Verità e storia: cosa significa comprendere la storia?

 

Oggi, per la rubrica Verità e Storia, abbiamo con noi il Prof. Andrea Zhok, docente di Filosofia morale presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Tra le sue pubblicazioni monografiche ricordiamo: Il concetto di valore: dall’etica all’economia (2001), Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book 2006), Emergentismo (ETS 2011), La realtà e i suoi sensi (ETS 2012), Rappresentazione e realtà (Mimesis 2014), Libertà e natura (Mimesis 2017), Identità della persona e senso dell'esistenza (Meltemi 2018) e Critica della ragione liberale (Meltemi 2020).

 

 

Un luogo comune vuole che la storia sia lo studio degli avvenimenti passati, più precisamente degli atti compiuti dall’uomo nel procedere delle differenti epoche e civiltà. L’uomo non è però solo il protagonista principale della storia, è anche colui che sviluppa la stessa comprensione storica: è il soggetto umano che si approccia al passato. La dimensione della soggettività è conquista moderna, tematizzata e scandagliata negli ultimi secoli fino all'approdo del postmoderno, nel quale tale dimensione è divenuta totalizzante; al punto di negare il suo polo dialettico: l'oggettività. A che punto siamo oggi? È da ritenersi possibile l'approssimarsi a una conoscenza reale dei fatti accaduti – alla verità – oppure il relativismo dell'interpretazione ha un carattere inemendabile, per cui la condivisione storica ha altre basi da quelle del realismo ingenuo, del senso comune, della tradizione?

 

Relativismo è un termine generico e, in questo contesto, fuorviante. Non si tratta di scegliere tra la “conoscenza vera dei fatti accaduti” da un lato e il “relativismo come atto interpretativo soggettivo” dall’altro. La storia non è mai né l’uno né l’altro. Neppure nelle scienze dure esiste niente di simile ad una perfetta univocità del vero, esente da fattori interpretativi. Nei resoconti storiografici le condizioni e il senso della narrazione storica escludono nel modo più assoluto che possa esistere qualcosa come una verità unica ed esaustiva dei fatti. Neanche di un incidente stradale vissuto in prima persona possiamo dare una descrizione che valga come verità unica ed esaustiva, figuriamoci se parliamo di entità complesse come la storia di un periodo.

 

Questo però non lascia affatto il campo aperto a un generico “relativismo”. La verità storica non può essere immaginata come “rappresentazione adeguata dei fatti”, ma va intesa come “comprensione illuminante del decorso di azioni ed eventi”. Cosa potrebbe mai voler dire dare una “rappresentazione adeguata dei fatti” della battaglia di Waterloo? Descrivere tutti gli eventi? Da tutti i punti di vista? Quand’anche fosse possibile, e non lo è, ne verrebbe fuori un quadro cubista, non una verità storica. 

 

Non esiste una verità terminale e singola di un resoconto storico, ma questo non è ‘relativismo’, perché non è affatto vero che un punto di vista (o un tipo di resoconto) valga l’altro. La qualità di un resoconto storico dipende dalla sua capacità di rendere intelligibili azioni, sviluppi, esiti, e di farlo nel modo più esteso e comprensivo possibile. La verità storica acquisisce di qualità attraverso la capacità di funzionare per una porzione estesa nel tempo e nello spazio, e quante più variabili considera (oltre alle occorrenze contingenti, fattori geografici, economici, fisici, antropologici, psicologici, ideologici, ecc.). 

 

Per mostrare cosa definisce i gradi di qualità della storia si può operare per differenza, rispetto a forme di bassa qualità. Ad esempio, una forma di storia di livello infimo è quello della “storia” moraleggiante che oggi va spesso per la maggiore nei resoconti politici e mediatici. Qui il punto della narrazione sta tutto nel pervenire a condanne sommarie di questo o quel costume, questo o quel personaggio. Questa modalità di fare storia fa l’esatto opposto di ciò che forgia le verità storiche. Ciò che conferisce qualità alla storia e che le dà il suo specifico valore di verità è la sua capacità di far comprendere i motivi, le pulsioni, le ragioni che hanno prodotto certi comportamenti. Il motto generativo della verità storica è il terenziano: “Humani nihil a me alienum puto”, che deve informare il tentativo di comprendere sempre la logica delle azioni e degli eventi. Le forme di narrazione ‘storica’ che creano estraneità con le ragioni e motivazioni degli agenti storici, che si affrettano a sostituire la comprensione con una condanna o un commento benpensante, le narrazioni che non permettono la comprensione, o che addirittura la ostacolano, temendo che comprendere implichi giustificare, sono sul piano storico menzogna e falsità.

 

Nella buona storia i criteri sono da un lato quelli noti di rigore filologico, archeologico, di reperimento delle fonti, ecc. che definiscono l’insieme delle variabili da interpretare e che dev’essere quanto più possibile ampio, variegato e suffragato. Ma a ciò deve seguire una capacità di ricomposizione radicata in una conoscenza della natura umana, che integri quelle informazioni nel quadro più comprensivo e illuminante possibile, laddove per illuminante si intende “capace di dar ragione degli atti e degli effetti”. Qui i criteri del meglio e del peggio sono ben presenti, e questi sono ciò che definisce il senso e la qualità della verità storica.

 

14 novembre 1940: bombardamento di Coventry
14 novembre 1940: bombardamento di Coventry

 

Tendenzialmente la storia, nel porsi come narrazione del procedere dell’umanità, viene posta in contrasto con la natura, intesa come procedere ciclico e relativamente stabile dell’ambiente in cui l’uomo vive. Il progresso storico sarebbe quindi indice di un cambiamento, di una serie di avvenimenti non accomunabili secondo una legge uniforme. La storia è effettivamente uno svilupparsi caotico, non coerente, o vi sono delle leggi che sottendono il suo procedere? Oppure, all’interno di uno svolgersi frammentato e non sistematico, si possono purtuttavia trovare delle costanti? In sintesi: c'è qualcosa che trascende la storia?

 

Anche in relazione alla precedente domanda: la storia è magistra vitae, permette di conoscere il passato per agire nel presente, oppure non permette di ottenere insegnamenti validi per il futuro? Per dirla in altri termini: la comprensione di un avvenimento passato è un’azione in sé chiusa e conclusiva, o permette di ottenere una conoscenza che supera quel dato momento e si impone come valida anche successivamente, come possibile guida per l’agire?

 

È molto dubbio che sia sensato parlare di leggi in natura in generale. Quelle che chiamiamo leggi di natura, ad esempio in fisica, sono in effetti sempre generalizzazioni provvisorie di una selezione di regolarità reperibili in natura. Che tali regolarità siano in qualche modo obbligate a seguire i tracciati che le nostre espressioni (equazioni, formule) indicano è solo un’utile ipotesi di lavoro, ciclicamente rimpiazzata da riformulazioni più aggiornate delle nostre ‘leggi’. 

 

Ora, se parlare di leggi di natura è dubbio per una scienza come la fisica, che ha il privilegio di poter isolare a piacimento aree del reale da sottoporre ad esperimento, per la storia, che ha un compito per essenza sintetico, di comprensione di un insieme spontaneo, sociale e intertemporale, parlare di leggi è del tutto fuori luogo.

 

Invece di parlare di ‘leggi’ nei resoconti storici dovremmo parlare di ‘propensioni’, ‘tendenze’, idealtipi, configurazioni caratteristiche. Ma di nuovo, non dobbiamo intendere queste tipizzazioni, queste unità di comprensione, come se fossero esemplificazioni contingenti di idee eterne (platonismo). La storia opera con le stesse categorie molteplici che usiamo nella nostra vita ordinaria, dove noi cogliamo costantemente ogni fatto singolare come una potenziale unità formale. Una volta nato l’individuo Immanuel Kant abbiamo imparato a usare il tipo ideale ‘kantiano’, non diversamente da come il ragionier Ugo Fantozzi ci ha consentito di formare il tipo ideale ‘fantozziano’, o il bombardamento di Coventry ha creato ‘coventrizzare’, ecc. Conoscere la storia significa ampliare di molto la propria conoscenza di queste ‘strutture tipiche’ che permettono di cogliere con un colpo d’occhio dinamiche complesse, come fossero configurazioni gestaltiche. Questo è uno dei due principali contributi ‘normativi’ della conoscenza storica (del secondo più avanti): è un contributo alla capacità di comprensione di dinamiche che non si ripetono mai identiche, ma che presentano “somiglianze di famiglia”. Qui la “guida all’azione” non è mai data dalla ripetizione di una forma identica, che non avviene virtualmente mai, ma dalla capacità di vedere una struttura d’insieme su cui poi poter operare varianti specifiche.

 

Quando però si pone la questione se “qualcosa trascenda la storia”, ebbene questa è una domanda molto più complessa da affrontare, e una sua piena trattazione affonderebbe le radici in fondamentali questioni metafisiche. La prima domanda da porre di fronte ad una domanda del genere sarebbe: “Quando facciamo cominciare la Storia?”. Potremmo decidere di introdurre un concetto massimamente estensivo di Storia che include la storia naturale e quella cosmologica, e in tal caso sarebbe davvero complicato dire che qualcosa “trascende la storia”: sotto queste premesse anche ordinamenti logici a priori come il principio di non contraddizione potrebbe essere concepito come un “prodotto storico”, nel senso che per definizione qualunque cosa appartenga al mondo, inclusa la materia, i viventi, la coscienza umana e le sue forme, potrebbe essere considerata “prodotto storico”. (Husserl, quando introduce la correlazione coscienza-mondo come un “fatto assoluto” sembra avere in mente qualcosa del genere.) 

 

Quello che possiamo dire in generale è che la storia presenta numerosi “apriori materiali”, cioè numerose configurazioni, forme, strutture, che pur essendo nate in un certo momento nella storia (e dunque non potendo vantare di essere ‘eterne’), operano come precondizioni strutturali massive per gli sviluppi più significativi della storia presente (e plausibilmente a venire). Dopo le tipizzazioni menzionate sopra, il riconoscimento degli apriori materiali è il secondo maggior contributo ‘normativo’ della conoscenza storica.

 

Sono apriori materiali, ad esempio, tecniche umane come l’agricoltura, la zootecnia, o la scrittura, che hanno creato a cascata una serie di mutamenti storici colossali e, per quanto ci è dato comprendere, definitivi. Lo sviluppo della scienza moderna e quello dell’organizzazione produttiva capitalistica sono altri ‘apriori materiali’, più recenti, che incanalano i processi storici in direzioni prevedibili e non accidentali. Gran parte dell’agone storico è costituito precisamente dai tentativi di imporre una condizione strutturale nuova, che riorienti la storia successiva. Le stesse idee, etiche, religiose, politiche, giocano, sia pure con maggiore labilità un gioco di questo genere. Al massimo livello di comprensività potremmo dire che la natura umana stessa è un apriori materiale, nel senso che opera come un vincolo a priori dominante, pur avendo un’origine storica (presumibilmente evoluzionistica).

 

Diversamente dagli apriori trascendentali o ideali, gli apriori materiali possono di principio mutare, anche se quanto più duraturo il loro insediamento, tanto più è improbabile una loro modifica integrale. L’individuazione degli apriori materiali dominanti in un’epoca è ciò che consente di trovare una logica di sviluppo degli eventi storici, ed è anche il punto di inserzione della nostra capacità di orientare l’azione futura.

 

[All'interno del programma dell'Alternativa nella storia, Andrea Zhok parteciperà all'evento Liberalismo, che sarà trasmesso in diretta sabato 13 marzo alle ore 17.00.]

 

12 marzo 2021

 




PER LA RUBRICA VERITÀ E STORIA

Intervista ad A. Giannuli, Rileggere il passato come spia di ciò che verrà

 






  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica