Il fascino dell'Oriente

 

Sin dai tempi di Marco Polo l'Oriente ha esercitato un fascino particolare nella mente e nel cuore del cittadino occidentale. L'imitazione della 'orientalità' ha però portato, pian piano, l'Occidente a fraintendere e svuotare di significato tutti i tesori spirituali che furono trasmessi dall'Est all'Ovest del mondo, incapace com'era di comprendere il senso profondo di ciò che aveva veduto e appreso. È possibile, oggi, riscoprire una tale diversità di visione, oppure siamo per sempre destinati a conoscere senza però mai 'sapere'?  

 

di Stefano Protano

 

 

Partiamo da un fatto concreto: i paesi occidentali pullulano oggi di influenze orientali, volgarizzate però e abbassate a mero divertissement per turisti o a intrattenimento commerciale per le masse degli uomini, uno dei tanti prodotti di consumo della moda capitalistica contemporanea, inadatta a penetrare nelle profondità delle cose, verso l'essenza, e condannata dunque a restare perennemente sulla superficie, presso l'apparenza. Basti osservare attorno a sé il numero di ristoranti cinesi, giapponesi, thailandesi e fusion sorti negli ultimi anni, in ogni momento affollati; i festival dell'Oriente, fieristiche catacombe di ciò che di bello vi fu e vi è tuttora nella cultura orientale; i confusi mercatini tradizionali e i giardini curati in stile Zen, che non celano il nervosismo e l'inquietudine di chi li ha allestiti; le sale da tè e le fumerie, semplici bar e pub che non sono se non pallide reminiscenze di una ritualità antichissima e intrisa di morale; i nuovi "sport" (ad esempio: lo Yoga e il pilates) derivanti da quella che per gli Indù è una integrale condotta di vita e da noi diviene una sciocca attività da palestra o al massimo una pratica di benessere fisico – epurata completamente la zona psichica che invece lì è assolutamente fondamentale –; e infine queste novelle sette religiose (Soka Gakkai e similari), che di religioso invero nulla hanno, e che riescono a ribaltare completamente la concezione filosofica dei Buddisti pur mantenendone il nome, giacché tanto l'ignoranza delle moltitudini non trova niente di paradossale né di contraddittorio in siffatte elaborazioni strampalate e senza costrutto. Così, siamo divenuti simili a degli stolti che, continuando ancora a brancolare nel buio di quel Nulla che è l'idea propria del nichilismo occidentale, credono in definitiva d'essere intelligenti e saggi e si dimostrano, quindi, insopportabilmente saccenti oltre che stupidi, non riconoscendo i propri limiti intellettuali, e non sapendo nemmeno più di non sapere. 

 

Tuttavia, senza nulla togliere alla reale o presunta "utilità" di tutte queste iniziative – non essendo certo l'utilitarismo la mia attuale teoria di riferimento nella riflessione –, credo sia necessario approfondire ciò che dello spirito dell'Oriente è sfuggito e sfugge all'Occidente, per far chiarezza su una Verità che è, certo, lontana da quella cui noi siamo abituati, ma al contempo effettivamente affascinante, capace com'è di appassionare migliaia e migliaia di uomini da molto tempo prima che Cristo nascesse sulla terra (Buddha, ad esempio, fu quasi contemporaneo di Socrate), e da prima, inoltre, che Mosè guidasse il popolo ebraico in fuga dall'Egitto (l'Induismo dei Veda risale a circa mille anni indietro rispetto alla stesura dei testi biblici). 

 

Sin dalle origini le Filosofie orientali hanno fatto dell'ascetismo e della rinuncia il fulcro attorno al quale edificare il proprio pensiero. In primo luogo: l'"ascesi", cioè l' "elevazione spirituale", attraverso la rinuncia al possesso dei beni materiali; in secondo luogo e ancor più in là: l'ascesi mediante la rinuncia, persino, a quegli stessi desideri che stanno alla base del possesso di qualsivoglia bene materiale o immateriale. In ciò, ad esempio, Induismo e Buddismo, le due grandi religioni orientali, quelle con il maggior numero di fedeli tra le moltitudini, si accordano mostrandosi del tutto simili se non addirittura analoghe. D'altronde, il Buddismo non è altro che una derivazione e uno sviluppo dell'Induismo, così come il Cristianesimo è una derivazione e uno sviluppo dell'Ebraismo. In entrambe codeste religioni, essendo il desiderio qualcosa di negativo, di dannoso, in quanto causa interamente il dolore e la sofferenza – l'insoddisfazione e la tensione verso qualcosa che non è proprio –, esso deve essere annullato da uno sforzo interiore e da una concentrazione mentale che occorre continuamente allenare mediante l'esercizio della meditazione. Nondimeno, assieme al desiderio, è necessario annullare anche l'Io che è il soggetto desiderante, e in quanto tale il principio di ogni desiderio dell'uomo rivolto verso se stesso e verso gli oggetti esterni. È proprio questo che si intende con il termine nirvana, comune a entrambe le prospettive: una "estinzione" che è di fatto l'unica libertà possibile, e cioè una libertà dalla volontà che muove tutti gli esseri senzienti; la libertà dalla legge morale universale del Karma, il frutto delle azioni compiute da ogni essere vivente, che genera le successive rinascite dopo la morte (la ruota ciclica del samsara), reincarnati in esseri inferiori o superiori a seconda della condotta che si è tenuta in vita. Anzi, procedendo ancor oltre sino alle conseguenze estreme di siffatta riflessione, secondo tale pensiero, che sminuisce quella che noi occidentali invece reputiamo la nostra natura prima e più intima, l'Io non è affatto una realtà sostanziale e, di contro, neppure le cose lo sono: l'Io è infatti una entità vuota (è "vacuità"), priva di consistenza, composta da una serie di fenomeni che, nella loro molteplicità, ingannevolmente ci danno l'impressione di essere "qualcuno" o qualcosa di compiuto e di unitario; le cose sono infine mera illusione, un velo che è stato posto da una Divinità dinanzi ai nostri occhi (il velo di Maya), e che deve essere squarciato al fine del raggiungimento della consapevolezza della vera realtà.

 

 

L'intera creazione è, pertanto, un alcunché di apparente e vacuo, e cela un Essere che, non essendo accessibile né ai sensi, né tantomeno alla ragione che così tanto hanno valore per la nostra cultura scientifica, va sentito e intuito per mezzo di una vera e propria illuminazione (il satori). Illuminandosi, l'adepto "comprende" finalmente la realtà delle cose che sono così come sono, e può quindi procedere nella sua esistenza in maniera cosciente, come un risvegliato che si avvii verso la propria anelata estinzione. Che il saggio indù e il seguace del Buddha abbiano poi elaborato, rispettivamente, dei metodi alternativi di raggiungimento di quell'unica meta, e differenti ermeneutiche della medesima visione fondamentale, ciò non ha alcuna importanza: il centro metafisico da cui si dipartono le loro particolari filosofie resta infatti lo stesso. 

 

Ma come può credere un occidentale, nell'epoca dell'esaltazione dell'Ego sopra ogni cosa; nell'era in cui, annunciata la morte di Dio, l'essere umano si è autoproclamato simile a ogni Divinità; qui dove le cose non hanno valore se non nella proprietà e nell'utilità pratica, e dove le azioni sono nulle se non conducono al successo, ovvero alla ricchezza e al potere; come può un occidentale credere, dunque, di poter assimilarsi allo spirito orientale? L'Occidente non può che banalizzare ogni retaggio che viene dall'Oriente, mistificandone il contenuto, smarrendone il significato genuino e il senso originario. Ne sono un esempio le pratiche indù dello Yoga e del vegetarianesimo, divenuto, il primo, spesso solamente un esercizio corporeo di elasticità e respirazione, invece che una ricerca di contatto con l'Essere autentico e una partecipazione mistica alla Natura divina (sia essa nominata Brahman o Natura di Buddha), tramite la cancellazione delle proprie pulsioni desideranti; il secondo, divenuto in molti casi una mera questione di salute biologica e di fanatico (e parziale) rispetto delle forme di vita – non però tutte le forme in genere –, ma le sole forme animali, come se le forme vegetali non meritassero, in quanto vive e senzienti, la medesima considerazione. E, inoltre, ne è un esempio quello pseudo-buddismo che oggi fa proseliti tra le fila delle personalità psicologicamente fragili e infelici, e che si richiama a un monaco buddista giapponese che già al suo tempo venne reputato un eretico, avendo egli semplificato l'intero canone buddista, composto di innumerevoli sutra, ad un unico testo, le concezioni del quale vennero assolutizzate in una intolleranza che fino ad allora il Buddismo non conosceva. Codesta posizione enuncia in sintesi una convinzione, del tutto opposta alla cultura orientale: che l'esistenza terrena è essa stessa il nirvana, e che pertanto i desideri sono l'illuminazione.

 

 

In Occidente, il luogo dell'egocentrismo e dell'egoismo narcisistico; del piacere e della gioia del desiderio immediato, quando appagato; della irreprensibile volontà di potenza, una enunciazione del genere, contraddittoria in Oriente, non poteva che essere fraintesa. Ciò vuol dire che tale setta buddistica si è fatta, in definitiva, qui portatrice di una visione tutta incentrata sull'Io e sulla sua superiorità rispetto al mondo esterno: sia sopra gli altri soggetti, sia sopra gli oggetti. Di conseguenza, ha sopravvalutato l'importanza dei desideri materiali dell'Io (gli unici realmente concreti in confronto all'astrattezza dei desideri spirituali), tra cui soprattutto quelli di possesso, tramutando il Buddismo in una specie di filosofia capitalistica dove la felicità è data dall'appagamento, e dal consumo dei beni più ambiti sul mercato delle cose ottenibili che il mondo sociale offre. Una illuminazione che a me pare, osservando con occhio orientale, un totale offuscamento delle facoltà intellettuali, e una estinzione che invero condanna i fedeli a reiterare sempre lo stesso ciclo di esistenza alienante, in perenne conflitto con quegli altri che come noi bramano i medesimi beni che sono il fine ultimo dei nostri desideri. Un trionfo, insomma, della occidentale volontà di potenza.   

È necessario allora riscoprire e ripristinare la forza e l'intelligenza della vera orientalità, un'anima che si esprime sincera nelle pagine delle Upanishad e dei Tripitaka; della Bhagavad Gita e della Dhammapada. E, per far ciò, occorre far tabula rasa delle opinabili e fuorvianti interpretazioni altrui, per immergersi autonomamente, mente e cuore, nell'oceano di sapienza prodotto da quegli straordinari scritti religiosi.

 

9 agosto 2023

 









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