vita. Benché lo scopo del capitalismo non sia occuparsi di chicchessia, ma di accrescere la propria potenza economica. Questo ha senz'altro migliorato le condizioni di vita, almeno materiali, di alcuni, di molti negli ultimi due secoli, benché a discapito di altri, di moltissimi. Ma, sebbene la qualità materiale di vita sia indubbiamente notevolmente aumentata negli ultimi due secoli e questi due secoli siano i secoli del capitalismo, è tutto da dimostrare che il merito sia del capitalismo, che sia stato il capitalismo – ciò che lo contraddistingue essenzialmente – a produrre questo avanzamento materiale qualitativo. Non potrebbe infatti essere che il progresso, inteso in questo senso, potesse essere migliore (cioè, per esempio, con maggiori risultati, senza i milioni di morti che ha provocato, senza le tragedie migratorie della povertà, con un impatto ambientale inferiore, ecc.) e maggiormente distribuito? La constatazione che il nostro standard di vita è superiore a quello delle generazioni che ci hanno preceduto nella nostra famiglia, non comporta che non si sarebbe potuto ottenere il medesimo miglioramento senza il capitalismo. La concomitanza temporale di due fatti non li rende in un diretto rapporto di causa ed effetto. Potrebbe essere perfino il contrario: che le nostre vite siano migliorate nonostante il capitalismo! Ed infatti questo sarebbe suggerito anche da una ricognizione storica superficiale che rilevasse le battaglie e le stragi sociali che sono servite per diffondere un qualche grado di qualità della vita.

 

Allora, chiediamoci: che cosa caratterizza essenzialmente il capitalismo? Senza avventurarci nella storia, le considerazioni di Greenspan, di questo difensore del capitalismo par excellence, mostrano come il miglioramento delle condizioni di vita degli altri siano del tutto irrilevanti per il capitalismo, che può bensì conseguirle, ma accidentalmente o contro i suoi auspici.


Greenspan spiega che «il meccanismo centrale di questo progresso è stata la distruzione creativa: la forza irrequieta che destabilizza qualsiasi equilibrio e sconvolge qualsiasi piano». Concetto, quello della distruzione creatrice, che richiama alle riflessioni di Nietzsche sul rapporto tra creazione e distruzione, il quale però, nei suoi scritti si concedeva ancora ad una comprensione dialettica di tale rapporto, come ho cercato di mostrare in Esprimersi ed essere. Ciò significa che la creazione comporta il superamento di ciò che la precedeva non in quanto lo distrugge, ma in quanto lo porta a compimento. Sì che, da ultimo, la creazione, non è indifferente a ciò che distrugge, ma se ne fa carico, per realizzarlo.

 

Mentre, per Greenspan, gli «eroi» della distruzione creatrice sono «gli imprenditori», che, al contrario, non guardano in faccia nessuno. Il progresso è inteso come la produzione di una novità, per la quale si è disposti a tutto. Il fine (la novità del progresso) giustifica i mezzi (la distruzione di ciò che precedeva): il fine è indifferente al cammino. Il miglior Nietzsche, invece, scorge ancora che il cammino è esso stesso il fine.

 

Nietzsche stesso, però, non è immune dalle derive del concetto di volontà potenza, cioè il concepimento di una potenza che vuole la potenza per la potenza. Invece la posizione di Greenspan non conosce che la potenza per la potenza, pura:

 

« Gli imprenditori sono gli eroi della distruzione creativa – le persone con la capacità di sentire il futuro nelle loro ossa e portarlo in essere attraverso la pura forza della volontà e dell'intelletto. »

 

Ciò che conta non è più che cosa sia voluto, ma che sia voluto. È la forza della volontà a giustificare il fine, separato dai mezzi, separato dal cammino.

 

« Gli imprenditori guidano la crescita a lungo termine nella produttività perseguendo i loro sogni di costruire un'impresa, lanciando un prodotto, o, la natura umana essendo quel che è, mettendo assieme una fortuna. […] Sono quasi sempre colpevoli di quello che si potrebbe chiamare imperialismo dell'anima: sacrificheranno qualsiasi cosa, dalla loro stessa pace mentale alla vita di chi li circonda, per costruire un impero degli affari e poi proteggere quell'impero degli affari dalla distruzione. I grandi imprenditori non sono mai a riposo; devono continuare a costruire e innovare per sopravvivere. »

 

Dipinto di Vittorio Bustaffa
Dipinto di Vittorio Bustaffa

 

Gómez Dávila negli anni Cinquanta aveva descritto con lucidità questa essenza:

 

« se tutti gli uomini sono volontà libere, sovrane e uguagli, nessuna volontà può soggiogare legittimamente le altre; ma poiché la volontà non può che avere come suo legittimo oggetto la propria essenza, e ogni volontà che non abbia la sua essenza per oggetto si nega e si annulla […] Sovrano, l'uomo non dipende che della sua capricciosa volontà. Completamente libero, il solo fine dei suoi atti è l'espressione inequivocabile del suo essere. La rapina economica culmina in un individualismo meschino, dove l'indifferenza etica si prolunga in anarchia intellettuale. »

 

Così:

 

« [l']individualista non può dichiarare che una norma è falsa, ma che ne desidera un'altra; né che una legge non è giusta, ma che ne vuole un'altra; né che un prezzo è assurdo, ma che gliene conviene un altro. La giustizia, in una democrazia individualista e liberale, è ciò che esiste in qualunque momento. »

 

Nel capitolo “Age of Giants” Greenspan ci mostra senza indugio, con compiacimento, il volto di questi giganti, di questi eroi che hanno fatto grande l'America. «Le persone raramente ottengono grandi cose senza la volontà di calpestare l'opposizione». E loro hanno saputo farlo. La lista è lunga:

 

« Alcuni dei ladri baroni di Tarbell erano senza dubbio colpevoli di cose terribili. Daniel Drew era un ex cowboy che ha alimentato il suo bestiame col sale, in modo che si gonfiasse d'acqua prima di essere pesato […]. James Fisk […] ha gonfiato e venduto così tante azioni Erie che la ferrovia un tempo prospera è andata in bancarotta. Jay Gould ha corrotto legislatori per concludere accordi, ha corrotto azionisti e ha anche rapito un investitore. Una volta ha detto: “Posso assumere una metà della classe operaia per uccidere l'altra.” Un numero impressionante di loro ha pagato trecento dollari l'anno un “sostituto” per sfuggire il servizio nell'esercito dell'Unione. »

 

Del resto, conclude Greenspan, se è comprensibile l'ostilità che hanno suscitato per ciò che hanno distrutto, «per la maggior parte, tuttavia, questi uomini d'affari non erano né “ladri” né “baroni”: hanno fatto i soldi da sé invece che ereditarli».

 

Si chiama concorrenza e, seguendo Greenspan, per chi è in grado di vincerla è senz'altro sana. Ma, aggiunge Greenspan, come arbitrariamente hanno giocato la partita, cambiando e creando le regole mentre la giocavano, poi, altrettanto arbitrariamente alcuni si sono dati alla beneficenza. Non solo.

 

« La difesa principale di questi uomini dall'infamia pubblica, tuttavia, non è che si sono fatti dal nulla o che hanno fatto opere di carità. È che hanno contribuito a produrre un enorme miglioramento del tenore di vita per tutti. »

 

Ecco che ritorniamo al concetto iniziale. Ognuno persegue il suo sogno, disposto a tutto, indifferente a tutto tranne che al suo scopo, arbitrariamente. Ma ecco che dalle sue creazioni distruttrici qualcosa rimane, si diffonde, coinvolge quelli che – accidentalmente – si sono salvati. Per alcuni di loro – fino alla prossima distruzione – lo standard di vita sarà aumentato.

 

I grandi self-made man che si sono fatti da soli sono e devono essere disposti a tutto per perseguire la loro ossessione. E lo fanno, trattando uomini, istituzioni, leggi secondo la prospettiva del loro egoismo individualistico. La massima della loro amoralità, al di là del bene e del male, è di trattare l'umanità come mezzo e mai come fine, perché ogni fine diverso dal capitale è d'intralcio a quella volontà di potenza in cui il capitalismo si rispecchia. Lo scopo del capitalismo è il capitale ed ogni altro fine deve, secondo la sua essenza, diventare mezzo. Certo, tutti i mezzi potranno essere potenziati in vista del fine, ma non c'è nulla che li salverà dalla distruzione, qualora intralcino la scalata alla potenza sovrana, quella del denaro.

 

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Per approfondire questi temi e la filosofia

che soggiace allo sviluppo del capitalismo liberista.

 

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2 agosto 2019

 








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