Verità e Storia: la storia vista come scienza sociale diacronica

 

Oggi per la rubrica Verità e Storia, abbiamo qui con noi Paolo Borioni, Professore associato di storia delle istituzioni e delle dottrine politiche presso l'Università La Sapienza di Roma. I suoi interessi scientifici riguardano in particolar modo il socialismo europeo, il welfare state, la storia delle istituzioni e la storia nordica. Ha a lungo lavorato per la Fondazione Istituto Gramsci e la Fondazione Brodolini, occupandosi della collaborazione con i centri studi del socialismo europeo. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Nordic welfare in ordoliberal europe: From welfare parity to social hierarchy? in The Relational Nordic Welfare State: Between Utopia and Ideology, a cura di Sakari Hänninen, (2019), Solo il re ha il potere delle armi (2008), Svezia (2005), P. Borioni, M.F. Christiansen, Danimarca (2015). 

 

 

Possiamo esprimere il nocciolo del positivismo storico ottocentesco con la frase “se non ci sono fonti, non c’è storia”. A oltre un secolo di distanza, vediamo come la ricerca storiografica abbia ampiamente accettato un approccio più inferenziale, induttivo. È evidente che ad essere mutata è la concezione di storiografia e verità, del metodo che dovrebbe seguire lo storico. Lei ha una sua “filosofia della storiografia”? Quale dovrebbe essere l’approccio dello storico alle fonti o all’assenza di fonti?

 

Non so se sia il caso di chiamarla "la mia esperienza con il positivismo" dal momento che siamo a ben oltre cent'anni di distanza da quell'epoca, però io ho avuto un'esperienza facendo il PhD a Copenaghen con una persona, Kai Hørby, grande storico della prima età moderna, caratterizzata da un atteggiamento per cui ricerca storica e critica delle fonti, sostanzialmente, si sovrapponevano e si identificavano. Leggendo le sue opere in sostanza ci si trova di fronte alla esposizione delle fonti e per il resto ad affermazioni piene di riserve come "sul resto possiamo solo fare illazioni". Poi ho scoperto, conoscendolo meglio e parlandone con altri professori nordici, che nel suo atteggiamento c'erano anche questioni caratteriali ossessive, il che conferma che questo è un estremo da evitare. D'altro canto, un altro mio grande riferimento, Guido Melis, una volta, all'Archivio Centrale dello Stato di Roma, ha raccontato davanti a tanti archivisti, di avere rinvenuto un documento importante redatto (o firmato o inoltrato) da un capo di gabinetto, nel quale si davano disposizioni di un certo tipo. Ebbene però, allegata con una graffetta, c'era una piccola nota, scritta in margine a mano, in cui si raccomandava al destinatario di non tenere troppo conto del documento. Questo per dire che non bisogna ridurre tutto alla critica delle fonti, e nemmeno essere feticisti nei loro riguardi fino all'autoinibizione congetturale, ma al contempo però il rapporto, anche fisico, con esse è essenziale. Dal mio punto di vista non so se seguo una filosofia compiuta della storiografia, ma ritengo che Karl Popper ci abbia insegnato qualcosa di estremamente interessante, e di applicabile alle scienze sociali. Io infatti considero la storia una scienza sociale diacronica basata su documenti. Il documento corrisponde a quel fenomeno che ci permette di correggere e di falsificare (in termini popperiani) la teoria aggiustandola. Questo, però, comporta anche che è lecito un atteggiamento deduttivo e non induttivo (e quindi positivistico) perché noi abbiamo la possibilità e la volontà di mettere la nostra scienza intersoggettivamente a confronto, con altre scienze, altre fonti e con tutta una società di studiosi, con le fonti che permettono di correggere le teorie o ipotesi di lavoro. La mia idea, quindi, è che a tutte le teorie si può arrivare deduttivamente a patto vengano controllate, perché sono tutte temporanee fino alla prossima falsificazione. Inoltre non occorre necessariamente una nuova fonte falsificante per formulare una nuova teoria o congettura, poiché anche una nuova ipotesi interpretativa (magari basata sulla frequentazione di altre scienze sociali e non solo sociali) può mutare convincentemente la lettura delle medesime fonti. Io addirittura penso che anche se noi esponessimo una teoria in fisica, in chimica, così come in storiografia, che non viene più falsificata, non possiamo mai essere sicuri che sia definitiva perché la prova che la falsifica potrebbe arrivare un'ora dopo l'estinzione del genere umano con nessuno lì a percepirla. Oppure, fantasticando, si può pensare che fra cinquant'anni, cent'anni, accumulandosi periodi storici da studiare, ce ne siano alcuni non più studiati, così nessuno si porrà più le domande o porrà più alle fonti le domande che serve porre, o cercherà più le fonti relative. Non per questo l'ultima e provvisoriamente più qualificata teoria relativa va ritenuta positivamente e ultimativamente confermata. Insomma l'abito mentale con cui ci si deve relazionare alla fonti, ai documenti, è di questo tipo: non è detto autorizzino una teoria in maniera definitiva; al contempo proprio questo ci deve far sentire più rilassati di quello che era Kai Hørby rispetto al fatto che si può anche provare una deduttività, provare cioè a porre domande originali alle fonti, domande di cui casomai occorre stabilire se siano qualificate e non qualificate. Stabilire cioè se si cerca il sensazionalismo (non qualificato, perché è forzare le fonti o anche sottoutilizzarle) o se invece si prova ad interfacciare le scienze sociali, per esempio applicando alcune scienze sociali alla storia, come è stato fatto, riuscendo ad estrarre dalle fonti domande/risposte nuove, oppure utilizzando (è accaduto spesso) fonti prima non  utilizzate.

 

Tendenzialmente la storia, nel porsi come narrazione del procedere dell’umanità, viene posta in contrasto con la natura, intesa come procedere ciclico e relativamente stabile dell’ambiente in cui l’uomo vive. Il progresso storico sarebbe quindi indice di un cambiamento, di una serie di avvenimenti non accomunabili secondo una legge uniforme. La storia è effettivamente uno svilupparsi caotico, non coerente, o vi sono delle leggi che sottendono il suo procedere? Oppure, all’interno di uno svolgersi frammentato e non sistematico, si possono purtuttavia trovare delle costanti? In sintesi: c'è qualcosa che trascende la storia?

 

Direi di no, non c'è nulla che trascenda la storia. Però esistono regolarità, cioè esistono fattori causali prevalenti all'interno di modelli sociali, di modelli istituzionali, di incroci fra società e istituzioni e modelli socio-economici, che rimangono costanti (finché lo rimangono). Faccio un esempio tipico: in una società capitalistica esistono regolarità, quindi, in una società politica all'interno del capitalismo, esistono regolarità nel senso che "il modo di sbarcare il lunario" delle persone, nel mercato del lavoro, è soggetto alla volontà e al potere di chi il lavoro lo compra. Ciò crea esperienze esistenziali che, a seconda del modo in cui ciò è istituzionalizzato, a seconda del luogo nella divisione del lavoro internazionale in cui si trova una certa società, variano. Ma il dualismo capitale-lavoro non è mai indifferente in nessuna delle variazioni, anzi pur variando rimane un fattore prevalente. Se si accetta questo fatto, si individuano poi delle differenze fra una società capitalista e una pre-capitalista: per esempio, le solidarietà orizzontali di classe esistono almeno potenzialmente nelle società capitaliste specialmente industriali e anche post-industriali, nel senso che, invece, precedentemente le appartenenze erano di tipo verticale. Fino quasi all'inizio del '900, vediamo che le persone per proteggersi dagli incerti socio-economici si associano verticalmente a poteri spesso personali, notabilari, nobiliari e politicamente o socialmente si dividono secondo questo criterio, così come sono più determinanti le spaccature religiose. Ciò significa che l'economia e il mercato non contavano? Contavano molto, ma la reazione rispetto al loro impulso (l'impulso appunto dell'economia, del lavoro, della povertà, della ricchezza, dei cicli economici, ecc.) spingeva ad aggregarsi in modo verticale, cioè gli imprenditori di consenso di un periodo o un ambiente non capitalista, definibili “nobili” o “clero” o "corporazioni di mestiere" o altro, investono (in un senso o nell'altro) sul malcontento (o sui vantaggi) creati per qualcuno dall'economia. Sono questi gli imprenditori politici disponibili, le agenzie di offerta politica. In seguito, il procedere della società ne presenta altri: leader operai, solidarietà operaie, mutualistiche, e poi piano piano sempre di più il sindacato, il partito, che gradualmente sostituiscono quelli precedenti.

 

Bisogna parlare, quindi, di modelli di società, che si determinano a un certo punto in zone del mondo e in periodi della storia e, all'interno di essi, bisogna parlare di fattori prevalenti. E poi all'interno di tutto questo occorre riconoscere le varianti locali, culturali, il rapporto variabile cultura-economia. Quindi non determinismo ma regolarità variabili, oppure (che è leggermente diverso) prevalenza di certi fattori in combinazioni mutevoli.

 

Faccio un'aggiunta: organizzare il lavoro oggi è diverso ovviamente da come lo era, ad esempio, nel pieno del fordismo ma è anche vero che questo mutamento – e questo grado di indeterminatezza che bisogna scontare rispetto a nuovi o ipotizzabili attori politici – non comporta la non organizzabilità del lavoro in modo orizzontalmente solidale, bensì la necessità del sorgere, come è sorto all'inizio del capitalismo, di un attore politico che intraprende l'organizzazione. Anche allora il mercato del lavoro era estremamente polverizzato, ed in Italia sono state per questo inventate le Camere del Lavoro. Io ritengo che non bisogna escludere prima o poi sorga un nuovo attore politico o un rinnovamento sindacale (magari collegati) capace di organizzare il lavoro in un modo nuovo. Magari grazie anche ai media sociali, che non hanno ancora prodotto tutto il loro potenziale: essi (ecco un elemento ulteriore di anti-determinismo) credo non producano necessariamente polverizzazione o individualismo estemporaneo. Anzi a mio avviso funzionano al meglio quando pongono in contatto delle persone che hanno un rapporto reale nella vita reale, quando cioè intensificano o promuovono un rapporto che però esiste realmente. Ciò potrebbe mutare di segno a diversi elementi e credenze attuali, specie abbinandosi, fra qualche tempo, alla constatazione che, per una serie di fallimenti politico-economici evidentissimi, le teorie di fine del lavoro, fine della storia, fine delle ideologie non portano che a tentativi (giustificati e non condannabili, sia chiaro) populistici, di rimpiazzare l'organizzazione del lavoro. Ecco: nel momento in cui essi falliranno, si riproporranno offerte politico-organizzative, e culture politiche, maggiormente strutturate su solidarietà più coese. O su elementi posti in posizione centrale, come l'esperienza del lavoro salariato. Oppure (contestualmente) quando falliranno ancora più evidentemente regimi di investimento finanziarizzati, che tendono a produrre l'impressione che il lavoro possa essere soltanto polverizzato, frammentato e persino liquido, e non più organizzato sindacalmente e politicamente in modo massiccio, si arriverà allora a diversi regimi di investimento più collegabili alla creazione di lavoro stabile e organizzabile. Ecco che tornerà più facilmente l'organizzazione democratica del lavoro, con finalità prevalenti di modificare lo squilibrio di potere fra capitale e lavoro salariato o dipendente.

 

Non bisogna, quindi, mai essere deterministi, ma nel caso delle società capitalistiche non si è esaurita la prevalenza di alcuni fattori, la loro potenzialità nell'organizzare la politica, la democrazia, il welfare, la società e quindi va da sé che ci sono fattori prevalenti in questo modello di società. Finché dura. Come dice Giorgio Ruffolo: «Il capitalismo ha i secoli contati», quindi può ancora durare, non per sempre, ma durerà. Al momento in cui dovesse finire dubito che tutto sia governabile in modo liquido, sparso e individualizzato. Anzi penso la coesione partecipativa ne sarebbe accentuata anche rispetto ad ogni epoca precedente.

 

G. Klimt, "L'albero della vita"
G. Klimt, "L'albero della vita"

 

Anche in relazione alla precedente domanda: la storia è magistra vitae, permette di conoscere il passato per agire nel presente, oppure non permette di ottenere insegnamenti validi per il futuro? Per dirla in altri termini: la comprensione di un avvenimento passato è un’azione in sé chiusa e conclusiva, o permette di ottenere una conoscenza che supera quel dato momento e si impone come valida anche successivamente, come possibile guida per l’agire?

 

La storia è magistra vitae, anche se a mio avviso nel senso meno elevato che, se ammettiamo l'esistenza di causalità prevalenti, allora esiste anche una predittività qualificata. Le causalità prevalenti non sono ovviamente assolute perché la storia è il luogo in cui le cose cambiano, è lo studio del mutamento, quindi occorre, banalmente, rintracciare il rapporto continuità-discontinuità e per questo occorre risalire a causalità prevalenti finché si ritiene che il modello di società che le rende centrali è ancora valido. Bisogna individuare insomma cosa continua e cosa cambia, sapere che ci sono sempre discontinuità. Però nell'indagare il rapporto continuità-discontinuità occorre pensare che ci esistono causalità prevalenti e dunque rispetto alla previsione sono possibili delle congetture qualificate ed altre meno qualificate. Faccio un esempio: penso che se noi prendiamo il movimento socialista italiano ed europeo rispetto ai paesi nordici, delle previsioni basate sulla raccolta delle continuità passate e sulle variazioni nel tempo e nello spazio possono essere di questo tipo: il socialismo italiano, la sinistra italiana, si è dissolta in maniera più cospicua (pressoché totale anzi) di quanto è avvenuto a quella scandinava. Quest'ultima ha i suoi grandi  problemi di ridimensionamento ma non si è dissolta: esistono ancora grandi partiti fondati nel 1889, ed esiste anche la SPD tedesca, fondata nel 1875 (malissimo ma esiste corposamente, oltre a partiti più radicali caratterizzati da continuità con il socialismo). Della sinistra italiana per come la conoscevamo non esiste nulla, il nostro partito più vecchio in Parlamento è la Lega, fondata all'inizio degli anni '80. Credo questo sia da ricondurre – sempre per rifarsi a già menzionate regolarità e causalità prevalenti – al fatto che in Italia, per esempio, il rapporto fra un certo elettorato popolare e i suoi partiti si sia dissolto più facilmente perché quei partiti, soprattutto per una questione di modello sociale, hanno vissuto l'epoca attuale di maggiore polverizzazione, precarietà, non avendo nemmeno terminato, ancora, la costruzione dell'epoca di avanzata dei diritti. Dunque, quando tutti (anche i nordici) in termini di diritti, welfare e salari hanno cominciato ad arretrare, da noi si è arretrati di più e più velocemente. Ciò ha prodotto un impatto molto forte sulle culture politiche, sulla credibilità di chi ha ritenuto, per esempio, di essere l'erede di quei partiti che in precedenza avevano rappresentato il lavoro e il socialismo. E ciò è avvenuto perché il saldo netto tra l'avanzata precedente e l'arretramento che si è determinato è stato particolarmente forte ed evidente. Questo ha generato una scarsissima tenuta della credibilità presso le classi popolari, a cui si è tentato di reagire mediante teorie ed esperimenti, a mio avviso, di pessima qualità e riuscita. Si è entrati nel panico, o forse il contesto ha autorizzato l'entrata di persone o ipotesi proclivi ad affascinare sé stessi ed il prossimo affermando che il maggiore arretramento di condizioni materiali imponeva non di assumere un paradigma di sviluppo (possibilissimo e migliore) basato sulla assenza di sfruttamento, ma di accettare questo come una nuova ed inevitabile modernità. Magari addirittura confondendo sfruttamento e opportunità. Così si è persa la bussola (non perché ne esista solo una, ma si sono perse tutte) e si sono prodotte teorie, modelli, sigle, identità di partito bizzarramente (e magari non casualmente) inediti piuttosto che davvero nuovi. Tutto questo allora cosa centra con la storia come magistra vitae e la capacità di previsione? Probabilmente, accumulando le risposte che ho dato tra la prima e la seconda e la terza domanda possiamo affermare questo: le causalità prevalenti, come vengono precipitate nei vari modelli politici e sociali, e quindi nel caso italiano, possono autorizzare l'affermazione che si stabilizzerà un consenso sulla sinistra dello schieramento politico quando le persone in quella che è, a mio avviso, la loro esperienza esistenziale, centrale (“Come mi guadagno da vivere? Quali sono in questo le mie possibilità di costruire una famiglia? Di essere una persona che ha fiducia in un futuro?) avvertiranno la realtà o almeno la concreta possibilità di un'inversione di tendenza. Questo, insomma, avverrà quando queste persone non saranno più così irritate con chiunque ha formulato delle proposte, ottenendo il loro voto, senza risultati decenti rispetto all'esperienza centrale del lavoro. Quando si invertirà questo processo e quando si troverà l'offerta politica, cioè un'organizzazione davvero partecipata, che abbia fiducia nel fatto che un'ideologia non è predicare, o marketing politico, ma investire credibilmente in ideologia: lottare per un modello sociale diverso e coerentemente agire in tal senso.

 

In definitiva, questo avrebbe riflessi qualitativi e di stabilizzazione su tutto lo schieramento politico perché abbiamo visto, anche in altri paesi, come non è mai solo la sinistra (o i partiti pro labour) che perdono il rapporto di credibilità con il popolo (lavoratore o classi medie) quando questo rapporto si smarrisce in generale. Difficoltà infatti riscontrano tutte le culture politiche. Vediamo che partiti di centro-destra di grande tradizione (come il GOP in Usa o i tories in UK) sono conquistati da nuove ed estemporanee soluzioni politiche. Oppure (vedi la Svezia, l'Austria o i nordici in genere) cedono valanghe di voti a destra e poi devono allearsi con nazional-populisti che dieci anni prima avrebbero condannato a distanza. E la ragione è che difficilmente le classi medie o medio-alte sono in salute (come cultura politica, ma anche come aspettative e fiducia) se smottano le condizioni di quelle medio-basse o bassissime.

 

Ecco, se la predizione dovesse essere "tutto questo quando finirà?”, se si può formulare una congettura qualificata (forse errata, ma qualificata rispetto a tutti i ragionamenti svolti), si deve dire che accadrà quando muterà il modello di sviluppo che accentua gli elementi di precarietà e sfruttamento per competere. Il che restituirà senso all'impegno e alla partecipazione democratica critica, anziché alla (a quel punto fisiologica) protesta, anziché alla rottura dei parametri di civiltà politica che hanno dimostrato di giovare alla democrazia e alla qualità della vita. Ecco: peraltro anche quest'ultima affermazione implica una valutazione di cause prevalenti all'interno di tipologie socio-economico-politiche indagate seguendo elementi di continuità e discontinuità. Questo (specie in Italia) può condurre alla risalita, alla risolidificazione di una nuova tradizione (anziché all'estemporaneità). Però sarà una nuova tradizione basata in qualche modo sulla esperienza del lavoro, o meglio sulla esperienza esistenziale del mercato del lavoro. Da questo punto, poi, le classi medie e medio-alte si ristabilizzeranno esse stesse, e pur se in una visione dialetticamente concorrente a quelle di ispirazione socialista, torneranno alla fiducia in un modello democratico che ha delle sue costanti sostenibili. Mentre attualmente la critica, la motivazione politica (o spesso purtroppo solo imprevedibilmente elettorale) è basata sul disprezzo piuttosto che sul dissenso, per quanto radicale

 

24 marzo 2021

 




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