La necessaria attualità della religione eterna

 

L’epoca attuale ha definitivamente sancito la morte di Dio. La mentalità comune intende questa rivoluzione come un’enorme conquista, ma forse le nuove catene della presunta libertà sono ancor più opprimenti per il nostro spirito.  

 

di Antonio Andretta

 

E. Munch, “I geni. Ibsen, Nietzsche e Socrate”, 1909
E. Munch, “I geni. Ibsen, Nietzsche e Socrate”, 1909

 

La scorsa e la presente generazione sono state testimoni e artefici di un importante e radicale cambiamento d’intendere e rapportarsi alla conoscenza e alla realtà: la volontà, o, per meglio dire, intenzione, di seppellire e, talora, quasi rinnegare l’apparato teologico e più specificatamente cristiano che è stato anima e propulsore dello sviluppo della cultura e mentalità occidentale. Questa propensione trova le sue fondamenta nel nichilismo tipicamente moderno e, ancor più, postmoderno, e, per quanto specificamente concerne il tema qui approfondito, sembra porre i suoi pilastri nelle riflessioni che, a riguardo, sono state formulate da Feuerbach e Nietzsche e che, in seguito, saranno trattate. Ovviamente, data la natura generalmente approssimativa e inconsistente delle propensioni delle masse, figlie spesso inconsapevoli del momento storico cui appartengono, anche la soppressione della religione ha ereditato tali caratteri, assumendo la connotazione di una pretesa superficiale e di una vana astrazione che ha sommamente e anche formalmente sancito la morte della morale.

 

Ogni confessione religiosa sembra essere formata da due apparati, complementari e funzionali l’uno all’altro, per quanto logicamente distinti. Il primo si potrebbe definire “superstizioso”: esso comprende, infatti, l’insieme di racconti di episodi e vicende non storicamente e/o razionalmente comprovabili o verificabili che costituiscono lo scheletro mitologico/leggendario che distingue e definisce ciascuna fede rispetto alle altre e che fa da sostegno al secondo. Quest’ultimo, che si potrebbe definire “concettuale”, riguarda, invece, l’insieme dei precetti e dei dogmi che formano il tessuto vero e proprio di ciascuna confessione religiosa, identificando il fedele e permettendogli a sua volta di identificarvisi. Interessante è osservare che, nonostante la distinzione logica delle due componenti, la loro coesione si rivela storicamente necessaria. È invero evidente, considerando i periodi storici nei quali le diverse confessioni si sono sviluppate, che, per diffondersi e attecchire in profondità in un genere umano così (letteralmente) ignorante e, soprattutto, in larghissima parte analfabeta, esse necessitavano di un linguaggio di espressione consono a tale scopo: quello dei miti e delle leggende, capaci di ‘spiegare’ l’ignoto e di acuirne il timore e, dunque, di imporre regole di comportamento. Così, in generale, si configura il legame di necessità che ha unito lo sviluppo dell’apparato “superstizioso” a quello “concettuale”.

 

Considerando il decorso della storia, si può facilmente, e forse amaramente, notare che la componente “superstiziosa” è stata assolutamente preponderante e ha, come appare più o meno chiaramente ai nostri occhi occidentali e postmoderni, rozzamente oscurato e travisato l’apparato teoretico, tanto da farlo quasi ‘dimenticare’ (nell’accezione del termine legata per opposizione al concetto di preponderanza). Numerosissimi esempi possono essere citati per chiarire e confermare questa considerazione Fra questi: le crociate, propugnate come guerre a difesa della fede cristiana dalla minaccia islamica, che, a uno sguardo storicamente avveduto, si mostrano come tentativi di espansione politica e di arricchimento economico, ossia come mera brama di potere, la cui evidente contraddittorietà rispetto ai principi cristiani può essere peraltro facilmente palesata dalla lettura anche solo superficiale di uno qualsiasi dei Vangeli; la vendita delle indulgenze operata da papa Giulio II, che faceva sì capo al fondamentale dogma cristiano del perdono dei peccati, ma che fu messa in atto per alimentare lo sfarzo del pontificato e per consentire la costruzione e l’ampliamento della Basilica di San Pietro; gli attacchi terroristici che negli ultimi decenni dilagano nel mondo, facenti capo a organizzazioni radicalizzate, attacchi che hanno origine dall’estremizzazione e astrazione del concetto di “jihad”, ossia “guerra santa” contro i nemici dell’Islam, la cui attuale modalità di espressione può essere sfatata dall’interpretazione che il Corano stesso suggerisce per questo concetto (in esso, infatti, il termine è utilizzato solo quattro volte, nessuna delle quali facente riferimento alla lotta armata).

 

È evidente, per il loro stesso carattere e anche per il momento storico o luogo nel quale sono avvenuti, che questi eventi possono essere considerati come operato di coloro che (rispetto agli esempi trattati i Pontefici cattolici e gli Imam islamici), trovandosi in posizioni di potere rispetto alla società (rispetto agli esempi riportati identificabile con la comunità dei fedeli) e godendo, inoltre, di maggior istruzione e avvedutezza, hanno potuto e saputo sfruttare la diffusa ignoranza della popolazione, imponendo ed esaltando l’astrazione mistificata dei culti religiosi, che bene si prestano a questo genere di distorsioni, data la loro duplice natura.  

 

G.P. Pannini, “La predicazione dell’apostolo Paolo”, 1744
G.P. Pannini, “La predicazione dell’apostolo Paolo”, 1744

 

La società attuale si trova in una situazione radicalmente differente. Protagonista di un progresso conoscitivo di rapidità inaudita e senza precedenti, inteso sia come puramente teorico che come tecnico e applicato, essa ha a disposizione l’accessibilità massima (rispetto alle epoche precedenti) alla conoscenza e ai mezzi per ottenerla. Questa nuova condizione ha fatto venir meno il vincolo di necessità che precedentemente teneva legati l’apparato “superstizioso” a quello “concettuale” e, soppiantando la cieca fede nella verità rivelata con quella nella ‘scienza’ e nel ‘progresso’, ha anche sradicato le fondamenta sulle quali poggiava la prima componente, senza aver avuto, però, cura di costruirne di nuove che consentissero alla seconda di ottenere il suo pieno sviluppo in modo finalmente autonomo, così trascinandole entrambe nell’oblio del “ridicolo”.

 

Molti sono stati, infatti, i filosofi e pensatori moderni che si sono impegnati in una critica alla religione che ha avuto come snodo essenziale lo smascheramento del carattere fantastico dell’entità divina e dell’empirica superstiziosità del suo culto. Credo che i più importanti esempi in questo senso, per l’influenza che inconsapevolmente esercitano sull’opinione comune contemporanea (che per molti versi sembra uniformarvisi), siano quelli di Feuerbach e Nietzsche.

 

Secondo il primo la religione è la proiezione ovvero, meglio, l’oggettivazione illusoria di qualità umane, delle ‘perfezioni’ caratteristiche della nostra specie, in un presunto essere divino: «La religione è l’insieme dei rapporti dell’uomo con se stesso, o meglio con il proprio essere, riguardato però come un altro essere [...]. Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono qualificazioni dell’essere umano» (L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo). Dio, pertanto, non è altro che una creazione dell’uomo, la cui idea ha origine nell’opposizione tipicamente umana tra volere e potere, che porta l’individuo a costruire l’immagine di un’entità in cui tutti i suoi desideri siano realizzati: «Nel volere, nel desiderare, nel rappresentare l’uomo è illimitato, libero, onnipotente  è Dio; ma nel potere, nell’ottenere, nella realtà egli è condizionato, dipendente, limitato» (L. Feuerbach, L’essenza della religione). Altro fattore al quale Feuerbach attribuisce la genesi primordiale dell’idea di Dio è il sentimento di dipendenza che l’uomo prova di fronte alla natura, che l’ha spinto ad adorare quelle cose senza le quali non potrebbe esistere. Dio, dunque, non è che lo specchio dell’uomo. La conclusione che egli trae da quest’interpretazione è che la religione costituisca un tentativo, grandemente distorto, di prima comprensione dell’essenza umana, la cui corruzione si manifesta nell’alienazione che da essa scaturisce: l’essere umano, ‘scindendosi’, proietta fuori di sé una potenza superiore alla quale si sottomette. Tale potenza si fonda e si accresce sull’inconsapevole e a ciò funzionale screditamento da parte dell’uomo di se stesso: «La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana».

 

Anche Nietzsche concentra la sua riflessione sul significato da attribuire all’entità divina a partire dalla comprensione delle ragioni della sua origine prima. Egli sostiene che Dio sia il mezzo mediante cui l’uomo ha cercato di dare senso al suo essere, ponendolo al di là di esso, ossia in un altro mondo contrapposto a questo, in una fuga dalla realtà della vita: «Dio, la formula di ogni calunnia dell’“aldiquà”, di ogni menzogna dell’“aldilà”» (F. Nietzsche, L'anticristo). A questa forma di disperata alienazione egli intende contrapporre la propria accettazione dionisiaca della vita. Inoltre, allo stesso modo e conseguentemente, Dio è rappresentato come personificazione delle certezze ultime dell’umanità, l’immagine attiva, consolatoria e onnipresente di un cosmo ordinato e benefico, che non risulta essere altro che una costruzione della mente umana finalizzata a spiegare, ordinare e aver l’impressione, o, per meglio dire, la speranza, di domare il caos del mondo e la durezza dell’esistenza: Dio «è la nostra più lunga menzogna» che ha consentito a noi stessi di sopravvivere autoconvincendoci che il mondo sia qualcosa di logico, benefico e provvidenziale, nascondendo il volto caotico e indifferente del meccanismo naturale. A fronteggiare questa ‘nuova’ realtà, l’uomo, liberatosi di ogni sua guida, rimane solo e perciò si vede costretto a mutare il rapporto che ha con essa, e dunque se stesso. Alla morte di Dio deve seguire la nascita del superuomo: libero dai pesi della tradizione, dai fardelli metafisici ed etici egli deve abbandonare l’imperativo “tu devi”, espressione di cieca devozione, in favore dell’autodeterminante “io voglio”, accettando la propria vita come creatrice di se stessa al di là delle superate categorie del bene de del male.

 

G.W.F. Hegel e L. Feuerbach
G.W.F. Hegel e L. Feuerbach

 

Nonostante ritenga che la maggior parte delle asserzioni di cui si compongono queste riflessioni analitiche siano in larga misura condivisibili, credo anche che la loro finalità puramente distruttiva rispetto all’apparato “superstizioso” sia in un certo senso superficiale o, quantomeno, limitante, poiché, aprendo la strada al crollo degli assoluti, sotto le macerie dei quali è rimasto sepolto vivo anche l’apparato “concettuale”, hanno definitivamente sancito l’avvento del nichilismo vero e proprio, in proposito riassumibile nella celebre formula «Dio è morto» (F. Nietzsche, La gaia scienza).

 

Io penso preferibile, o, in prospettiva più ristrettamente empirica, funzionale, giudicare Dio ancora vivo e vegeto, onnipresente e onnisciente com’è sempre stato. In proposito, la riflessione di Hegel sembra poter riassumere gli aspetti condivisibili sia di quella di Feuerbach (che, curiosamente, fu storicamente una critica alla visione hegeliana) che di quella di Nietzsche in un quadro più ampio, completo e ‘incoraggiante’. Snodo centrale della riflessione del sommo idealista tedesco è che Dio è nell’uomo: il problema sollevato da Feuerbach dell’oggettivazione alienata e alienante delle qualità umane è così risolta facendo coincidere soggetto e oggetto del processo. Dio non si trova in un mondo contrapposto a questo, come asseriva Nietzsche, bensì costituisce il motore che può far progredire “questo” mondo in “quello” e la sua conoscenza e comprensione diventano così assolutamente necessarie, dal momento che si traducono nella conoscenza e comprensione delle potenzialità dell’uomo nei confronti di se stesso e dell’indomabile caos rispetto al quale il nichilismo ha abbandonato il tentativo e la speranza di fare ordine e chiarezza. Nella prospettiva hegeliana, la filosofia e il Cristianesimo hanno, dunque, lo stesso contenuto (il sapere assoluto), ma lo esprimono in forme differenti: se la religione fa ricorso alla “rappresentazione” dell’Assoluto, la filosofia lo esprime nella più alta forma del “concetto” il quale afferra e unifica facendo venir meno la distanza propria della rappresentazione religiosa; distanza funzionale alla trasmissione di ‘regole di comportamento’, ma non alla loro comprensione (ossia alla dimostrazione della loro non-contraddittorietà), cosa questa che ha storicamente condotto, dapprima, al travisamento del messaggio cristiano e, poi, alla rinnegazione della fede religiosa cui assistiamo oggi. L’oggetto della filosofia della religione è «ciò che è assolutamente vero», è «la regione dell’eterna verità», nella quale «lo spirito si sgrava di ogni finitezza» (G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della religione); Hegel dice che la religione è «l’occuparsi con l’eterno», intrattenendo un rapporto con esso: a tal proposito, Hegel parla di ascesa dello spirito finito che si ricongiunge col suo principio. La rappresentazione esterna di Dio è funzionale, ma anche pericolosa come la storia ha dimostrato, così come lo è l’alternativa nietzschana dell’elevazione divinizzante del “superuomo” per i suoi risvolti prevaricatori ed esplicitamente anti-democratici e reazionari, tanto che il nichilista arriva a parlare di una «razza dominatrice» che ha addirittura «bisogno della schiavitù» delle masse «come sua base e condizione» (F. Nietzsche, Frammenti postumi). In questo senso la formula Dio è nell’uomo costituisce la mediazione veritiera fra la tradizionale ‘Dio è altro dall’uomo’ e la nichilista ‘Dio è l’uomo’: così viene meno sia la cieca devozione dell’imperativo ‘tu devi’, che l’arbitrarietà dell’imperativo ‘io voglio’, la quale, purificata dalla sua accezione relativista e contraddittoria, conduce alla sintesi ‘io devo (= voglio)’. In tale ottica l’insegnamento morale del Cristo, rivisto in un culto purificato di Dio, porta a scoprire che «la ragion pura è la divinità stessa che insegna all’uomo a conoscere la sua destinazione» (G.W.F. Hegel, La vita di Gesù). Abbracciare la religione-filosofia cristiana significa così liberarsi dell’enorme peso del nulla che con la sua inerzia ci trascina nel corso di una vita quindi vuota poiché, appunto, ‘al di là del bene e del male’; peso dal quale ora possiamo liberarci, abbandonando insieme la cieca superstiziosità passata e l’altrettanto cieco relativismo presente, facendo appello e luce al Dio che in potenza si trova nello spirito di ciascun uomo.

 

14 aprile 2020

 









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