La mia esperienza con la Philosophy for Children in Belgio

 

Nel mese di settembre decido di partire per un’esperienza all’estero nella scuola internazionale di Leuven, nelle bellissime Fiandre belghe, nella quale ho l’opportunità di organizzare workshops di filosofia per i bambini. La scuola in cui mi trovo segue un curriculum differente dalle scuole tradizionali, l’IPC, l’International Primary Curriculum che ha come obiettivo principale quello di far sviluppare ai bambini delle abilità specifiche, come il pensiero critico e la creatività attraverso un processo di apprendimento più consapevole. In questo senso la filosofia si offre come tassello importante per una didattica più all’avanguardia.

 

di Francesca Sciarretta

 

Sono passati cinque mesi dalla mia partenza per il Belgio, dove ho deciso di cogliere l’opportunità di vivere un’esperienza in una scuola primaria internazionale, nella quale i bambini provengono da tutte le parti del mondo: Polonia, Romania, Spagna, Portogallo, Cina, Giappone, Stati Uniti e tanti altri paesi. Le stesse insegnanti hanno un retroterra culturale e educativo differente: avete mai avuto l’occasione di lavorare con un’insegnante finlandese, una spagnola, una polacca, una sudafricana e britannica allo stesso tempo? Sicuramente è un panorama ricco e stimolante che mi ha dato la possibilità di mettermi alla prova in un contesto nel quale far pratica di quanto appreso grazie al corso di formazione alle pratiche filosofiche organizzato da Filò, associazione che collabora con l’Università di Bologna.

 

La scuola internazionale in cui mi trovo segue una metodologia particolare, volta a far sviluppare ai bambini abilità e competenze che potranno ben spendere nel futuro. L’obiettivo della loro didattica sembra essere piuttosto ambizioso: formare i change-maker del domani attraverso lo sviluppo del pensiero critico. Parte integrante del loro curriculum è, infatti, l’educazione agli SDGs (gli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile) ai Rights of the Child e alla gestione delle emozioni: imparare a distinguerle e dare loro un nome è, infatti, il primo passo sia per comprenderle che per accoglierle. 

 

Anche la matematica è insegnata attraverso un metodo innovativo: ci si focalizza molto più sul processo che sulla memorizzazione e lo svolgimento meccanico delle stesse operazioni matematiche. Le insegnanti, piuttosto, spingono i bambini a riflettere sui singoli passaggi necessari per raggiungere il risultato, permettendogli di esplicitare tutti i ragionamenti che hanno seguito per trovare la soluzione. Non è un caso che sulla lavagna della classe ci sia scritto a grandi lettere how do you know?, ovvero, come ci sei arrivato? qual è il procedimento che hai seguito? 

 

Ad ognuno di loro, infatti, è dato lo spazio necessario per condividere il procedimento che hanno scelto e preferito, consapevoli che non c’è un unico modo di ragionare per raggiungere il risultato; l’importante è che lo si sappia giustificare.  

Alla trasmissione frontale dei contenuti si preferisce la sperimentazione diretta attraverso le domande e il dialogo: "Avendo di fronte una cartina muta, sapresti dirmi dov’è la Germania?" L’ignoranza della risposta e la frustrazione che ne segue non può così che attivare il processo della ricerca!

 

In classe hanno dovuto anche leggere diversi tipi di cartine che mostravano la temperatura, il clima, la direzione del vento e tanto altro, per imparare a riconoscere ed analizzare criticamente le informazioni osservando solo un’immagine.

Questo tipo di esercizio si offre sicuramente come stimolo importante per imparare a porsi domande più consapevoli sul mondo che li circonda.

Per questa ragione, la filosofia sembra essere un tassello in più per spingerli a riflettere sia creativamente che logicamente sulle emozioni, i diritti, i doveri, le responsabilità nei confronti del mondo e degli altri.  

 

Insieme a loro ho affrontato le grandi domande della filosofia: Chi sono io? Cos’è l’identità? Qual è la differenza tra opinione e conoscenza? Cos’è la realtà?

Le risposte che ho ricevuto sono state le più disparate, da quelle più ironiche e scherzose a quelle più brillanti e creative: “io rimango me stesso nel tempo perché la mia cultura e il mio contesto di nascita rimangono sempre gli stessi anche se, nel mentre, il mio corpo cambia, così come le mie idee e il mio punto di vista sulle cose”.

Ovviamente, a questa risposta siamo giunti insieme attraverso un processo che ha voluto renderli più consapevoli su quanto sia importante il contesto culturale per lo sviluppo della propria personalità e identità. 

 

Non sono mancati i momenti durante i quali ho trovato difficoltà ad interagire con loro, anche di fronte a risposte dirette e secche che, a dir la verità, sono state anche un po' la conseguenza di domande provocatorie come questa: "Secondo voi il mondo è giusto?" "No, non lo è affatto!". Presa alla sprovvista dalla risposta che non lasciava spazio ad alcun dubbio, ho cercato di indagare insieme a loro il motivo per il quale fossero così certi che il mondo fosse un terreno così ingiusto e grigio da abitare. Più li stuzzicavo con le domande, più ho scoperto che il loro immaginario era intessuto di pregiudizi e stereotipi; così ho chiesto loro se non avessero mai preso in considerazione il fatto che gli stereotipi erano dei modi veloci per dare risposte semplici ed immediate a domande piuttosto difficili. 

 

La realtà, secondo il loro punto di vista, sarebbe ingiusta perché essa non lascerebbe spazio all’errore. Come faccio, infatti, a considerarla giusta quando la mia compagna di classe non vuole perdonarmi se commetto uno sbaglio? Il loro mondo emotivo diventerebbe, così, il metro di giudizio per misurare e dubitare dell’intera giustizia nel mondo. Anche l’errore sembra essere un elemento da temere e da evitare a tutti i costi, perché il prezzo da pagare, una volta commesso, sarebbe per loro troppo alto.

 

Uno dei workshop più interessanti che ho svolto è stato quello dal titolo: è possibile comunicare quando non si parla la stessa lingua?

Essendo una scuola internazionale, abbiamo avuto la possibilità di sperimentare insieme i confini della comunicazione verbale e non verbale, dando loro l’opportunità di parlare la loro lingua madre (un vero momento di gioia e di sollievo per coloro che facevano più difficoltà ad esprimersi in inglese).

 

Can we communicate when we speak different languages?
Can we communicate when we speak different languages?

 

Il workshop è stato introdotto narrando la storia della Torre di Babele che, secondo il racconto biblico, scandirebbe il momento a partire dal quale gli uomini, avendo subìto la punizione divina per aver tentato di oltrepassare i confini del cielo, avrebbero cominciato a parlare tutte le lingue del mondo. Questo racconto è stato un ottimo spunto per porre la domanda seguente: pensate che la differenza linguistica ci costringa all’incomunicabilità come hanno sperimentato gli uomini nella torre?

 

Da qui siamo passati alla sperimentazione: tutti dovevano rispondere nella loro lingua a tre semplici domande: da dove vieni? cosa ti piace fare nel tuo paese? com’è il tuo paese? Mentre rispondevano a turno a queste domande, gli altri dovevano cercare di capire cosa stessero dicendo. Il risultato? La stanza si è illuminata di tutte le lingue del mondo: spagnolo, italiano, giapponese, cinese, arabo, polacco…

Tra scherzi, risate e un po' di divertimento hanno dimostrato che con attenzione, pazienza e sforzo si può cogliere qualche similitudine tra le diverse lingue e, perché no, anche gesticolando un po' più del solito non è inverosimile capirsi e farsi capire dagli altri!

Alcuni, però, hanno anche puntualizzato che sarebbe meglio portarsi dietro un traduttore umano nel caso si decidesse di visitare un paese del quale non si conosce la lingua. 

 

Sicuramente il contesto scolastico in cui mi trovo offre un panorama multilingue ricco e variegato. Ci sono dei bambini, ad esempio che, oltre a parlare la propria lingua madre a casa con i genitori e l’inglese a scuola, studiano l’olandese e il francese per integrarsi con la comunità belga e, infine, una quarta lingua tra il cinese e il giapponese.

È utile puntualizzare che l’educazione scolastica che i bambini ricevono in questa scuola è molto diversa dalla formazione delle scuole pubbliche belghe che sono, al contrario, molto più conservatrici, tradizionali e vicine alla formazione di quelle italiane. 

 

Il mio collega colombiano ed io durante il nostro workshop
Il mio collega colombiano ed io durante il nostro workshop

 

È impossibile replicare questo tipo di curriculum in una scuola pubblica, nella quale inserire anche qualche ora di filosofia? Questa, infatti, sembra essere, a mio parere, l’unica in grado di affrontare temi di incredibile importanza come i diritti umani, il rapporto tra sé stessi e il mondo e le emozioni.

Chissà se in futuro le si darà uno spazio appropriato in tutte le scuole di ordine e grado. 

 

 2 febbraio 2022

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica