Dalla freccia al cerchio

 

Un modo differente di vivere il tempo sulla base della filosofia nietzschiana, del Taoismo e del comportamento dei lupi.

D.C. Zinkeisen, "Lupo a guardia della testa di Sant’ Edmondo"
D.C. Zinkeisen, "Lupo a guardia della testa di Sant’ Edmondo"

 

Noi esseri umani probabilmente diamo per scontato la nostra percezione temporale, la viviamo inconsciamente. Si direbbe che spesso il tempo vive attraverso il nostro corpo, disseminandosi in direzioni differenti, senza che noi ce ne possiamo rendere conto. Consideriamo come naturale la nostra perenne proiezione al di là del momento e arriviamo a pensare come impossibile il riuscire a stare in un unico attimo, senza coinvolgerne altri nel proprio pensiero. Eppure, le cose non stanno così per tutte le creature della terra e, se potessimo mettere da parte per un attimo il nostro orgoglio intellettuale di autoproclamate creature superiori e usassimo davvero questo intelletto, potremmo lasciarci ispirare da altre creature che vivono il mondo in maniera diversa.

 

Probabilmente, questa perenne proiezione in avanti o indietro costituisce davvero la natura temporale dell’essere umano, e sicuramente questa nostra peculiare “conformazione” ha i suoi pregi oltre che i suoi difetti. Essa ci garantisce la sopravvivenza, questo è certo, ma è anche avvertita come dannazione, poiché questa “freccia del tempo”, come la definisce il filosofo americano Mark Rowlands, è sempre protesa in avanti e, andando sempre più avanti, vi è una fine della quale siamo consci e questa coscienza ci espone a una maggiore fragilità rispetto ad alcuni animali, come i lupi e i cani, che hanno una percezione temporale diversa dalla nostra. Una percezione che non è una freccia, distesa e lineare, protesa in avanti, ma che è di natura circolare.

 

Noi, però, non siamo come quegli animali e non potremmo mai esserlo, eppure ciò non toglie il fatto che possiamo apprendere qualcosa da loro e scambiare, per un attimo, i due ruoli; cessare di essere per un momento gli educatori di bestie, quelli che insegnano loro come comportarsi, cioè come meglio aderire alla vita umana e diventare gli apprendisti di qualcosa che non conosciamo. Di questa concezione alternativa se ne è parlato fin dall’antichità, a partire dalla tradizione Taoista cinese, passando poi per le considerazioni etiche degli stoici riguardo a come viviamo il tempo, per pensatori come Pascal, fino ad arrivare alla teoria dell’eterno ritorno in Nietzsche. Un eterno ritorno vissuto, nella narrazione simbolica del Così parlò Zarathustra, dal fanciullo, la terza e ultima figura delle metamorfosi dello spirito descritte nel primo capitolo dell’opera.

 

Probabilmente, il motivo per cui Nietzsche pone il fanciullo come ultimo passaggio delle tre metamorfosi è legato a un concetto di tempo che egli propone più avanti nell’opera, un tempo diverso da quello lineare che, come sappiamo, l’autore addita alla tradizione cristiana. Ma il percepire il tempo linearmente non è un fatto che appartiene solo al cristianesimo, anzi, esso potrebbe aver portato alla luce una concezione intima che l’uomo ha sempre avuto del tempo, ossia la sua essenziale linearità. Come Heidegger dice, noi siamo esseri temporali, siamo indistricabili dal tempo, pensiamo e agiamo in funzione del tempo, ma che vuol dire? Vuol dire che viviamo proiettati in progettualità, in un costante essere-per, distesi lungo una linea che si estende sempre al di là di noi, verso il futuro. Noi stessi siamo quella “freccia del tempo” accennata poco fa. E infatti Heidegger descrive l’esserci, ovvero l’uomo, come un essere-per-la-morte. Il presente è per noi il banco di lavoro del futuro e il passato le nostre competenze acquisite con l’esperienza. Dunque, siamo per forza manchevoli del presente, che è un attimo effimero, attraversato nella sua trasparenza da due altri tempi, il passato e il futuro.

 

Aprendo le pagine del testo taoista per eccellenza, il Tao te Ching, ci viene offerta spesso la dimensione temporale propria del saggio in rapporto alla visione dell’uomo comune. Il saggio è colui che «dimentica costantemente se stesso, ma non viene mai dimenticato», poiché, dimorando nel presente, egli non è più disteso lungo la linea temporale dell’essere-per, della progettualità dell’io ed è simile alla condizione di oblio che è propria del fanciullo nietzschiano. 

 

« Il fanciullo è innocenza e oblio, un nuovo cominciamento e un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un sacro “sì” » (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra).

 

Il testo cinese poi prosegue la sua descrizione del Tao fra continue polarità e contraddizioni, che sono endemiche della realtà e, dunque, del Tao stesso, a sottolineare la natura circolare dell’esistenza, poiché nel cerchio non c’è differenziazione ed ogni segmento è congiunto all’altro, le polarità sono il suo corpo e dunque esso è un simbolo “al di là del bene e del male”. Vi può essere differenza soltanto nella temporalità distesa, nella “realtà orizzontale”, che permette di individuare la singolarità delle cose, scandita dai momenti in cui esse si manifestano. Ma nella visione taoista la realtà è un’unità non suddivisibile in frammenti separati fra loro. Ogni momento viene raccolto dalle braccia dell’unità del Tao, che cinge a sé ogni cosa nell’attimo presente e, pertanto, è essenzialmente contraddittorio, dal momento che tiene dentro di sé ogni aspetto del reale allo stesso momento. Per comprendere questa posizione filosofica basti pensare all’emblema, ormai divenuto un classico ai limiti del pop, dello Yin/Yang, in cui ciascuna della due parti, la bianca e la nera, contiene in sé un frammento della sua controparte. 

 

 

« Percepisci il suo antico cuore sottile e diventerai maestro del presente. Conosci ciò che era prima del tempo e possiederai l’inizio della saggezza. » (Lao Tzu, Tao Te Ching)

 

Su una simile linea di pensiero si muove il filosofo francese Blaise Pascal, dove nei Pensieri scrive:

 

« Ognuno esamini i suoi pensieri. Li troverà tutti occupati dal passato e dall’avvenire. Noi non pensiamo quasi affatto al presente, e se ci pensiamo è solo per prenderne luce per disporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine. Il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e disponendoci sempre ad essere felici è inevitabile che non lo siamo mai. » 

 

Qui il pensiero di Pascal tocca anche l’etica del tempo, sottolineando come l’essere delle creature temporali, precisamente proiettate in tempi che non viviamo, possa essere un fondamentale ostacolo alla nostra felicità. L’interrogativo che sorge spontaneo a questo punto è: presa coscienza della natura strettamente temporale dell’essere umano, è possibile per esso vivere un tempo presente e non proiettato al di là di se stesso? Non occorrerebbe, forse, per fare questo passo, ri-pensare l’umano o pensare a un suo superamento e, dunque, a un superamento della concezione lineare del tempo che costituisce la nostra stessa ossatura ontologica? Questo è quanto si chiede Nietzsche nello Zarathustra ed ecco che, allora, potremo leggere la teoria superomistica in chiave temporale:

 

«Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato». Queste tuonanti parole del pensatore tedesco, dal tono quasi “messianico”, sono inscindibili dall’altra dottrina da egli proposta, di non minore importanza, quella dell’eterno ritorno. A questo punto non è più un caso il fatto che Nietzsche proponga una nuova visione dell’uomo e del tempo. Se si evolve un fattore, anche l’altro deve seguirlo di conseguenza, poiché questa è la peculiare antropologia temporale a cui siamo sottoposti, il fatto che non esista l’uomo senza tempo. 

 

Uroboro disegnato nel 1478 da Theodoros Pelecanos in un trattato alchemico intitolato Synosius.
Uroboro disegnato nel 1478 da Theodoros Pelecanos in un trattato alchemico intitolato Synosius.

Allora si tenta di pensare un tempo diverso, un tempo non più disteso linearmente, ma ciclico, in cui ogni azione è destinata a ripetersi, ogni evento a rispecchiarsi in se stesso in un ciclo eterno. È una visione unitaria che funge anche da “test esistenziale”, citando Mark Rowland, un test in cui chiedere a noi stessi se siamo disposti a rivivere i nostri momenti per l’eternità, una minaccia demoniaca o una benedizione divina per dare valore alle nostre azioni, per scegliere quale eternità vogliamo, ovvero quale presente vogliamo, dal momento che non esistendo più linearità, in quest’ottica, l’eternità è già ora, nella stessa circonferenza temporale. Ciò che appare curioso è che questo sembra essere il tempo vissuto, prima che dal superuomo, da ciò che consideriamo essere ancor prima dell’uomo, ovvero gli animali.

 

Qui prendo le mosse dal libro di Mark Rowlands Il Lupo e il filosofo, in cui l’autore descrive la sostanziale differenza che distingue le scimmie (umani compresi) dai lupi in merito alla loro concezione del tempo. La scimmia è un animale calcolante, che vive progettando il suo guadagno, è capace di prevedere le mosse dell’avversario e vive in una dimensione temporale lineare, in cui è fondamentale calcolare i costi e i benefici. Non è dunque così dissimile dal nostro muoverci temporale nelle cose; anche noi umani viviamo calcolando e progettando, i nostri pensieri sono «tutti occupati dal passato e dall’avvenire» come dice Pascal e, in questo modo, siamo miserabili perditori di attimi.

 

Gli attimi sono per noi solo tasselli di tempo, figure in successione che, come in un domino, compongono il quadro di una giornata, di un anno o di una vita. Ma ciò che ci risulta veramente difficile è vivere l’eternità degli attimi. È forse possibile per noi esseri calcolanti riuscire a godere di un attimo senza giustificazioni, senza bisogno di altro, senza essere con un piede nell’attimo e con un altro fuori di esso?

 

Per i lupi le cose sembrano stare diversamente e, per spiegare ciò, M. Rowlands propone l’esempio dei suoi cani (o meglio del suo lupo e dei suoi due Malamute): ogni giorno l’autore svolgeva la stessa passeggiata, negli stessi posti, facendo mangiare ai suoi amici a quattro zampe nella stessa osteria lo stesso pasto, un pane al cioccolato di cui andavano ghiottissimi. Questa operazione durò per molto tempo, troppo tempo, almeno per noi umani che abbiamo bisogno di cambiamenti e novità continue. Ma per loro tre questo non era affatto un problema, anzi, era più di ogni altro evento un motivo di giubilo. Per loro, trovarsi davanti, ogni singolo giorno, quel pane al cioccolato era il massimo della vita, come se vivessero in un perenne oblio del giorno prima e fossero capaci di rivivere, giorno dopo giorno, l’eterno ritorno del pane al cioccolato. A loro andava benissimo così. 

 

« Avreste dovuto vedere l’espressione dei miei tre cani quando, ogni giorno, cominciavo a dividere i pains au chocolat. L’attesa fremente, i fiumi di saliva, la concentrazione così intensa da essere quasi dolorosa. Per quanto li riguardava, avrebbe potuto essere pain au chocolat da qui all’eternità. Per loro, il momento in cui le mascelle si chiudevano sul pain au chocolat era completo in se stesso, non contaminato da qualsiasi altro momento disseminato nel tempo […] Per noi, invece, nessun momento è completo in se stesso. Ogni momento è adulterato, inquinato da ciò che ricordiamo e da ciò che ci aspettiamo. »

 

Mark Rowlands con il suo lupo Brenin
Mark Rowlands con il suo lupo Brenin

 

Certi animali, come i lupi o i cani, sembrano non aver bisogno di giustificare l’attimo, ogni momento è per loro pieno in se stesso, non manchevole di nulla, il pane al cioccolato è presente e possono mangiarlo anche oggi, dopo la solita passeggiata negli stessi campi della Francia ed è perfetto così! Ma noi dimoriamo nell’imperfezione degli attimi, perché in ogni momento, per quanto piacevole, sembra esserci già il seme di altri tempi che non stiamo vivendo. Ma, dunque, è possibile per l’uomo, così com’è, poter vivere dimensioni temporali diverse? Probabilmente l’etica dell’eterno ritorno ci suggerisce di sì, se l’uomo diviene capace di sentire in sé il “senso della terra” nei suoi attimi. Cosa vuol dire questo? Che il senso della terra non manca di nulla, non è un sentimento proteso al di là di sé, ma è sempre presente, così come ogni operazione della natura è sempre in azione e, anche se diviene altro da sé, come un seme diviene fiore, agisce sempre in una presenza.

 

Così per noi potrebbe essere possibile vivere questa eternità degli attimi se il nostro istinto si abbandona a sentire quell’attimo e nient’altro, rivolgendosi al reame di sensi dentro e fuori di esso, scegliendo attivamente di abbandonarsi ad esso e non già a conservare porzioni di sé per tempi differenti. Gli attimi così sentiti sono quelli che più di tutti trovano spazio nella memoria cardiaca delle persone, ovvero nei loro ricordi più emozionanti, nei momenti più alti. Ma come può un ricordo emozionare, ovvero esercitare ancora un affetto sul corpo in un tempo diverso da quello in cui è avvenuto? Può in virtù del fatto che è stato vissuto come attimo pieno in se stesso, nella sua dignità di attimo e, proprio perché non cessa di esercitare un affetto, possiamo dire che sia “eterno”, almeno in proporzione alla nostra costituzionale finitezza temporale. Poiché per noi, esseri destinati a una fine, ciascuna emozione, vissuta tanto intensamente e pienamente nel suo darsi, ha un sapore di eternità.

 

18 settembre 2023

 









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