Il capitalismo e la cultura burocratica

 

Il burocrate è colui che ha in vista la parte in luogo del tutto e fa della sua mansione, snaturandola, un reparto scisso e “personale” della comunità in cui abita. Ciò si ripercuote su coloro che a questi si approcciano e sul burocrate stesso, incapaci – gli uni e l’altro per opposti motivi, ma speculari – di comprendere il valore e la ragione di quel tassello che in mezzo agli altri forma il lavoro, la società. C’è un preciso “movente” filosofico che favorisce il burocratismo e le sue conseguenze non si restringono, come si potrebbe credere, alle procedure protocollari.

Che la lotta al burocratismo sia un cavallo di battaglia adottato da innumerevoli forze politiche è sicuro, quantomeno a parole. Che però questi slogan abbiano avuto dei risultati tangibili è appunto opinabile e ciò che vorremmo discutere. V’è, su questo tema, una posizione senz’altro interessante, avanzata da György Lukács. Egli, sulla scorta del pensiero leniniano – segnatamente quello dispiegato nel noto Che fare? –, individua il burocratismo come tratto essenziale del mondo capitalista. Non che in quello socialista non vi fosse, che ne fosse immune, ma se vi era si presentava come “residuo” del vecchio mondo, una traccia in via di (lenta) estinzione, per via della natura stessa del socialismo.

 

Il burocrate è colui che ha in vista la parte in luogo del tutto e fa della sua mansione, snaturandola, un reparto scisso e “personale” della comunità in cui abita. Ciò si ripercuote su coloro che a questi si approcciano e sul burocrate stesso, incapaci – gli uni e l’altro per opposti motivi, ma speculari – di comprendere il valore e la ragione di quel tassello che in mezzo agli altri forma il lavoro, la società. C’è un preciso “movente” filosofico che favorisce il burocratismo e le sue conseguenze non si restringono, come si potrebbe credere, alle procedure protocollari. Per giungervi è forse opportuno tracciare degli esempi dell’effetto di quell’errore, servendoci del lavoro di Lukács e Lenin.

 

L’incapacità non solo di abbracciare la globalità degli eventi, ma pure la mancanza del suo anelito ha degli effetti, come si è detto, che si estendono ben al di fuori dell’ambito in cui il termine “burocrate” è solitamente utilizzato. Come suggerisce Lukács nel suo volume Il marxismo e la critica letteraria, vi sono anche i burocrati dell’arte. Costoro sono tali essenzialmente in due maniere: ci sono gli artisti la cui “burocrazia” si manifesta nella ripresa del realismo, credendo di portare più verità di coloro che si esprimono diversamente. 

 

« Anche il cieco e disordinato esplodere della rivolta contro gli aspetti più brutali di tale inumanità può occasionalmente raggiungere un pathos per cui il nudo fatto, il “documento” non elaborato artisticamente, non collegato alla totalità e alle sue leggi, dove i destini umani sono rappresentati in forma puramente astratta, sembra tuttavia sufficiente a smascherare da solo l’assurdità del capitalismo. » 

 

L’inefficacia di questo “metodo” risiede nell’assenza di un’analisi critica strutturata, di una visione globale e complessa che rinchiude e spiega l’evento rappresentato. 

 

« Là dove [queste opere] esercitano una certa azione, la esercitano – inconsapevolmente e involontariamente – nella loro qualità di documenti della distruzione di ogni umanità ad opera del capitalismo, che nei contorcimenti dell’agonia diffonde la peste della corruzione. Ma […] non si possono utilizzare queste forme d’espressione proprie dello sfacelo per configurare la nascita di un mondo nuovo e di uomini nuovi; né si può ricorrere a quella povera, tenue e problematica poesia della desolazione, che può attingere una genuinità solo dalla disperazione stessa, per intonare l’inno di rinascita dell’umanità e dell’umanesimo. »

 

Ci sono poi, d’altro lato, gli artisti che si comportano nel modo opposto e sviluppano un eccessivo formalismo, che però trascura  la ricchezza e la complessità del contenuto. Fra questi vi sono gli esponenti di un «“ottimismo” formale» che, se a tutta prima sembrano raffigurare e restituire un’alternativa a quel mondo che i realisti ritraevano parzialmente denunciando il capitalismo, non fanno che avanzare delle posizioni vuote di significato, fideistiche, prive di riflessione. Tra il deprimersi della miseria senza comprendere  il suo perché e assicurare che un mondo migliore esista senza mostrarne i più intimi caratteri, nota l’ungherese, v’è davvero poca differenza. 

 

« Così essi elaborano la concezione della “maestria” come “dominio della tecnica”, indipendente dalla realtà, dalla concezione del mondo; come, per riprendere l’espressione di Tolstoj già citata più sopra, “un dono indipendente dallo spirito e dal cuore, quasi fisico”. Quanto più sottile è il virtuosismo di questa “maestria”, tanto più burocratico è l’atteggiamento di tali scrittori […]. »

 

In modo analogo, esistono i politici, sedicenti socialisti, che si proclamano rivoluzionari ma di fatto sono nient’altro che «burocrati tradunionisti». Il Che fare? (1902) di Lenin è un testo che si occupa principalmente di combattere degli strafalcioni teorici grossolani commessi da aspiranti gruppi socialisti, che si ripercuotono inevitabilmente nella loro modalità d’azione, portandoli a errare non solo per l’incapacità di prefigurare un’alternativa vera all’esistente, ma anche perché resi inetti rispetto ai loro compiti più immediati ed elementari. Fra questi gruppi vi sono i cosiddetti tradunionisti. I tradunionisti sono coloro che immaginano che per scatenare le folle e spronarle verso la ribellione all’assolutismo e alle violenze poliziesche e capitaliste si debba appoggiare le lotte economiche, in grado di portare “risultati tangibili”. Dunque organizzare gli scioperi, appoggiare le più piccole rivendicazioni delle più piccole realtà, occuparsi dei regolamenti. Questa è l’attività del tradunionista, che vorrebbe, così operando, dare «un carattere politico alle rivendicazioni economiche». Ma non si capisce, osserva Lenin, in che modo una rivendicazione economica possa assumere un tono politico e spronare il popolo a rivoluzionare il proprio paese se questo tono non viene dato da coloro che vorrebbero considerarsi delle avanguardie rivoluzionarie. Il carattere politico, peraltro, se inteso in questo senso, lo garantisce già la repressione poliziesca, che aizza spontaneamente le folle senza bisogno di politici di professione. Le avanguardie socialiste, osserva il pensatore russo, hanno il compito di approcciarsi alle persone che si muovono per la rivendicazione economica per dare loro uno sguardo politico e articolato, rivolto non solo alle cause del loro malessere e alle soluzioni future, ma a quello di tutti gli altri oppressi. Sono i socialisti a dover garantire un nuovo quadro ideologico alle masse, a dare loro una concretissima – e stavolta davvero tangibile – alternativa alla sofferenza esistente. E per fare questo è necessaria una conoscenza della società tutta che l’esperienza di fabbrica non restituisce. L’attività del tradunionista si limita alla «pubblicazione dei fogli nei quali flagella gli abusi che si commettono nelle fabbriche, la parzialità del governo in favore dei capitalisti e le violenze poliziesche»: «insomma, il militante ideale, per i membri di un circolo simile, somiglia nella maggior parte dei casi più a un segretario di una qualunque trade-union che a un capo socialista» (Lenin, Che fare?). Pertanto, lo scopo del tradunionista che vorrebbe, a parole, elevare l’attività delle masse lavoratrici si può ottenere solo se non ci si limita alla rivendicazione economica ma si comincia a riflettere su tutto il resto, di modo da poter avanzare denunce politiche «in tutti i campi della vita» (Ivi).

 

Lenin
Lenin

 

Tanto l’ambito artistico quanto quello politico sono segnati dall’errore filosofico di fondo che, con le parole di Lenin, abita nella «sottomissione alla spontaneità» e che si traduce in un’«indifferenza verso tutte le teorie». Adottare questo pensiero significa sposare un principio, quello della “spontaneità”, che spinge a credere che ciascuno possa sì arrivare da sé alle conclusioni più importanti, ma che possa arrivarvi senza il duro tirocinio dello studio. L’artista e il politico “spontanei” sono coloro che si fanno inconsapevolmente servi della reazione. Né il primo né il secondo possono, contrariamente ai loro intenti, combattere o denunciare alcun mondo, poiché non hanno la conoscenza per indicarne uno nuovo. La spontaneità non forgiata dalla critica, in luogo di essere neutrale, è imbevuta della cultura che l’ha cresciuta: borghese e reazionaria. 

 

L’indifferenza a tutte le teorie si configura come una implicita promozione del burocratismo. Se per combatterlo è necessaria una visione più ampia e coerente dei fenomeni, allora l’unica via è, in opposizione a quella prospettata dalla “politica della spontaneità”, quella richiamata dal pensatore russo: «risolvere dapprima i problemi teoricamente, per poi convincere della giustezza di questa soluzione l’organizzazione, il partito e le masse».

 

La “cura” al burocratismo, insomma, in ciascun caso risiede nella capacità di ricondurre la parte alla totalità

 

« Occorre necessariamente passare attraverso la specializzazione. Ma il compito è appunto quello di portare ogni vera conquista di un settore particolare in vivo contatto con l’evoluzione della società. […] Si tratta di riunire in feconda armonia questi due poli ancora contraddittoriamente opposti uno all’altro: il completo dominio dei settori particolari che ci sono assegnati, e la connessione vivente e multiforme, atta a fecondare il lavoro singolo, con l’evoluzione della società intera. » (Lukacs, ivi. Corsivo mio)

 

« Chi induce la classe operaia a rivolgere la sua attenzione, il suo spirito d’osservazione e la sua coscienza esclusivamente, o anche principalmente, su se stessa, non è un socialdemocratico, perché per la classe operaia la conoscenza di se stessa è indissolubilmente legata alla conoscenza esatta dei rapporti reciproci di tutte le classi della società contemporanea. […] Se non abbiamo saputo organizzare vaste, clamorose, rapide denunce di tante infamie, la colpa è nostra, è del nostro ritardo sul movimento delle masse. Se lo faremo (e dobbiamo e possiamo farlo), l’operaio, anche il più arretrato, comprenderà o sentirà che lo studente e chi appartiene ad una setta religiosa, il contadino e lo scrittore sono oppressi e perseguitati dalla stessa forza tenebrosa che lo avvolge, l’opprime in ogni momento della vita, e sentendo questo vorrà, vorrà irresistibilmente, intervenire egli stesso, e saprà oggi deridere i censori, domani partecipare a una manifestazione davanti al palazzo di un governatore che ha represso una sommossa contadina, dopodomani dare una lezione ai gendarmi in sottana addetti al lavoro della Santa Inquisizione, ecc. » (Lenin, ivi)

 

11 marzo 2019

 








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