La natura plurale del pensiero

 

Attraverso un “esercizio di pensiero” mostriamo come sia pervasiva e naturale la presenza dell’alterità sia negli spazi pubblici del mondo sia nei nostri luoghi più privati.

 

Individui, soggetti e clienti sono oggigiorno i protagonisti preferiti degli studi teorici contemporanei, dalle scienze sociali e psicologiche all’economia e alle teorie politiche più recenti. Attirate dalla svolta individualista e conservatorista degli ultimi anni, le discipline teoriche si sono concentrate più attentamente sui soggetti al singolare, dimenticandosi che dietro un Io, sta sempre un Altro. Ma come possiamo non tenere conto di ciò che ci sta di fronte e anche intimamente dentro? Attraverso un “esercizio di pensiero” mostriamo come sia pervasiva e naturale la presenza dell’alterità sia negli spazi pubblici del mondo sia nei nostri luoghi più privati: lì dove la nostra bocca non emette suono, ma la nostra mente ha sempre compagnia.

 

Guardando in lontananza il panorama soggettivistico che ci circonda nella vita quotidiana, propongo al lettore un gioco. Prova a chiudere gli occhi e ad immaginarti fuori dal mondo delle apparenze. Ora sei solo senza nulla intorno. Puoi dire, stoicamente, di essere entrato in uno spazio soltanto tuo? Nel tuo angolo separato dal mondo, squisitamente privato, in cui sei libero di immaginare, di fare e di pensare qualsiasi cosa? La risposta immediata è un banale “sì”.

 

Ma, nello stesso momento in cui ci richiudiamo nel pensiero, non si sono intrufolate delle “cose” all’interno del nostro spazio privato? Gli oggetti del pensiero, le cose che siamo liberi di pensare e creare nella mente, sono i primi ostacoli della solitudine che si sperava di trovare.

 

Prendiamo un esempio illustre, tanto caro alla filosofia analitica di W.V.O. Quine: « Il non-essere deve in un certo senso essere, altrimenti che cos’è ciò che non c’è? ». Quest’espressione paradossale è passata alla storia, grazie al paper On What There Is (1948), come la Barba di Platone. Quine, che è interessato soltanto a ciò che è fattuale ed empirico, propone questa metafora in contrapposizione all’ontologia di Platone: posizione che dava dignità ontologica anche ad oggetti che hanno una percettibilità empirica debole e una relativa consistenza d’essere. Mentre Platone portava una barba lunga e piena di entità, Quine, fedele al suo Rasoio di Occam, rimuoveva sempre tutto ciò che non era necessario, tenendo sempre il suo viso glabro e privo di lanugine.

 

Nel nostro cammino, distante dalla posizione di Quine, il piccolo gioco sul filosofo ateniese ci mette davanti la natura oggettuale del pensiero, nel vero senso del termine. Siamo capaci di pensare il non-essere perché il non-essere è “qualcosa”. L’area del pensiero non è vuota, ma è ricca di oggetti e di concetti: le idee.

 

Siamo dentro la nostra stanza privata, ma siamo circondati d’oggetti, o meglio, d’impressioni d’oggetti d’ogni tipo e natura. Ma questi oggetti sono muti. Le idee sono gli elementi del nostro pensiero e del nostro linguaggio, ma una conversazione tra noi e le idee che custodiamo è più che improbabile.

 

Penso che il lettore, che presuppongo sia geloso della sua solitudine, trovi molto piacevole questa soluzione. Abbiamo ridotto le idee ad articoli d’arredamento del nostro sancta sanctorum mentale e siamo ancora liberi di stare soli, con attorno tutto ciò che appare solo a noi ed è unicamente nostro. Per il filosofo ateniese, però, nelle nostre stanze non ci siamo solo noi e i nostri oggetti, ma anche qualcuno di diverso.

 

« Personalmente, sarebbe meglio suonare una lira scordata, dirigere un coro stonato e dissonante, e anche che molti uomini non fossero d’accordo con me, piuttosto che io, essendo uno, fossi in disarmonia e in contraddizione con me stesso. »

 

In questo passo del Gorgia, Platone sembra far cadere Socrate in una spiacevole contraddizione. Come possiamo contraddirci, essere in disarmonia con il sé, se nel pensiero siamo sempre soli? La contraddizione, per definizione, necessita dell’incompatibilità tra due elementi e la disarmonia della mancanza d’accordo tra due o più soggetti che, in questo “essendo uno” socratico, non paiono emergere.

 

Saggiamente, Platone sa bene che quest’“unità” nasconde ben altro sotto di sé. La regione del nostro pensiero, il nostro “essere uno”, non è abitato da una persona sola: siamo sempre in compagnia, coinvolti in un perpetuo dialogo a due: un’ininterrotta conversazione silenziosa tra noi e noi stessi. È questa la dualità che è solo di colui che pensa: interna e privata, ma naturalmente e radicalmente al plurale e, quindi, fondamentalmente politica. La nostra casa è adesso popolata da due persone che sono (quasi) la medesima.

 

« Si chiama coscienza il fatto curioso che in un certo senso sono-per-me-stesso, benché propriamente non possa dirsi che appaio a me stesso; e questo indica come il socratico “essere uno” non sia così problematico come sembra. Io non sono solo per-gli altri, bensì anche per-me; e in quest’ultimo caso, è evidente, io non sono soltanto uno. Nella mia Unità si è insinuata una differenza. »

 

Hannah Arendt, in The Life of The Mind, testo postumo famoso per il suo ritorno alla dimenticata filosofia, ci presenta il nostro io, il nostro due-in-uno, come un’unità sdoppiata, ma radicalmente unita

 

Per natura e per costituzione l’uomo è sia ciò che si mostra agli altri, un “per-gli-altri”, sia ciò che si presenta a se stesso, un “per-me”. Il per-me è l’interlocutore con cui si intrattiene il nostro sé nel dialogo del pensiero.

 

Concediamo, è vero, che è possibile essere in solitudine nel mondo delle apparenze, nel mondo dei per-gli-altri, ma non è sensato ritenere che il dialogo tra me e me stesso possa finire e che si possa essere soli nello spazio del per-me. Non è nelle facoltà umane congedare l’interlocutore, tantomeno arrestare il dialogo intersoggettivo e smettere d’essere presenti a sé. La nascita stessa del pensare, del volere e dell’agire umano è radicata nella natura dialogante e politica dell’uomo che si presenta a sé.

 

Dopotutto, riguardando indietro a ciò che abbiamo articolato, non nego che il nostro problema possa mostrarsi triviale e non mi meraviglierei se il lettore concludesse l’articolo pensando di aver rispolverato ciò che gli era già scontato e, in un certo senso, penso avrebbe ragione a sostenerlo. Se si sostiene che sia ovvia la consapevolezza del nostro pensiero, siamo nel terreno delle cose comuni e ordinarie. Tuttavia, se ci chiediamo quanto siamo effettivamente presenti a noi stessi, la situazione si fa spinosa

 

L’argomento, infatti, diverrebbe irrilevante e ordinario soltanto dopo che questa naturale capacità di essere sempre presenti a noi stessi diventi familiare, così come lo è la precedente consapevolezza di pensiero. Ideale sarebbe che il due-in-uno fosse noto e superfluo per tutti, che si presenti intrinsecamente come il pilastro portante del nostro modus vivendi.  Purtroppo, anche se siamo naturalmente fondati negli altri e nell’altro in noi, non è ancora vietato voltare la faccia al dialogo che sta al di fuori del per-me, proprio perché non si ha ancora la dovuta familiarità con la natura plurale del pensiero. 

 

Non parliamo di altruismo o di cooperazione, ma della mancanza della basilare capacità di ascoltare e di parlare con e tra di noi. Questa perdita non ci permette di comprendere e comprenderci e, successivamente, né di dialogare né di capirci coi nostri vicini. Solo dopo aver inteso la nostra naturale dualità, nel pensiero e nel mondo, si può pensare di partecipare attivamente all’azione dello spazio pubblico condiviso. Per questa ragione, agire e pensare sono intrecciati tra loro. Nel pensiero collaboriamo con noi stessi, ma nel mondo che sta tra noi e gli altri, nel mondo in cui si appare e ci si mostra per ciò che si è (e non sempre, purtroppo), si agisce con e grazie agli altri.

 

L’azione, a cui Hannah Arendt era particolarmente affezionata, è politica e plurale: si sprigiona nel mondo grazie a “noi”, all’Io e all’Altro che trovano il modo di intendersi e parlarsi, di arricchirsi e svilupparsi. Ed è solo l’agire in concerto a fare dell’uomo l’animale che Aristotele definiva “politico”: la persona capace di agire e di sviluppare i progressi e gli infiniti futuri delle unite-ma-plurali comunità umane.

 

 7 gennaio 2019

 









  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica