Evoluzione del darwinismo, ma attenzione al terrapiattismo

 

Il darwinismo è profondamente cambiato nel tempo. I meccanismi dell'evoluzione rinnovano il loro mistero, presentando nuove sfide alle nuove scoperte. Invece, invariabile e riconoscibile è sempre la presunzione antiscientifica che mena dietro all'intelligenza come la sua ombra.

 

di Gabriele Zuppa

 

 

Il dibattito sul darwinismo è uno dei grandi capitoli della storia della scienza: per la sua durata, che dall'Ottocento si protrae fino all'attualità; per la sua estensione, nel numero dei campi del sapere coinvolti; per la sua portata concettuale, che informa l'ordinaria autorappresentazione dell'uomo.

 

Per queste ragioni, per questa complessità, è già difficile sapere che cosa si intenda quando di parla di darwinismo. Darwin lo si conosce come il padre della biologia moderna. Pronunciarsi in direzione contraria sembra non poter che significare un atteggiamento anacronistico.

 

A tal punto che, spesso, un fecondo dibattito scientifico può assumere le sembianze di una controversia da stigmatizzare tra veri depositari della scienza e millantatori retrogradi da Medioevo.

 

Prendiamo il caso esemplare di un articolo apparso su «Focus» nel settembre del 2017, Un nuovo tentativo di screditare Darwin e la teoria dell'evoluzione, a firma di Marco Ferrari.

 

Si legge, ad esempio:

 

« In questi ultimi venti, trent’anni sono però arrivati alcuni libri decisamente antievoluzionisti. Tra i primi ci sono quelli del genetista (e quindi teoricamente esperto conoscitore della materia) Giuseppe Sermonti, che in pubblicazioni come Perché la mosca non è un cavallo? (il titolo è decisamente curioso), smonta a modo suo l’intera costruzione della teoria evolutiva, con obiezioni che risalgono però a decenni prima e che sono proprie del creazionismo americano meno “evoluto”: nei suoi lavori, spesso, dati e argomenti sono discutibili e sono frequenti i richiami religiosi. »

 

Oppure:

 

« L’inizio degli anni 2000 vede anche la pubblicazione in Italia di un libro che ha un minimo di sostanza e che basa la sua critica a Darwin su una parvenza di scientificità: Gli errori di Darwin, di Massimo Piattelli Palmarini (esperto scienze cognitive) e Jerry A. Fodor (scienziato cognitivo e filosofo del linguaggio). La loro critica è basata sull’ipotesi che i fattori esterni dell’evoluzione (come la selezione naturale) non siano sufficienti, anzi non servano proprio, a spiegare l’evoluzione, che sarebbe spinta solo da fattori interni come lo sviluppo dell’individuo. »

 

Iniziando da quest'ultimo, vediamo che questo saggio viene annoverato tra l'elenco delle posizioni antievoluzioniste e che a dire dell'articolista baserebbe «la sua critica a Darwin su una parvenza di scientificità».

 

Il che cozza con quanto affermano i due autori, che si legge già nella quarta di copertina:

 

« Oggi [...] possiamo affermare con certezza che i viventi evolvono. Quali siano i meccanismi che innescano il cambiamento è questione controversa e non ancor del tutto chiara. »

 

Ma che dire della «parvenza di scientificità», quando nel capitolo Un dialogo amichevole con Telmo Pievani, contenuto nell'Aggiornamento per l'edizione italiana, viene esplicitata la concordanza sostanziale tra Piattelli Palmarini e Telmo Pievani, il “mastino” italiano di Darwin? Nel merito delle questioni principali trattate, sulle quali Pievani si sofferma a puntualizzare, Piattelli Palmarini scrive:

 

« siamo d'accordo e penso proprio che lo diciamo espressamente. »

 

Su cosa dissentono allora? Lo spiega Piattelli Palmarini:

 

« Pievani considera tutto ciò un allargamento della teoria della selezione naturale, un pluralismo darwiniano che va propagato e rafforzato, ma non sovvertimento del neo-darwinismo, come invece Fodor e io sosteniamo. »

 

Così scrive Pievani a Piattelli Palmarini:

 

« Non c'è quindi un'intera “nuova biologia” emergente, ma una evoluzione (sì profonda) del programma di ricerca neodarwiniano; altrimenti le citazioni che usate, estrapolate dal contesto, sembrano assumere un significato troppo radicale, che non hanno nella realtà (come nel caso di mutazioni sistemiche improvvise che darebbero origine, normalmente, a nuove specie: non è così se non in casi circoscritti). Secondo me questo è fuorviante rispetto al reale dibattito in corso: credo che avessero ragione Gould e Lewontin nel 1979 a prevedere che la selezione naturale sarebbe stata ampiamente riconsiderata nel suo funzionamento come fattore non unico di cambiamento evolutivo, ma pure sempre “il più importante”. »

 

Dissentono dunque su due aspetti. Una questione terminologica: la profonda revisione del programma di ricerca neodarwiniano – sulla quale concordano – deve far cambiare nome al programma? E quest'altra: quale è il peso della selezione naturale nell'evoluzione? Maggiore o minore rispetto degli altri fattori che concorrono all'evoluzione? La domanda è importante, ma è oziosa rispetto alla conoscenza della complessità da valutare nei piatti della bilancia che fanno propendere per il più o per il meno. Allora non è così importante che ci si metta da una parte o dall'altra, ma che si conosca il merito della mole di risultati (inaspettati) ottenuti e la vastità delle domande inevase. Le obiezioni avanzate a Darwin, le correzioni profonde che sono state apportate alla prima formulazione della sua teoria non sono obiezioni antiscientifiche, ma argomentazioni, ipotesi, dubbi, perplessità che appartengono al processo scientifico stesso. Ha senso liquidare una posizione perché si conosce solo la volontà di definirsi antidarwiniana, senza conoscere il valore delle considerazioni che vengono portate? E ha senso liquidare un dibattito per questioni lessicali, senza considerare la complessità scientifico-filosofica che porta con sé e che legittima tentativi che, se approfonditi, appaiono tutt'altro che banali, peregrini, oscurantisti?

 

Non è una tesi a definire il grado di scientificità della stessa, ma il livello dell'argomentazione che la sostiene. Così definirsi evoluzionisti con poca chiarezza sui perché non rende più scientifici di chi si professi perfino antievoluzionista, ma con cognizione di causa, ovvero con ragioni superiori a chi abbraccia astrattamente la posizione contraria o, dovremmo asserire, l'aggettivo contrario – non sapendo in realtà quale sia la posizione ad esso sottostante.  

 

 

Prendiamo ora il caso di Sermonti, la cui critica dell'evoluzionismo – come recita il sottotitolo del suo Dopo Darwin (1980) scritto con il paleontologo Roberto Fondi – è radicale. Per ragioni di spazio, limitiamoci a un aspetto e leggiamo:

 

« [Questo è] ciò che potremmo chiamare la verità cardinale e preminente delle testimonianze fossili, qualcosa che i paleontologi di professione hanno imparato non appena vennero sviluppati strumenti adeguati per un'analisi stratigrafica attendibile dei reperti fossili inseriti in una scala temporale: la stragrande maggioranza di specie scompare in modo improvviso, su scala geologica, nelle testimonianze fossili e poi persiste immutata fino all'estensione. I caratteri anatomici possono fluttuare nel tempo, ma le ultime testimonianze fossili di una specie somigliano di solito a quelle dei suoi primi rappresentanti. […] non abbiamo scoperto, e nemmeno riscoperto, questa realtà di base della paleontologia. I paleontologi hanno sempre riconosciuto la stabilità della maggior parte delle specie per lunghi periodi. Ma noi eravamo divenuti più che leggermente sorpresi da questo forte e coerente indizio, dal momento che la teoria dominante della nostra cultura scientifica ci spronava ad andare in cerca degli opposti risultati di un'evoluzione graduale come espressione empirica fondamentale del soggetto prediletto da un biologo: l'evoluzione stessa. »

 

Perché? Per ragioni scientifiche non ancora esplicitate? No, tutto all'opposto.

 

« La paradossale risposta di Darwin di fronte alle osservazioni della paleontologia […] è […] esplicita in un'altra memorabile affermazione scritta ne L'origine delle specie […]. Darwin riconobbe di aver compreso quanto incompleti fossero i dati geologici solo quando le prove paleontologiche della stasi e della brusca comparsa delle specie minacciarono di confutare il gradualismo che egli “sapeva” essere vero: «Tuttavia, ammetto che non avrei mai sospettato che misera testimonianza dei cambiamenti delle forme di vita la sezione geologica meglio conservata presentasse, se la difficoltà posta dalla nostra incapacità di trovare innumerevoli forme di transizione tra le specie che sono comparse all'inizio e alla fine di uno strato non fosse stata tanto importante per la mia teoria» […]

 

[S]e seguiamo l'illuminante principio della falsificabilità empirica come criterio delle teorie forti e vita della scienza, dobbiamo considerare la strategia di Darwin come un misero espediente per difendere il gradualismo. »

 

Come ha reagito la comunità “scientifica” innanzi a ciò? Il racconto è sconcertante.

 

« Le cognizioni comuni in una professione finiscono spesso con il non essere riportate nella letteratura tecnica per due motivi: non si devono raccontare luoghi comuni agli esperti; e non si dovrebbe tentare di dare spiegazioni ai non adepti in pubblicazioni che non leggeranno. La perdurante stasi, che segue un'origine improvvisa su scala geologica, della gran parte delle morfospecie è stata sempre nota ai paleontologi professionisti […].

 

Ma un altro motivo, oltre alla tacita condivisione delle conoscenze, si manifestò e condusse, in modo ben più attivo, il concetto di stasi verso l'oblio letterario. L'evoluzione darwiniana divenne la grande novità intellettuale del tardo XIX secolo e la paleontologia custodiva gli archivi della storia della vita. Darwin dichiarò transizioni graduali e impercettibili come il modello canonico prevedibile per il manifestarsi dell'evoluzione nelle testimonianze fossili. Ovviamente, egli sapeva che ricostruzioni dettagliate della storia di una specie di rado mettono in luce un simile modello, per cui spiegò la concreta apparenza della stasi e di un brusco ricambio come un artefatto di una documentazione fossile deplorevolmente incompleta. In questo modo, i paleontologi potevano essere dei bravi darwinisti pur riconoscendo la realtà di base della loro professione – benché unicamente al prezzo di un vergognoso imbarazzo. »

 

Come dobbiamo considerare questa incredibile testimonianza, questo resoconto inverosimile? Se un antievoluzionista se ne esce con tali resoconti, ci deve essere qualcosa che non va – pensiamo subito. No? È l'ideologia a parlare – ci si dice –, non la scienza. È un complottista, magari, si prosegue. Lo si deride, quindi, con un bel “gomblotto”. Forse nessuno di noi questa volta l'avrà fatto – mi auguro. Poiché se l'avesse fatto, in lui, sarebbe stata l'ideologia a parlare, non la scienza. Sarebbero stati il suo complottismo inconsapevole, la sua faciloneria antiscientifica. Queste parole, che Sermonti e Fondi sottoscriverebbero, sono infatti di un evoluzionista e un darwiniano come il celebre Stephen Gould, nella sua opera monumentale La struttura della teoria dell'evoluzione.

 

Riusciamo a vedere che l'etichettarsi in un modo o nell'altro e ciò che viene da ultimo è, in definitiva, di scarsa rilevanza? Riusciamo ad intravvedere che non è la formulazione finale a restituire il nostro grado di scientificità, ma il processo che noi stessi siamo riusciti a svolgere? Non è grottesco che obiezioni pertinenti se avanzate da chi si epiteta in un certo modo vengano più accettate da chi si epiteta in altro modo?

 

Certo non è facile mettersi a studiare Darwin, le sue opere e le sue lettere, il secolo in cui visse, gli sviluppi del darwinisimo e del neodarwinismo, e tutte le discipline che partecipano a delineare una teoria generale sui viventi e sull'uomo: dalla genetica all'epigenetica, dalla biologia molecolare alla fisica, dall'ecologia all'antropologia, dall'epistemologia alla filosofia tutta. Definirsi pro o contro Darwin, evoluzionisti o antievoluzionisti, ha valore solo proporzionalmente alla chiarezza raggiunta su quella complessità implicata, e a quella ci si dovrebbe rivolgere. Sì che sia darwinisti sia antidarwinisti, evoluzionisti e antievoluzionisti, partecipano allo sviluppo scientifico e rappresentano in gradi differenti la scienza – al di là dell'etichetta, al di là del guscio vuoto che solo la fatica della ricerca e del pensare possono sostanziare.

 

L'evoluzione del darwinismo non mancherà di sorprenderci; nel frattempo, però, guardiamoci dal fare i terrapiattisti sostenendo la sfericità della terra, distinguendoci da coloro che denigriamo solo per pronunciare vuote parole – non per la sostanza argomentativa. Terrapiattista è chi il terrapiattista fa.

 

24 maggio 2019

 









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