La poesia come oracolo dell'ombra

 

Cos’è la poesia? Come si pone nel continuo dissidio tra la vita e la morte, tra la luce e l’ombra? I più grandi filosofi si sono scontrati con queste domande e tante altre sul ruolo della poesia e del poeta, che qui ci si limita ad evocare, come se in fondo l’una e l’altro non fossero null’altro che delle ombre quasi inspiegabili, che trovano la loro origine negli abissi più profondi dell’uomo.

 

di Biagio Damo

 

G. Courbet, "Ritratto di Baudelaire" (1848)
G. Courbet, "Ritratto di Baudelaire" (1848)

 

Questa vita che è un lento adombrarsi, un lento morire, è un’eclissi di sole che prosegue incessante e ci lascia con l’unica certezza di non poter mai brillare completamente. La poesia è un momento di luce che riporta leggermente indietro il corso dell’ombra, come se fosse una forza antinaturale che distorce e modifica il correre delle cose, o quantomeno le ferma in un istante di riflessione e raccoglimento esente dalle leggi del tempo; sa fermarlo e sa addirittura portarlo indietro, donando così un raggio di luce che temevamo di aver perso per sempre.

 

Lo stesso fanciullino pensato da Pascoli può essere visto sotto quest’ottica: esso non è altro che un tentativo di bloccare l’eclissi per riportarla ad un momento precedente, un po’ più luminoso e raggiante, quello dell’infanzia, quando l’eclissi è ancora agli stadi iniziali e poco ha coperto il sole della nostra vita. Però, anche il fanciullino ideato dal grande poeta, come l’infanzia in generale, conserva un’ombra più o meno leggera: è il legame tra la vita e la morte, inscindibile, poiché la vita non è altro che un semplice momento d’assenza della morte che però ci si ripresenta quotidianamente sotto gli occhi, sin dalla nostra prima infanzia e già lì comincia ad adombrarci. Ecco che la poesia esplicita questo legame tra la vita e la morte e così facendo si avvicina sempre più alla descrizione massima della vita, si avvicina alla totalità della luce, memore sempre però dell’ombra.

 

Ma la poesia, proprio nella sua capacità di esplicitare la vita nel suo legame carnale con la morte, non può solo tornare indietro a quando la luce si mostrava maggiormente, sa anche far avanzare l’ombra, portando al buio quasi totale, poiché nel mistico guardare negli occhi la vita essa fissa le pupille della morte, scandagliando gli abissi più profondi di entrambe, senza temere mai né l’una né l’altra, raschiando tutte le loro sfaccettature. Insomma, la poesia si pone come mezzo con cui guardare da ogni prospettiva la vita e la morte nel loro rapporto conflittuale eppure ineluttabile.

 

Il poeta non è dunque altro che il folle che unico al mondo può decidere di quanto far avanzare o ritirare l’ombra della morte, superando i limiti del tempo e della sua stessa vita per divenire oracolo di tutti: egli si pone al di là della vita e della morte, pertanto al di là del tempo, senza avere più limiti che gli impediscono di capire cosa siano l’una e l’altra. Il poeta diventa così una pizia che lascia intendere ciò che ognuno nei suoi abissi vuole intendere proprio perché ha visto l’abisso di tutti, ha visto la morte e di conseguenza la vita, la luce totale e la totale oscurità; egli diviene la voce di tutti, il sentire universale di ognuno, perché, guardando nel proprio abisso, guarda nelle parti più recondite di ognuno di noi e le porta alla luce dando loro il taglio artistico che meglio si addice.

 

Di fatto, il poeta diviene tale quando deve dar luce all’abisso, perché vede l’innominabile, l’indicibile, e quindi per esprimerlo crea ciò che gli è necessario, crea sempre un metro d’espressione nuovo che deve portare all’essenza della vita come anche a quella della morte, perché, dice Heidegger: «La poesia nominando le cose, le chiama in tale loro essenza.» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio)

 

V. Van Gogh, "Un paio di scarpe" (1886)
V. Van Gogh, "Un paio di scarpe" (1886)

 

È qui, in questa necessità di trovare il modo per evocare l’essenza delle cose, che il poeta compie l’atto greco da cui deriva il suo nome, egli ποιεῖ (poièi), ovvero “crea” ex novo e in questo subisce le emozioni che lo colgono, ma è anche attivo nel farlo perché già cerca un modo per nominarle, per dare loro un’essenza attraverso il linguaggio. Nel vedere il buio crea la luce e viceversa: è contraddizione, è tutto ciò che non funziona, che non ha canone, che è, in una parola, libero e in quanto tale trascende la condizione umana per raggiungere un livello universale di comprensione della stessa. Poeta dunque non è veramente chi scrive poesia, poeta è chi vive la poesia, sebbene sia analfabeta. Poeta è Zorba che ballando sulla spiaggia di Creta porta alla luce il legame tra la vita e la morte, il dolore e la gioia. Poeta non è chi pone limiti, poeta è chi li sposta avanti e indietro finendo per confonderli e proprio in questo confonderli li nomina come meglio può e nella forma che preferisce.

 

Riprendo allora la metafora dell’eclissi, perché il poeta è, come detto, chi sposta l’ombra a suo piacimento: lo fa con così tanta libertà da confondere la luce e l’oscurità, da rendere atemporale il tutto, sovvertendo le leggi della vita e della morte, facendo convivere l’una e l’altra, confondendole infine per confondere con esse tutto ciò che conosciamo. Il poeta così annulla i limiti e pone sé stesso e ciò che crea al di là della contraddizione proprio passandoci attraverso, per darci uno sguardo sulla condizione umana che sia scevro da pregiudizi e dal punto di vista di chi guarda l’eclissi da lontano, dalla terra.

 

29 settembre 2022

 









  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica