Sul male

 

Perché esiste il male? L’eco di tale domanda risuona ancora più forte se accanto alla parola male si pone la parola Dio.

Giorgio De Chirico, "L'enigma dell'arrivo e del pomeriggio" (1911)
Giorgio De Chirico, "L'enigma dell'arrivo e del pomeriggio" (1911)

 

Tutta la storia dell’uomo è segnata dal cosiddetto “male gratuito”, ossia veri e propri atti di bruta e cieca violenza, da un lato, e dal dolore e dalla rabbia perfettamente rappresentati dalle morti “inaccettabili”, dall’altro. Allora la domanda sorge spontanea, trattandosi di una domanda piuttosto antica: perché esiste il male? L’eco di tale domanda risuona ancora più forte se accanto alla parola male si pone la parola Dio. Posta, infatti, l’esistenza di Dio, come può esistere il male? Essendo Dio onnipotente, perché il male non viene impedito? Naturalmente l’esistenza di Dio, ai fini di una esaustiva trattazione del delicato argomento in questione, verrà assunta per certa. In realtà, però, va subito premesso che si tratta di un argomento “iperinflazionato”, essendo stata la questione del male abbondantemente affrontata sia in ambito teologico che in ambito filosofico.

 

Tradizionalmente, la figura di Dio – le varie confessioni religiose, da questo punto di vista, sono irrilevanti – rappresenta la perfezione; Campanella, per esempio, riferendosi a Dio, parla di infinito, le cui tre primalitas (potenza, sapienza e amore), a differenza dell’uomo, non conoscono limitazioni. Ammettere limitazioni, infatti, significherebbe uscire dalla perfezione e, conseguentemente, allontanarsi da Dio stesso per avvicinarsi a dinamiche prettamente “umane”. Ecco perché il filosofo di Stilo, riflettendo sull’uomo, introduce tre significative limitazioni (impotenza, ignoranza e odio) accanto alle succitate tre primalitas; limitazioni che in quanto tali rendono l’uomo “uomo” e pertanto imperfetto e limitato.

 

Tornando a Dio e, nello specifico, alla visione tradizionale di Dio, un Dio “malvagio” e quindi dedito al male, in modo diretto o indiretto che sia, sarebbe nettamente antitetico alla figura di Dio stesso; in altri termini, il male o, citando Cartesio, un “genio malefico” sarebbe indice di imperfezione, finitudine e limitazione. Il che, rispettando il più banale dei procedimenti logici – non si tratta affatto di sofismi –, ancora una volta ci allontanerebbe dalla figura di Dio. Non a caso il padre del razionalismo moderno, nella propria speculazione filosofica, attribuisce a Dio il ruolo di garante di verità e ciò non è affatto il risultato di un atto di fede, bensì di una diretta e razionale conseguenza della prima delle certezze derivanti dal cogito. Dunque, il male non può essere ricondotto a Dio e, tenendo in considerazione l’impossibilità di accostare il male a Dio (il primo concetto ripugna il secondo e il secondo ripugna il primo), allora non resta che indagare necessariamente la natura dell’uomo e il male stesso. Prima di fare ciò, però, occorre formulare una risposta alla più scontata delle domande: perché Dio non interviene per impedire il male? Tralasciando la questione del libero arbitrio – almeno da un punto di vista meramente teologico –, che già di per sé rappresenta una valida e razionale risposta, occorre confrontarsi con la natura stessa delle azioni. Esse, difatti, non sono altro che pensiero e volontà oggettivati. L’uomo è uomo perché, a differenza degli animali, è dotato di ragione; la ragione, dunque, rappresenta, potremmo dire, l’attributo sostanziale dell’uomo: non ci può essere uomo senza ragione e la ragione non può sussistere senza l’uomo. Detto questo, qualsiasi azione rappresenta una concretizzazione sia della volontà che del pensiero; la prima si rifà anche alle passioni o istinti, mentre il secondo è riconducibile all’ambito della ragione. Ora, un Dio che intervenisse nelle azioni umane, impedendo il male, per forza di cosa, dovrebbe intervenire, in primo luogo, anche nel pensiero e nella volontà umani, presupposto di qualsiasi azione; in poche parole, l’intervento divino in questione priverebbe l’uomo dei suoi attributi sostanziali. Così, ci si ritroverebbe nella paradossale situazione di dover ammettere l’esistenza di un uomo non uomo o, per meglio dire, di un uomo/burattino, il cui pensiero sarebbe oggetto di significativi e strutturali limiti o, peggio ancora, divine censure, da un lato, e la volontà del quale sarebbe sorda ai primordiali appetiti sensibili, dall’altro. Il raccapricciante scenario che si verrebbe a prospettare sarebbe quello di una sorta di involucro di carne morta, in luogo di ciò che chiamiamo uomo.  

 

René Magrittem "La riproduzione vietata" (1937)
René Magrittem "La riproduzione vietata" (1937)

 

Tralasciando la figura di Dio, occorre, adesso, soffermarsi sulla natura umana: come si è detto, l’uomo è dotato di ragione e corpo, alcuni atti, quindi, sono riconducili alla ragione, altri, invece, al corpo. A voler essere più specifici, si potrebbe dire che tutto ciò che concerne il pensiero è riconducibile alla ragione, mentre le varie inclinazioni sensibili sono riconducibili al corpo. Si apre, allora, una sorta di dualismo che, in parole povere, potrebbe essere riassunto come un dualismo tra spirito e materia o ragione e passione o anima e corpo. In ogni caso, si tratta di un dualismo caratterizzante la natura umana e, come tale, inevitabile. I greci, parlando della ragione, avevano sapientemente utilizzato l’espressione “scintilla divina”, vale a dire un elemento così importante da allontanare l’uomo dagli animali e avvicinarlo al divino. Aristotele, per esempio, giustificava la schiavitù, in virtù della mancata partecipazione della ragione da parte dei “barbari”, ossia dei popoli non greci. Il mancato uso della ragione, per lo stagirita, svuotava l’uomo della propria essenza, rendendolo inevitabilmente simile a una bestia. Da quanto detto, allora, si potrebbe benissimo affermare che l’esercizio della virtù è indissolubilmente legato all’esercizio della ragione, che a sua volta rappresenta il compito dell’uomo. Difatti, l’uomo che fa uso della ragione è l’uomo che, consapevole dei propri limiti, va alla ricerca; la ricerca, implicando sempre una mancanza o, per meglio dire, la consapevolezza di una mancanza, spinge l’uomo sulla strada della perfettibilità. È lecito asserire, allora, che ricercando l’uomo perviene alla conoscenza e la conoscenza è il punto di partenza per una nuova ricerca, essendo preclusa a esso una conoscenza assoluta e definitiva. Si innesca così una sorta di circolo virtuoso, attraverso il quale l’uomo può effettivamente migliorare se stesso e, per riflesso, anche il mondo che lo circonda, facendo leva sull’elemento più nobile e caratteristico: la ragione. Come afferma Spinoza, per l’uomo vale l’equazione agere = intelligere e su tale equazione dovrebbe basarsi tutta la propria esistenza.

 

Questa, però, è soprattutto possibilità; l’uomo, infatti, è chiamato costantemente a scegliere e a prendere delle decisioni; la scelta è assolutamente libera e tale libertà espone inevitabilmente l’uomo al rischio del fallimento, allontanandolo da ciò che è strutturalmente più consono alla propria natura ed esponendolo conseguentemente al male. E qui entrano in gioco le passioni, che, come si è detto, sono riconducibili al corpo. Le inclinazioni sensibili, avvicinando l’uomo all’animale, finiscono per entrare in collisione con i dettami della ragione, generando una sorta di braccio di ferro, che, nelle menti meno avvezze al pensiero critico, è destinato a produrre una sconfitta della ragione e un inevitabile e conseguente modo di agire irrazionale o “animalesco”. Ogni uomo, inoltre, è provvisto di volontà, quindi ogni uomo inconfutabilmente vuole e desidera ciò che gli manca, perché il desiderio è soprattutto eterna “mancanza”. Da questo punto di vista, si potrebbe affermare che ogni uomo è libero di fare ciò che vuole, ma non può non volere, ossia non è libero di non volere, in quanto la volontà stessa ha la natura del desiderio. La libertà, se si segue questo ragionamento, non può esistere, essendo l’uomo schiavo della propria volontà e, pertanto, in un certo senso, schiavo delle proprie passioni e della propria natura. Il dualismo tra ragione e sensibilità appare sempre più forte. Ciononostante, l’uomo, volente o nolente, si ritrova a dover decidere, a dover scegliere tra le varie possibilità che la vita e l’esistenza stessa gli presentano. Se la scelta è determinata dall’uso della ragione e, quindi, dalla consapevolezza del suddetto dualismo, allora la possibilità di compiere il male si riduce notevolmente; viceversa se la scelta è determinata dalle passioni, il male, inevitabilmente, è dietro l’angolo. Le passioni, infatti, rappresentano una sorta di vittoria del particolare sull’universale e, di conseguenza, allontanano significativamente l’uomo dalla dimensione che più gli è propria: la dimensione sociale. Colui che, infatti, decide di soddisfare, uno dietro l’altro, i propri bisogni, senza considerazione alcuna per l’altro, ha abbandonato la dimensione sociale, facendo del proprio utile la verità assoluta e del proprio “stomaco” l’unico legislatore. Pertanto, solo una solida egemonia della ragione sulle passioni può scongiurare la possibilità del male.

 

Le parole del filosofo inglese Locke, al riguardo, si rivelano piuttosto decisive:

 

« Poiché ci sono in noi un gran numero di disagi, che urgono sempre e sono pronti a determinare la volontà, è naturale, come ho detto, che quello più grande è più pressante debba determinare la volontà alla prossima azione; e così accade nella maggior parte dei casi, ma non sempre. Infatti per lo più la mente ha, com’è evidente nell’esperienza, il potere di sospendere l’esecuzione e la soddisfazione di uno dei suoi desideri e anche di tutti, uno dopo l’altro; e così è libera di considerare gli oggetti di essi, di esaminarli da ogni lato e di soppesarli in rapporto ad altri. In ciò sta la libertà dell’uomo; e dal non usarla giustamente proviene tutta quella varietà di sbagli, errori e difetti cui andiamo incontro nella condotta della nostra vita e negli sforzi che facciamo verso la felicità, mentre precipitiamo la determinazione della nostra volontà e c’impegniamo troppo in fretta prima di aver esaminato debitamente la cosa. Per ovviare a ciò, abbiamo il potere di sospendere il perseguimento di questo o quel desiderio, come ognuno può sperimentare in se stesso. A me sembra che in questo sta la fonte di ogni libertà; in questo pare che consista ciò che è chiamato (impropriamente, a mio parere) libero arbitrio. Infatti, durante la sospensione di un desiderio qualunque prima che la volontà sia determinata all’azione e che l’azione (che segue quella determinazione) sia compiuta, abbiamo l’opportunità di esaminare, vedere e giudicare del bene o del male di ciò che stiamo per fare; e quando, dopo il debito esame, abbiamo fatto tutto ciò che possiamo o dobbiamo fare per il perseguimento della nostra felicità. E non è un difetto, bensì una perfezione della nostra natura, che si desideri, si voglia e si agisca secondo l’ultimo risultato di un esame equo. » (J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, II, xxi, 48).  

 

John Locke (1632-1704)
John Locke (1632-1704)

 

In ogni caso, resta, l’assoluta inconsistenza del male stesso: il male, non avendo una propria essenza, è sempre e unicamente determinato da una scelta, una scelta che allontana l’uomo dall’uomo, ma che, in quanto tale, è solo riconducibile alle qualità umane meno nobili e alla stessa natura umana (imperfetta e limitata). L’aggettivo banale, in riferimento al male, è l’aggettivo che rende meglio l’idea; non a caso, Arendt, una delle più brillanti menti del Novecento, parla esplicitamente di “banalità del male”. Si potrebbe, pertanto, affermare che nel momento in cui l’uomo rinuncia alla perfettibilità, vale a dire a quel perfezionamento dell’essere in quanto essere, che rappresenta il campo d’azione proprio e caratteristico dell’uomo, opta per un cedimento della ragione alle inclinazioni sensibili e, quindi, per una significativa e fatale rinuncia dell’universale in nome del particolare, operando una importante lacerazione e con la dimensione sociale e con la parte più nobile di se stesso. Ed è qui che si possono intravedere le radici di quelle scelte errate che inevitabilmente conducono a operare il male. Infine, l’uomo che rinuncia all’universale in nome del particolare, facendo leva esclusivamente sulla primordiale legge delle passioni, è destinato ad allontanarsi anche dalla comprensione del mondo e a soccombere inevitabilmente alla natura. Così tutto quello che è istintivamente giudicato inaccettabile resterà tale e perfino la morte, che i greci consideravano elemento indispensabile di ordine cosmico, verrà ostracizzata e giudicata male assoluto, in virtù dell’irrazionale e cieco elogio della materia. In luogo della consapevolezza della finitudine, espressa dalle parole «Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Mt 25,13), si avrà, allora, una fallace quanto cieca pretesa di immortalità, all’insegna dell’egemonia della sensibilità sulla “scintilla divina”.

 

Adesso si può rispondere alla domanda iniziale e la risposta è una risposta piuttosto “banale”, tanto banale quanto la domanda: il male esiste perché esiste l’uomo. Evocando il mito di Er, nel momento della scelta dei vari “modelli di vita”, le anime erano chiamate da un araldo che, nel mettere in risalto l’assoluta libertà della scelta, proclamava:

 

« Non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliere il vostro demone. » (Platone, Repubblica, X, 617e)

 

12 gennaio 2019

 









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