Uno sguardo umano sulla guerra

 

Se uno Stato che ha il compito di garantire la sicurezza dei suoi cittadini diviene un gigantesco campo di battaglia che causa centinaia di morti civili, in cui lo scontro e l’opposizione regnano in sanguinari massacri, ove la pace viene oppressa per definizione dalla guerra d’invasione, come potrà mai reagire il popolo? 

 

di Biagio Gumina

 

 

L’attuale conflitto fra Russia e Ucraina ha rotto l’apparente stabilità d’equilibrio che ha caratterizzato il nostro continente fin dalla seconda metà del Novecento. Il pervasivo clima di guerra si diffonde nella quotidianità del popolo, tra i programmi televisivi della rete pubblica e le spesso dogmatiche opinioni reperibili online. Sulla guerra è già stato detto molto, come su Putin e sulla NATO, ma la costante discordanza delle posizioni sembra perpetrare ulteriori richieste di discussioni e approfondimenti. 

Tralasciando, perlomeno in questa sede, l’analisi delle cause della guerra e la legittima caccia ai colpevoli, si tenterà di ragionare adottando un approccio etico alle questioni irrisolte che le attuale disastrose condizioni presuppongono. Tra il mercato, la struttura economica, la crisi delle risorse, la valorizzazione della democrazia, si inserisce un enorme costo di vite umane che necessita di una profonda e doverosa riflessione antropologica e, inevitabilmente, politica. 

 

Durante l’età moderna, il diritto naturale era annoverato tra gli elementi fondamentali della ricerca filosofica. Le conseguenze di tale attenzione al singolo si rifletterono nell’immediato sulla dimensione sociale che lo ospitava. Thomas Hobbes, all’inizio del XIV capitolo del celeberrimo Leviatano, definisce il diritto alla vita come segue:

 

« Il diritto di natura, comunemente definito dagli scrittori come "Jus Naturale", è la libertà che ciascuno possiede di usare il proprio potere nel senso che vuole, allo scopo di preservare la propria natura, cioè la sua vita, e conseguentemente di fare qualunque cosa che, secondo il giudizio e la ragione, gli sembra essere il mezzo più adatto a realizzare quel fine. »

 

In seguito all’artificioso costrutto dello Stato, fondato sulla base del lessico contrattualista che stabilisce la dicotomia Stato-individuo, si rinuncia singolarmente ai propri diritti naturali che vengono ceduti all’uomo, o all’assemblea di uomini, che si occuperanno dell’organizzazione sociale e della sicurezza degli individui che la compongono. Nel pensiero hobbesiano, l’avidità, l’ambizione, la lotta dell’uno contro l’altro, si pongono come attributi intrinseci alla stessa essenza umana, nella prospettiva complessiva e naturale dell’homo homini lupus. Poco tempo dopo, John Locke riconoscerà e valorizzerà la facoltà umana di rispettare l’altro, nei principi della libertà e della convivenza pacifica, ritrovando una forma di reciprocità già nel precario e instabile stato di natura. Con Jean-Jacques Rousseau, questa capacità verrà meno nell’impossibilità stessa, in uno stato primitivo che prepone l’ignoranza della socialità, di valutazione dell’intenzionalità altrui. 

 

 

Ma se uno Stato che ha il compito di garantire la sicurezza dei suoi cittadini diviene un gigantesco campo di battaglia che causa centinaia di morti civili, in cui lo scontro e l’opposizione regnano in sanguinari massacri, ove la pace viene oppressa per definizione dalla guerra d’invasione, come potrà mai reagire il popolo? 

La risposta a questa domanda è da trovare nei rifugiati in fuga dal terrore delle armi o in coloro che hanno deciso di imbracciare i fucili senza esperienze militari. E se in entrambi i casi non condanniamo la scelta compiuta, è forse poiché nemmeno noi, in una situazione di simile complessità, sapremmo decidere come comportarci. D’altronde, la richiesta del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba al Consiglio atlantico non lascia libera interpretazione: «Ho tre richieste oggi per il Consiglio atlantico: armi, armi, armi».

In tal senso, non stupisce la netta divisione dell’opinione pubblica. Secondo un recente sondaggio de La Repubblica, riguardante l’invio di armi in Ucraina, «Il 28,6% degli intervistati si dichiara d’accordo. Il 9,1 per cento afferma che bisogna inviarne di più potenti. Mentre il 38,6% si dichiara contrario. I due fronti quindi si equivalgono di fatto. Poi c’è un 23,7% che non ha un’opinione precisa, e risponde "non so”».

Alimentare la guerra con gli armamenti necessari è un efficace metodo per trascinarla verso la sua conclusione? Donare delle armi al popolo invaso è il massimo del sostegno che possiamo offrire? Di certo, aiuterà in maggiore o minore misura la resistenza ucraina, ma è legittimo domandarsi se il valore della pace rischia di essere compromesso dal contrappeso di una spirale di violenza perpetua. 

Parimente, è lecito chiedersi quanto un appoggio di questo genere da parte della NATO possa inficiare l’andamento delle trattative diplomatiche. Se così fosse, si consideri di seguire il tracciato di una delle teorie filosofiche contemporanee maggiormente rilevanti sul piano internazionale, sostenuta in particolar modo, tra gli altri, dal moral philosopher Peter Singer: l’utilitarismo preferenziale (preference utilitarianism).

Secondo questa visione, esposta in relazione a molteplici esempi pratici nel libro Practical Ethics del pensatore australiano, bisognerebbe adottare un’ottica di matrice utilitaristica per cui si procede nell’agire in relazione alla volontà di ottenimento delle migliori conseguenze realizzabili. Aristotelicamente, la causa finale si traduce nel cercare di garantire il soddisfacimento del maggior numero di interessi possibili per il maggior numero di individui possibili. Contestualizzando, è fortemente auspicabile che le prossime mosse del nostro volubile governo e degli organismi internazionali si direzionino verso manovre operative strutturalmente meritorie della categoria umana della ratio.

 

L’applicazione dell’etica al dibattito accenna sfumature di pensiero in cui è lecito voler vedere degli spiragli differenti e autentici, come un occhio umano che prima si confondeva con una palla di vetro, ma che adesso mostra la sua iride. È il magnifico riverbero della compassione umana e dell’empatia intersoggettiva, che ha amor dell’altro da sé e ne definisce i bisogni, richiamando all’attenzione quell’interesse alla vita, all’autoconservazione, ai sogni e ai desideri, che oggi viene minacciato da omicidi di massa. La concretizzazione di tali condizioni è rappresentata orgogliosamente dall’accoglienza dei cittadini europei e non al popolo ucraino, con più di 4,2 milioni di rifugiati fuggiti dal paese secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR).

Uccidere un uomo non è limitabile a provocarne la morte, ma significa altresì negarne la vita intesa come realizzazione individuale del proprio io, quel “Sì” kierkegaardiano (ed etico) all’esistenza, che la rende autentica nella dimensione della volontà soggettiva. Tuttavia, sotto le bombe russe, la speranza si spegne nell’incertezza del futuro. Inoltre, non esiste immagine più tenebrosa, per noi vittime indirette, del dipinto figurativo che ritrae altre nazioni, in primis la nostra, macchiate da simili delitti.

 

Qualsivoglia sia il sentiero da percorrere, dunque, l’obiettivo rimane raggiungere una forma di pace antecedente alla determinazione di un allargamento del conflitto tale da precluderla aprioristicamente. Gli angoscianti rischi di ciò vengono pericolosamente evocati dalle espressioni che, oramai quotidianamente, continuiamo ad assimilare. Di solo una settimana fa è la frase utilizzata da Massimo Cacciari nella trasmissione Non è l'Arena di La7: «Non c'è paragone con Saddam, con la Russia o tratti o è terza guerra mondiale». 

 

23 maggio 2022

 









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